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La strabiliante avventura della missione Barsac

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Postumo e incompiuto, terminato e pubblicato dal figlio Michel, La strabiliante avventura della Missione Barsac inizia con una rocambolesca rapina alla Central Bank di Londra e si sposta nell’Africa Occidentale Francese, dove una missione governativa, la Missione Barsac appunto, deve appurare sul campo la possibilità di concedere il voto agli indigeni. Ma strani eventi ne intralciano il cammino. Avvincente e fantastico, secondo la migliore tradizione narrativa di Jules Verne, questo gioiello imperdibile aggiunge fra gli altri ingredienti anche una ambientazione suggestiva, onirica, quella delle avventurose esplorazioni in luoghi esotici alla fine dell’Ottocento. Questo romanzo ha ispirato il film Sahara, con Penelope Cruz.

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1 Il furto alla Central Bank Malgrado gli anni trascorsi, certamente l’audace rapina che tanto ha occupato i giornali per almeno quindici giorni sotto il nome di furto della Central Bank, e che ha avuto l’onore dei titoli stampati a lettere cubitali, non è completamente scomparsa dalla memoria di ognuno di noi. Pochi crimini, infatti, hanno eccitato la pubblica curiosità quanto questo, perché pochi ce ne sono che, al pari suo, abbiano riunito allo stesso modo l’attrattiva del mistero e l’ampiezza del misfatto e abbiano richiesto una così incredibile audacia, una così selvaggia energia per il loro compimento. Quindi, è probabile che se ne leggerà con un certo interesse il resoconto, forse incompleto, ma scrupolosamente veritiero. Se questo racconto non illumina in modo assoluto tutti i punti rimasti nell’ombra finora, porterà almeno qualche dato preciso e rettificherà o chiarirà le informazioni talvolta contraddittorie date dai giornali all’epoca. Com’è noto, il furto ha avuto per teatro l’agenzia dk della Central Bank, situata presso la Borsa di Londra, all’angolo di Threadneedle Street e di Old Broad Street, diretta a quei tempi da Mr. Lewis Robert Buxton, figlio del lord dal medesimo cognome. L’agenzia si compone essenzialmente di una vasta camera divisa in due parti disuguali da un lungo banco di quercia disposto parallelamente a due strade, che si tagliano ad angolo retto. All’incrocio di queste due vie si accede all’agenzia per mezzo di una porta vetrata, di traverso, preceduta da una specie di tamburo, allo stesso livello della strada. Entrando si scorge a sinistra, dietro una solida grata, la cassa, che, tramite una porta anch’essa dotata di griglia, comunica con l’ufficio propriamente detto, dove stanno gli impiegati. A destra, il banco di quercia è interrotto alla sua estremità da uno sportello che permette, se occorre, di passare dalla parte destinata al pubblico a quella riservata agli impiegati e viceversa. Al fondo di quest’ultima si apre prima di tutto, presso il banco, l’ufficio del direttore dell’agenzia, che è in comunicazione con una cameretta senza uscita; poi, seguendo il muro perpendicolare a Threadneedle Street, si trova un corridoio che dà accesso al vestibolo comune a tutto lo stabile al quale appartiene il locale che abbiamo descritto. Da un lato, questo vestibolo si snoda davanti alla portineria e immette su Threadneedle Street. Dall’altro, dopo esser passato dinnanzi allo scalone, conduce a una porta vetrata a due battenti, che maschera dall’esterno l’ingresso delle cantine e la scala di servizio che le sta di fronte. Questi i luoghi in cui si sono svolte le principali peripezie del dramma. Al momento in cui comincia, vale a dire esattamente alle cinque meno venti, i cinque impiegati dell’agenzia si occupano dei soliti lavori. Due di essi sono immersi nei loro calcoli. Gli altri tre rispondono ad altrettanti clienti che stanno coi gomiti appoggiati al bancone. Quanto al cassiere, protetto dalla sua grata di ferro, sta facendo il computo dei versamenti, che in quel giorno di paga raggiungono il totale imponente di 72.069 sterline, due scellini e quattro pence, ossia 1.816.393 franchi e 80 centesimi. Come abbiamo detto, l’orologio dell’agenzia segna le cinque meno venti. Nel giro di venti minuti, di conseguenza, chiuderà; la saracinesca di ferro sarà abbassata, poi, un po’ più tardi, finita la loro giornata di lavoro, gli impiegati se ne andranno. Il sordo brontolio delle carrozze e il rumore della folla giungono da fuori, attraverso i cristalli della vetrata, offuscati dal crepuscolo di quell’ultimo giorno di novembre. Fu in quel momento che la porta si aprì ed entrò un uomo. Il nuovo venuto, dopo aver gettato una rapida occhiata nell’ufficio, si voltò e fece verso l’esterno, senza dubbio rivolgendosi a un compagno rimasto sul marciapiede, un gesto con la mano destra in cui il pollice, l’indice e il medio raddrizzati mimavamo abbastanza chiaramente il numero tre. Quand’anche avesse attirato la loro attenzione, non avrebbero potuto vedere quel gesto che la porta socchiusa nascondeva loro; e quand’anche l’avessero visto, non avrebbero evidentemente potuto stabilire nessuna correlazione tra il numero delle persone allora appoggiate con i gomiti sul banco e quello delle dita levate a mo’ di segnale. Dato il segnale, se tale era, l’uomo finì di aprire la porta, la richiuse dopo essersi introdotto nell’ufficio e andò a collocarsi dietro uno dei clienti già in agenzia, manifestando così la sua intenzione di aspettare per esporre le proprie richieste non appena quel cliente avesse finito e se ne fosse andato. Uno dei due impiegati liberi si alzò, dirigendosi verso di lui gli chiese: «Desiderate, signore?». «Grazie, aspetterò» disse il nuovo venuto, accompagnando la sua risposta con un movimento della mano destinato a far comprendere che voleva precisamente avere a che fare con l’impiegato vicino al quale si era fermato. L’uomo che lo aveva cortesemente interpellato tornò a sedere senza insistere e riprese il proprio lavoro, con la coscienza tranquillizzata da quel tentativo di zelo, soddisfatto dal risultato negativo che aveva ottenuto. Il nuovo arrivato aspettò dunque, senza che più nessuno badasse a lui. Tuttavia, la stranezza del suo aspetto avrebbe giustificato un esame più serio. Era un pezzo d’uomo di alta statura che, a giudicare dalle spalle quadrate, doveva possedere una forza poco comune. Una magnifica barba bionda incorniciava il suo volto dalla tinta bronzea. Quanto alla sua condizione sociale, nulla si poteva intuire dall’abbigliamento, giacché un lungo spolverino di seta grezza lo ricopriva fino ai piedi. Quando il cliente dietro al quale aveva preso posto finì ciò che doveva fare, venne il turno dell’uomo dallo spolverino, che intrattenne a sua volta il rappresentante della Central Bank sulle operazioni che desiderava svolgere. Frattanto, il cliente che lo aveva preceduto apriva la porta esterna e usciva dall’agenzia. La porta si riaprì immediatamente per lasciare il passo a un secondo personaggio, tanto strano quanto il primo, del quale sembrava fosse, per così dire, la copia. Stessa statura, stessa larghezza di spalle, stessa barba bionda intorno a un viso sensibilmente abbronzato, stesso lungo spolverino di seta grezza che nascondeva gli abiti del proprietario. Il secondo personaggio si comportò esattamente come il suo sosia. Anche lui aspettò pazientemente dietro a una delle due persone ancora davanti al banco, poi, arrivato il suo turno, conversò con l’impiegato libero, mentre il cliente usciva sulla via. Così com’era accaduto prima, la porta si riaprì subito. Un terzo individuo fece il proprio ingresso e andò a mettersi in fila dietro al solo rimasto dei tre avventori precedenti. Di statura media, largo e tozzo, il volto abbronzato e reso più scuro da una barba nera, gli abiti coperti da un lungo soprabito grigio, quel terzo individuo presentava allo stesso tempo delle differenze e delle analogie con coloro che, prima di lui, si erano mossi con le medesime cadenze. Finalmente, quando l’ultimo dei tre che si trovavano precedentemente nell’agenzia terminò e cedette il posto, la porta subito riaperta diede il passo a una coppia di uomini. I due, di cui uno sembrava dotato di una forza erculea, erano vestiti entrambi con quei lunghi pastrani a sacco comunemente noti sotto il nome di ulster, che il rigore della stagione ancora non giustificava; come per i primi tre, un’abbondante barba nascondeva i loro volti bruciati dal sole. Entrarono in modo bizzarro: il più alto si fermò in una posizione tale da nascondere il proprio compagno che intanto, fingendo di essersi impigliato nella serratura, la sottoponeva a un’operazione misteriosa. La sosta, tuttavia, durò solamente un attimo e la porta fu ben presto richiusa. Ma da quel momento, se la maniglia interna, che permetteva di uscire, era ancora al suo posto, la maniglia esterna era scomparsa. Perciò da fuori nessuno poteva più entrare nell’ufficio. In quanto a bussare al vetro per tentare di farsi aprire, certamente nessuno lo avrebbe fatto, giacché un avviso affisso alla porta, all’insaputa degli interessati, annunciava al pubblico che l’agenzia era irrevocabilmente chiusa per quel giorno. Gli impiegati non avevano alcun sospetto di essere stati in tal modo isolati dal resto del mondo. D’altronde, anche se lo avessero saputo, non avrebbero potuto che riderne. Perché mai allarmarsi in pieno centro città, nel momento di maggiore attività della giornata, quando giungeva fino a loro l’eco del traffico intenso della strada da cui li separava soltanto una sottile vetrata? I due impiegati rimasti fecero avvicinare i nuovi venuti, con aria amabile, perché avevano costatato che l’orologio segnava quasi le cinque. Di conseguenza, la visita di quei seccatori sarebbe stata breve e sarebbe stato legittimo liquidarli entro cinque minuti al massimo. Uno dei clienti accettò i servizi che gli venivano offerti, mentre l’altro, il più alto di statura, li declinava e chiedeva di parlare al direttore. «Vado a vedere se c’è» gli fu risposto. L’impiegato entrò nella porta posta in fondo alla parte dell’ufficio vietata al pubblico e ricomparve subito. «Se volete favorire di entrare…» propose, aprendo lo sportello all’estremità del banco. L’uomo con l’ulster obbedì all’invito ed entrò nell’ufficio del direttore, mentre l’addetto, dopo aver chiuso la porta dietro di sé, tornava al proprio lavoro. Che cosa accadde tra il direttore dell’agenzia e il suo visitatore? In seguito il personale dichiarò di non saperne nulla, di non esserselo neppure chiesto, e ciò dev’essere preso per vero. In proposito, non si poterono fare che delle ipotesi e anche adesso s’ignora la scena che si svolse in quegli istanti dietro la porta chiusa. Quel che è certo, è che non erano trascorsi due minuti da quando la porta era stata sbarrata che si aprì di nuovo e l’uomo dall’ulster riapparve sulla soglia. In modo impersonale e senza rivolgersi direttamente a nessun impiegato: «Per favore» disse in tono perfettamente calmo «il signor direttore vorrebbe parlare al cassiere». «Bene, signore!» rispose l’ impiegato che non era occupato. Si voltò e chiamò: «Store!». «Signor Barclay…» «Il direttore domanda di voi.» «Vado» rispose il cassiere. Con la precisione tipica di quelli della sua professione, gettò una cartella e tre sacchi, contenenti l’incasso della giornata, nella cassaforte spalancata, la cui pesante anta batté con un rumore sordo; poi, abbassato lo sportello, uscì dalla sua cabina protetta che chiuse accuratamente dietro di sé e si avviò verso l’ufficio del direttore davanti al quale aspettava il forestiero, che si fece da parte per lasciarlo passare, entrando subito dietro di lui. Entrato nell’ufficio, Store ebbe la sorpresa di constatare che colui che si pretendeva lo avesse chiamato non vi si trovava affatto e che l’ufficio del direttore era vuoto. Ma gli mancò il tempo per comprendere questo mistero. Assalito violentemente, con la gola stretta in una morsa d’acciaio, tentò invano di dibattersi, di gridare… le mani omicide aumentavano sempre più la presa, fino al momento in cui, senza più fiato, Store si abbatté privo di sensi sul tappeto. Nessun rumore aveva rivelato questa lotta selvaggia. Nella sala grande gli impiegati continuavano tranquillamente il lavoro; quattro di loro formavano altrettanti gruppi con i clienti, dai quali erano separati dal banco; il quinto era assorto in calcoli che riguardavano le sue mansioni. L’uomo dall’ulster prese tempo per asciugarsi la fronte bagnata da alcune gocce di sudore, poi si chinò sulla sua vittima. In un lampo, il cassiere fu imbavagliato e legato. Fatto ciò, socchiuse pian piano la porta e gettò un’occhiata nella sala. Senza dubbio quell’esame lo soddisfece, poiché tossì leggermente, come se avesse voluto attirare l’attenzione dei quattro strani clienti che ancora si attardavano là dentro. Poi, ottenuto questo scopo, con una sola spinta spalancò la porta che lo nascondeva. Fu quello il segnale – certo convenuto in anticipo – di una scena letteralmente fantastica. Mentre l’uomo dall’ulster attraversava con un balzo tutta la stanza, per piombare come un fulmine addosso al calcolatore solitario e strozzarlo senza pietà, anche gli altri impiegati subivano un’identica sorte. Il cliente più vicino all’estremità del banco varcò lo sportello e atterrò, prendendolo per le spalle, l’uomo col quale stava parlando. Degli altri tre clienti, due allungarono le braccia attraverso il banco e le loro mani si strinsero intorno al collo dei loro rispettivi interlocutori facendoli sbattere ferocemente sul piano di quercia. In quanto all’ultimo, il più piccolo di statura, non potendo afferrare l’impiegato che gli stava di fronte, dal quale lo separava una distanza troppo grande, balzò al di sopra del banco e afferrò il suo avversario alla gola, con violenza decuplicata dallo slancio.

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