Annabel
Mi compro un cono gelato e mi siedo sul muretto a Venice Beach, mescolandomi alle orde di persone che vanno in spiaggia. Mi sono vestita per mimetizzarmi meglio tra loro: indosso una canotta e dei pantaloncini, con un paio di sandali chiusi con cui posso anche correre, in caso di necessità.
Non posso credere di sentirmi irritata perché Charlie Dune ha abbordato qualcuno ieri notte. Perché diavolo dovrebbe importarmi?
Non abbiamo una relazione.
Sono la sua responsabile, per l’amor del cielo.
Sì, è fico. Tutti gli agenti sul campo che ho conosciuto esercitano un certo fascino su di me. Cioè, cosa può non essere ammaliante in uomini dalla spiccata intelligenza, con corpi che sembrano vere e proprie armi? Agenti che potrebbero tranquillamente abbattere da soli un governo o dare inizio a una guerra. Agenti che sono capaci di salvare ostaggi o – secondo le voci che girano – anche uccidere a comando? So di non aver mai passato ordini del genere, ma il mio margine di autonomia non è altissimo.
Dune, come tutti gli agenti sul campo, è tutto muscoli. Non è grosso o alto, non lo sono mai. Devono essere in grado di scivolare dentro e fuori dai luoghi indicati senza farsi notare, mimetizzandosi.
Penso di aver un debole per le spie, in particolare per Dune. È successa una cosa lo scorso mese tra noi. A dire il vero, temo che sia tutto nella mia testa. Ecco perché sono un’analista dell’intelligence e non un’agente sul campo: sono eccessivamente emotiva, mi lego troppo personalmente a persone e situazioni. Mi immergo troppo. Nonostante l’addestramento di base al combattimento, non sono mai stata capace di premere il grilletto contro nessuno, neanche se ne andasse della mia vita.
Ho piegato delle regole e ho messo in mezzo il mio lavoro, per ottenere delle informazioni per Dune il mese scorso. Aveva detto di aver perso qualcuno di coinvolto con gli incendi al laboratorio. E probabilmente ho preso la cosa troppo sul personale. Perché so cosa voglia dire indagare sui segreti sporchi del nostro governo, quando c’è coinvolta una persona a cui si vuole bene.
“Cioccolato, il mio preferito,” mormora una voce bassa e profonda dietro di me.
Non sobbalzo. Sono abituata al fatto che compaia dal nulla. La cosa a cui non sono abituata è che mi si avvicini. Se non pensassi che è una follia, giurerei che si è chinato verso di me per sentire il mio odore.
Mi giro e trovo il suo viso troppo vicino al mio, e i suoi occhi verdi sembrano diventare azzurro ghiaccio alla luce del sole.
Dannazione.
Sì, è più fico di quanto ricordassi. Con una maglietta nera aderente – di quelle che si tendono perfettamente sui muscoli sodi – e un cappellino da baseball calato sugli occhi, sembra il classico e perfetto surfista californiano.
Mi ruba il cono dalle mani e dà una grossa leccata. Beh, questa cosa è completamente diversa. Stiamo praticamente condividendo la saliva.
Sta flirtando?
Oh, mi pare un po’ eccessivo. Dopo che ha saltato l’incontro della mattina per una che ha abbordato… non sapevo proprio che Dune fosse un tale dongiovanni, ma ci sta. Gli agenti sul campo non possono avere relazioni permanenti, quindi diventano dei puttanieri: si prendono quello che vogliono, dove e quando vogliono.
Stronzo.
Mi giro a guardarlo mentre fa letteralmente sparire il mio cono gelato. Cioè, non avevo idea che potesse mangiare un cono così velocemente.
Quindi mi sa che non stiamo condividendo la saliva.
Ha la grazia di mostrarsi imbarazzato, mentre si lecca le ultime gocce e briciole dalle dita.
“Te ne compro un altro.”
Alzo gli occhi al cielo. “Non ti preoccupare. L’avevo preso solo come copertura.”
“Qual è l’incarico?”
Non posso evitare che la mia irritazione affiori in superficie, anche se è sempre molto professionale.
“La tua latitanza di stamattina potrebbe esserci costata la missione.”
Il suo volto resta impassibile, e sotto al cappellino i suoi occhi continuano a scrutare il paesaggio, come se stesse osservando ogni persona che passa e ogni dettaglio dei dintorni. È così dannatamente attento.
“Sistemerò tutto. Qual è la missione?”
Il fatto è che gli credo. Sono sicura che sistemerà tutto. È il tipo di agente che ottiene risultati, motivo per cui viene pagato un sacco.
A ogni modo, non ho mica finito di fare l’incazzata. Accendo il tablet e condivido con lui la videata. “Il bersaglio è Lucius Frangelico. Vive a Hollywood. Occupazione sconosciuta. Possibile mafioso, possibile re dello spaccio. C’è decisamente sotto qualcosa. Vogliono che gli stai dietro e lo tieni d’occhio.”
“Perché se ne occupa la CIA piuttosto che l’FBI?”
“Ha dei legami con Al Qaeda. Fa viaggi internazionali. È possibile che venda armi. Questa è un’indagine preliminare.”
“Me ne occupo io.”
“Sì, bene; è partito dalla California oggi pomeriggio su un aereo privato. Quindi ora lo devi trovare.”
Annuisce tranquillo. “Sarà fatto.”
Sono sicura che ha ragione. Ho fiducia assoluta in lui. Eppure ho sempre l’idea che mi debba delle scuse per non essersi presentato al nostro incontro di prima.
Come se mi leggesse nella mente, mi guarda negli occhi. “Scusa per stamattina. Non succederà più.”
“Dune, non mi interessa quello che fai nel tuo tempo libero, ma quando ti chiamo a rapporto devi presentarti.” So fare benissimo la stronza quando se ne presenta l’occasione.
Si passa una mano sulla barba rada che gli copre la mascella, sempre guardando dappertutto, con discrezione, senza muovere la testa. “Sì. Ero… impossibilitato.”
Inarco un sopracciglio. “Era così bella?”
Gira la testa di scatto e inarca le sopracciglia al massimo. “Cosa?” La sua risata è inaspettata, forse per entrambi. Scorgo del sollievo in essa, e lo metto da parte per esaminarlo più tardi. “No, non era una donna… magari!” Scuote la testa velocemente. “Cioè…” Si ferma, i suoi occhi di giada fissi sui miei.
Per un secondo nessuno di noi due parla, gli sguardi intrecciati, legati. Qualcosa mi svolazza nella pancia. Le sue narici si dilatano e noto lo stesso scherzo della luce di prima, che gli fa apparire gli occhi azzurri. Schiudo le labbra, sorpresa, e il suo sguardo si sposta lì.
“Non era una donna.” La sua voce è più profonda di quanto ricordassi.
“E allora cos’era?” La mia, di voce, ha perso tutta l’autorità. Mi sembra pateticamente sospirata.
Scuote la testa. “Qualcos’altro.” Tutt’a un tratto mi sembra stanco, quasi sconfitto.
Sono scioccata da un subitaneo bisogno di calmarlo, di conoscere quali demoni angustino questo coraggioso guerriero. Cosa nasconde sotto a quella maschera impenetrabile di letale competenza?
“Senti.” Mi posa una mano alla base del collo, proprio dove si intrecciano le spalline della canotta. Una scossa di energia mi pervade in risposta a quel leggero contatto, e dei brividi di piacere mi scorrono sulla pelle. So che è solo per le apparenze: stiamo recitando la parte di una coppietta che flirta sulla spiaggia, ma la pulsazione che sento in mezzo alle gambe non lo capisce. “Voglio ringraziarti per l’aiuto che mi hai dato lo scorso mese. Hai contribuito a salvare un bambino rapito, quindi… hai fatto la differenza.”
La mia mente vuole arrivare a scoprire chi sia quel bambino che voleva salvare – suo, di un amico – ma non riesco a concentrarmi su nient’altro che i cerchi che mi sta disegnando sulla pelle. Il mio respiro accelera.
“Sono contenta di essere stata di aiuto.”
“Sono in debito. Chiamami, quando ne avrai bisogno.”
Mi si induriscono i capezzoli. “Oh, certo.” La sicurezza torna nella mia voce, ma per qualche inspiegabile motivo scelgo questo momento per arrossire. Forse a causa di quello sguardo penetrante, come se stesse tentando di capire per quale possibile motivo potrei avere bisogno di un favore da parte sua.
Spero con tutta me stessa di non averne mai bisogno. Ma la cartella che gli passo non è l’unica raccolta di dati che ho hackerato. E considerato il dipartimento del governo per cui lavoro, le conseguenze potrebbero essere più gravi di uno schiaffetto sulla mano. Non si sa mai.
Quindi, avere un amico capace di proteggermi la vita potrebbe tornarmi utile.
“Hai caricato le informazioni?” mi chiede, portando il dito sul tablet e tornando in modalità-lavoro.
“Sì.” Annuisco. “Fammi sapere quando hai finito.”
“Certo.” Fa per allontanarsi, ma poi si gira. “Annabel.”
Non mi ha mai chiamato per nome prima d’ora. Mi fa un effetto strano, come se mi avesse presa per la gola, ma in senso buono. Ottiene la mia totale attenzione: i miei capezzoli turgidi pulsano, sento i brividi sulla pelle.
“Sei in qualche guaio?”
Esito, poi scuoto la testa. Non ancora.
Annuisce. “Dimmelo, quando ce ne sarà bisogno.”
Poi se ne va, scomparendo in mezzo alla folla alla stessa velocità con cui era apparso.
Giusto. Gli dirò quando ce ne sarà bisogno.
Spero davvero che quel momento non giunga.
E allora perché l’idea di non condividere il mio segreto con lui mi delude tanto?