III
S’incamminarono insieme, adagio adagio, verso l’albergo. Ella lo pregò di aspettarla un momento nel vestibolo, poi ritornò e gli fece cenno di seguirla.
Lo condusse al primo piano e lo introdusse in un salotto dove egli vide la signora De Warentz addormentata su una poltrona accanto al fuoco, con un romanzo sulle ginocchia.
La stanza non era un comune salotto d’albergo; era stata ammobiliata artisticamente e rimessa a nuovo da un decoratore parigino prima che le signore vi si stabilissero per un lungo soggiorno.
La vecchia signora si svegliò di soprassalto al leggero rumore che i due fecero entrando. Salutò Hellier con un grazioso inchino, poi si sprofondò di nuovo nella sua poltrona, mentre la ragazza, dopo essersi levata i guanti, si dirigeva verso una porta che conduceva in un’altra stanza, l’apriva e faceva cenno al giovane di seguirla.
Egli entrò dietro di lei in una camera da letto che doveva essere quella di Cecilia. Su un tavolino erano ricchi ed eleganti oggetti da toletta. Il letto e il resto del mobilio erano di una semplicità estrema, ma di un gusto squisito.
Su una tavola, in un angolo, si vedeva una cosa nera e informe ricoperta da un crespo. La ragazza vi si avvicinò e tolse quel nero involucro che ricopriva un busto.
Era un busto d’uomo, un’artistica scultura in marmo.
L’uomo che rappresentava doveva essere nel pieno della virilità; aveva la barba e punta e il viso affabile e sorridente. Era quella la fisionomia di un uomo che ama la vita e la sa godere. Osservandolo, chiunque avrebbe detto: «Ecco un uomo che può avere agito spensieratamente, ma certo incapace di fare scientemente del male a qualcuno. È un viso che ispira la piú completa fiducia».
— Era mio padre – disse la ragazza mentre Hellier osservava il magnifico marmo che un abilissimo artista aveva animato al punto da farlo quasi parlare, ridere e diffondere attorno a sé un’atmosfera di serenità.
— Era mio padre... e si vuole affermare che era un assassino...
Hellier si volse sussultando e si passò una mano sulla fronte: era incapace di proferir parola. Quella fulminea rivelazione era stata pronunciata con voce straordinariamente calma, quella calma che diceva in sé tutta l’immensità della sofferenza, della vergogna, della rovina da cui la ragazza doveva essere stata colpita.
Ella ricollocò il velo funebre sul busto; poi ricondusse il giovane nel salotto; ma sulla soglia della porta di comunicazione Hellier, incapace di parlare, incapace persino di pensare a ciò che avrebbe dovuto o potuto dire, le prese la mano e gliela strinse forte.
— Grazie – rispose ella a quella silenziosa protesta d’affetto.
Ritornati nel salotto, senza preoccuparsi della vecchia signora tuttora seduta accanto al fuoco, si installarono nel vano d’una finestra.
Nel fargli le sue confidenze ella non lo guardava, ma teneva gli occhi fissi fuori dalla finestra sulla folla dei passanti che andava e veniva.
— Sono passati otto anni – disse. – Non ho cambiato. nome e voi dovete aver sentito parlare de «Il caso Lefarge».
Ella rimase un momento pensosa.
— È stato dunque otto anni fa – riprese. – Non mi dilungherò in particolari, è inutile. Eravamo in primavera. Un artista lavorava al busto di mio padre. Quest’artista si chiamava Müller: aveva un viso da demonio. Non l’ho veduto che due volte, eppure la sua fisionomia ossessiona ancora i miei sogni. Lo vedo ancora davanti a me mentre ve ne parlo. Era un viso pallido, devastato, il viso dell’uomo che conosce tutti i vizi.
«Era un grande artista, un tedesco che, come vi ho detto si chiamava Müller. Molti lo consideravano un po’ pazzo. Il mio papà che adoravo, gli aveva permesso di fare il suo busto; posò due volte e lo invitò due volte a casa nostra. La prima volta che lo vidi ebbi la sensazione d’essere in presenza d’un demonio incarnato. Supplicai mio padre di non iniziare nessuna relazione con quell’individuo, ma mio padre rise di me; egli non aveva paura di niente, era troppo buono.
«Un giorno egli andò allo studio di Müller per una posa. Ed ora, ascoltatemi bene, amico mio. Ecco ciò che si afferma: egli andò da Müller e l’assassinò. L’assassinò, poi scomparve e nessuno lo rivide mai piú. Aveva decapitato Müller del quale si trovò il corpo privo della testa, nel suo studio. Questo è ciò che è stato detto, ma mio padre non l’ha fatto, lo so, lo sento, lo sento qui.»
E si pose la mano sul cuore.
— È terribile! – mormorò Hellier.
— Terribile, sí, ma non potete sapere quanto! E ora, capite perché è impossibile?
— Ma se si riescisse a provare la sua innocenza?
— In questo caso...
Hellier le prese la mano e la strinse di nuovo.
— Ora, ascoltatemi a vostra volta – disse. – Conosco abbastanza la vita e gli uomini e ciò che sto per dirvi non è soltanto per consolarvi o per farvi piacere, ma vi dichiaro che la fisionomia che mi avete mostrata non è quella di un assassino. Se potessi sacrificar la mia vita per provare l’innocenza di vostro padre, la sacrificherei con gioia. Sono un avvocato inglese. Voi dite che c’è una barriera, che però per me non è tale, tra noi. Ebbene, farò tutti gli sforzi possibili per abbatterla. Può darsi che io non riesca a nulla, ma non tralascerò nessun tentativo. Quando un uomo lotta per colei che ama, è doppiamente armato. Ed ora, ditemi, amica mia, dove potrei trovare dei particolari inerenti a questo orribile avvenimento? Non voglio saperli da voi, sarebbe troppo penoso... Ma non avete qualche documento?
— Sí, ho tutto l’incartamento che riguarda il delitto; ve lo farò vedere. Ho assoluta fiducia in voi, non so quale istinto mi abbia spinto verso di voi quando vi ho veduto la prima volta. Forse era lo spirito di mio padre (poiché sento che egli è morto) che vi designava a me come suo vendicatore... forse anche...
Ella s’interruppe.
— Forse?
— Fors’anche un istinto mi avvertiva che sarebbe venuto un giorno...
— Un giorno?
— Un giorno in cui avrei potuto amarvi...
L’indomani, Hellier, munito dell’incartamento, ritornò a Londra.