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2 Un viaggio di studio Conakry, capoluogo della Guinea francese, e residenza del luogotenente-governatore, è oggi una città assai piacevole, le cui strade, intelligentemente tracciate secondo i piani del generale Ballay, si intersecano ad angolo retto e sono, in generale, indicate con un semplice numero d’ordine, alla moda americana. Costruita sull’isola di Tombo, è separata dal continente da uno stretto canale attraversato da un ponte dove passano cavalieri, pedoni, veicoli e anche la ferrovia che fa capolinea presso il Niger, a Kurussa. È quella la località più salubre di tutto il litorale. Quindi i rappresentanti della razza bianca sono numerosi, specialmente i francesi e gli inglesi, questi ultimi in particolare concentrati nel sobborgo di Newtown. Ma all’epoca degli avvenimenti oggetto di questa narrazione, Conakry non aveva ancora raggiunto un tale grado di prosperità ed era soltanto una grossa borgata. In quella giornata del 27 novembre, il paese era in festa. Obbedendo all’invito che il governatore, Henry Valdonne, le aveva rivolto per mezzo di manifesti, la popolazione si avviava verso il mare, disposta a ricevere calorosamente, come si richiedeva, gli illustri viaggiatori che stavano per sbarcare dal Touat, un piroscafo della compagnia Frayssinet. In effetti i personaggi che mettevano in tale subbuglio la città di Conakry erano di grande rilievo. In numero di sette, formavano l’alto personale della commissione extraparlamentare incaricata di compiere un viaggio di studio nella regione del Sudan francese, conosciuta come ansa del Niger. A dire il vero, non era assolutamente di buona voglia che il presidente del Consiglio, il signor Granchamp, e il signor Chazelle, ministro delle Colonie, avevano riunito quella commissione e organizzato quel viaggio di studio. Vi erano stati, per così dire, costretti dalla pressione della Camera e dalla necessità di chiudere un carosello oratorio che confinava con l’ostruzionismo. Qualche mese prima, a proposito della discussione relativa alla regione africana che la missione extraparlamentare doveva esplorare, la Camera si era divisa in due fazioni numericamente eguali, guidate allo scontro da due capi irriducibili. Uno di loro si chiamava Barsac, l’altro aveva nome Baudrières. Il primo, tondo, magari un tantino panciuto, portava un’opulenta barba nera tagliata a ventaglio. Era un meridionale della Provenza, dalla parlata sonora, dotato, se non di eloquenza, almeno di una certa retorica; un tipo allegro e simpatico, dopotutto. Il secondo, originario di un dipartimento del nord, lo rappresentava in lunghezza, se ci si passa questa espressione audace. Asciutto di corpo e di volto, con dei baffi cadenti che gli accentuavano le labbra sottili, angoloso e dogmatico, faceva parte della razza dei tristi. Quanto il suo collega si prodigava generosamente, tanto lui viveva ripiegato su se stesso, concedendosi il meno possibile, tenendo l’animo sigillato come la cassaforte di un avaro. Entrambi deputati di vecchia data, si erano specializzati nelle questioni coloniali e tutti erano d’accordo nel considerarli come due autorità in materia. Tuttavia – questa riflessione si impone – era veramente meraviglioso che i loro pazienti studi li avessero condotti a conclusioni del tutto opposte. Quel che era sicuro è che raramente si trovavano d’accordo. Quando Barsac trattava una questione qualsiasi, c’era da scommettere che Baudrières avrebbe domandato la parola per dire appunto tutto il contrario, cosicché i loro discorsi si annullavano e la Camera si riduceva a votare secondo le indicazioni del ministero. Ma stavolta Barsac e Baudrières non avevano voluto cedere di un pollice, e la discussione era diventata eterna. Era cominciata a proposito di un progetto di legge presentato dal primo dei due, progetto che tendeva a creare cinque seggi di deputati per il Senegambia, l’Alta Guinea e la parte del Sudan francese situata a occidente del Niger, e a concedere diritto di voto e perfino eleggibilità agli indigeni, senza distinzione di razza. Subito, come ne aveva l’abitudine, Baudrières s’era vigorosamente opposto alla tesi di Barsac e i due irriducibili avversari si erano bersagliati con una mitragliata di argomenti. L’uno, citando in appoggio alla sua opinione quella di un gran numero di militari e di borghesi che avevano percorso quelle regioni o vi avevano trafficato, presentò i negri come giunti a un grado di civiltà molto avanzato. Aggiunse che era nulla aver soppresso la schiavitù, se non si davano alle popolazioni conquistate gli stessi diritti dei loro conquistatori e a questo proposito pronunciò, in una serie di perorazioni che la Camera applaudì rumorosamente, grandi parole di libertà, di eguaglianza e di solidarietà. L’altro, al contrario, affermò che i negri imputridivano ancora nella loro vergognosa barbarie e che non si poteva pensare di consultarli più di quanto si consulti un bambino ammalato circa il rimedio da somministrargli. Aggiunse che, in ogni caso, il momento non era propizio per un’esperienza tanto pericolosa e conveniva piuttosto rafforzare le truppe di occupazione, giacché segni inquietanti autorizzavano a temere prossimi disordini in quelle regioni. Citò un gran numero di opinioni militari e borghesi, quante ne aveva evocate il suo contraddittore, concluse augurandosi un nuovo intervento armato e dichiarò con patriottica energia che il patrimonio conquistato dal sangue francese era sacro e doveva rimanere intangibile. Pure lui fu applaudito freneticamente. Il ministro delle Colonie fu molto imbarazzato nel mettere d’accordo i due appassionati oratori. In entrambe le tesi c’era del vero. Se era esatto che le popolazioni indigene che abitano l’ansa del Niger e il Senegambia sembravano incominciare ad assuefarsi al dominio francese, che l’istruzione aveva ottenuto qualche progresso tra quelle popolazioni, un tempo così profondamente ignoranti, e che la sicurezza era in via di rapido miglioramento, non era meno vero che, attualmente, la situazione tendeva a modificarsi in senso sfavorevole. Si sapeva di sommosse e di razzie. Interi villaggi erano stati abbandonati dai loro abitanti per ragioni ignote; inoltre, pur senza esagerare, bisognava registrare voci abbastanza confuse e misteriose che correvano nella savana lungo le rive del Niger e il cui senso generale era che una potenza indipendente stesse per formarsi in un luogo ancora sconosciuto del suolo africano. Siccome ognuno dei due precedenti oratori poteva, a rigor di termini, trovare nel discorso ministeriale argomenti favorevoli alla propria causa, entrambi trionfarono egualmente e la discussione continuò fino a quando un deputato, annoiatissimo, esclamò, in mezzo alla confusione: «Dal momento che non si riesce a intendersi, si vada a vedere!». Il signor Chazelle rispose che quelle terre erano già state esplorate a fondo e la necessità di scoprirle una volta di più non si imponeva affatto, ma che era comunque pronto ad adeguarsi alle decisioni della Camera, se questa avesse visto l’utilità di una missione. In tal caso, sarebbe stato lieto di associarsi a una tale impresa, mettendo la spedizione sotto la direzione di colui che avrebbero scelto i deputati. La proposta ebbe successo. Si votò seduta stante e il gabinetto fu invitato a costituire una missione che percorresse la regione compresa nell’ansa del Niger e redigesse un rapporto in base al quale la Camera avrebbe deliberato ulteriormente. L’accordo fu meno facile quando si trattò di nominare il deputato che avrebbe guidato la spedizione: per due volte, Barsac e Baudrières raccolsero un numero di voti esattamente uguale. Eppure bisognava finirla! «Perbacco! Nominateli tutti e due!» esclamò uno di quei burloni che non mancano mai in un’assemblea francese. Quell’idea fu accolta con entusiasmo dalla Camera che, senza dubbio, vi vedeva un mezzo per non sentir più parlare delle colonie per qualche mese. L’età avrebbe deciso quale dei due doveva comandare la spedizione. Verificate le date, il privilegio toccò a Barsac, più anziano del suo collega per tre giorni. Baudrières dovette dunque rassegnarsi a essere comandante in seconda, cosa di cui fu estremamente mortificato. A quel nucleo, il governo aveva poi aggiunto qualche personalità, sicuramente meno decorativa, ma forse meglio qualificata, tanto che, al suo arrivo a Conakry, la missione si componeva di sette membri, compresi Barsac e Baudrières. Tra gli altri spiccava il dottor Châtonnay, grande medico in tutti i sensi, visto che oltre a essere molto dotto era alto quasi un metro e ottanta; aveva un volto allegro, coronato da una capigliatura ricciuta, bianca come la neve, per quanto non avesse ancora cinquant’ anni, e bardato da folti baffi dello stesso colore. Era un uomo eccellente, il dottor Châtonnay, sensibile e allegro, con la risata sempre pronta che sembrava il sibilo del vapore. Si notava inoltre, tra i membri della missione, il signor Isidore Tassin, corrispondente della Società geografica, un ometto secco e tagliente, appassionatamente ed esclusivamente geografo. In quanto agli ultimi membri, i signori Poncin, Quirieu e Heyrieux, tutti e tre funzionari di diversi ministeri, non erano degni di nota. Senza segni particolari, erano gente comune. Attorno a questo nucleo ufficiale gravitava molto ufficiosamente un ottavo viaggiatore. Era un biondo dall’aria energica e decisa, si chiamava Amédée Florence e il suo mestiere consisteva nell’informare al meglio il grande quotidiano L’Expansion française, di cui era inviato. Tali furono i personaggi che sbarcarono, in quel 27 novembre, dal piroscafo Touat della Compagnia Frayssinet. L’avvenimento doveva necessariamente provocare qualche chiacchiera. Per poco che si faccia parte del personale amministrativo o governativo, non ci si accontenta più, quando ci si incontra, di stringersi la mano e di darsi il buongiorno, ma si considera indispensabile scambiare delle parole memorabili, mentre un uditorio, sempre divertito malgrado l’abitudine da quell’inguaribile formalità, si stringe attorno agli oratori. In virtù di questo protocollo, sul luogo stesso dello sbarco, il signor Valdonne, scortato dai suoi principali funzionari, che ebbe cura di presentare, augurò solennemente il benvenuto agli scelti visitatori che giungevano, se non dal cielo, almeno dal lontano oceano. D’altronde, rendiamogli giustizia, fu conciso e la sua breve arringa ottenne un meritato successo. Barsac, che gli rispose in qualità di capo della missione, prese poi la parola in questi termini: «Signor governatore, signori» pronunciò con accento riconoscente (e del mezzogiorno della Francia!), dopo aver tossito per schiarirsi la voce «i miei colleghi e io siamo profondamente commossi dalle parole che abbiamo udito. La cordialità della vostra accoglienza è per noi di favorevole augurio, al momento in cui comincia realmente un’impresa della quale, d’altronde, non esageriamo le difficoltà. Noi sappiamo che sotto la generosa amministrazione della metropoli queste contrade, un tempo esplorate in mezzo a tanti pericoli dagli arditi pionieri della patria, conoscono finalmente la pace francese, se volete autorizzare questa espressione pomposa presa in prestito dai nostri avi, i romani. È perciò che qui, sul limitare di questa bella città di Conakry, circondati dalle file compatte dei nostri compatrioti, noi abbiamo la sensazione di non aver lasciato la Francia ed è perciò che, inoltrandoci nell’interno del Paese, neppure la lasceremo, giacché le laboriose popolazioni di queste contrade sono ormai formate da cittadini di una Francia ingrandita e prolungata. Possa la nostra presenza in mezzo a loro dar la prova della vigilante sollecitudine dei pubblici poteri! Possa aumentare ancor più, se possibile, il loro affetto per la patria, la devozione alla Repubblica!». Il governatore Valdonne diede, come d’uso, il segnale per gli applausi spontanei, mentre Barsac faceva un passo indietro e Baudrières uno avanti. In seguito a interminabili conciliaboli nel gabinetto del ministro, era stato deciso che Baudrières sarebbe stato non già il vicecapo, ma il capo aggiunto della spedizione. Ora – misteriosa potenza delle parole! – ne risultava, a quanto sembra, che se Barsac prendeva la parola in una cerimonia ufficiale, Baudrières la prendeva immediatamente dopo di lui. Così era stato risolto lo spinoso problema dell’amor proprio. «Signor governatore, signori» cominciò Baudrières, tagliando corto, in tal modo, gli applausi con cui era stata salutata la perorazione del suo predecessore «mi associo pienamente alle parole dell’eminente collega e amico. Come eccellentemente ha detto, ognuno di noi si rende esattamente conto delle difficoltà e dei pericoli che può offrire la nostra esplorazione. Queste difficoltà noi le vinceremo facendo del nostro meglio. In quanto ai pericoli, non potrebbero spaventarci, poiché tra questi e noi saranno interposte le baionette francesi. Mi sia dunque permesso di inviare, fin dal nostro primo passo sulla terra d’Africa, un saluto cordiale alla scorta, che allontanerà da noi ogni ombra di pericolo. Non lasciatevi ingannare, signori, salutando questa scorta ridotta, è all’esercito – giacché in verità l’intero l’esercito non si identifica nell’umile soldato? – è all’esercito, dicevo, che dirigo il mio saluto. È dunque l’esercito, tanto caro a tutti i cuori francesi, che si assocerà ai nostri lavori ed è per opera sua che aumenteranno con questa dura impresa, come è tanto spesso accaduto grazie agli avvenimenti gloriosi a cui esso è abituato, il prestigio della patria e la grandezza della Repubblica.»
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