Lei non mi apparteneva ancora; ma tra noi ormai c’erano solo barriere materiali, la presenza del suo padrone e la grata di ferro delle finestre.
Passavo quelle notti ad attenderla, ad attendere quel momento, a volte brevissimo, in cui potevo toccarle le braccia attraverso le terribili sbarre e baciare nell’oscurità le sue mani bianche, adorne di anelli d’Oriente.
Poi, a una certa ora del mattino, prima dell’alba, potevo, tra mille pericoli, ritornare alla mia corvetta su un mezzo concordato con gli ufficiali di guardia.
XIII
Le mie sere passavano in compagnia di Samuele. Ho visto strane cose con lui, nelle taverne dei battellieri; ho fatto studi di costume che poca gente ha potuto fare nelle corti dei miracoli e nelle losche bettole degli ebrei di Turchia. L’abito che portavo in quei tuguri era quello dei marinai turchi, il meno compromettente per traversare di notte la rada di Salonicco. Samuele spiccava in maniera singolare in simili paraggi; la sua figura bella e dolce risplendeva su quelle ombre tetre. Poco a poco mi affezionavo a lui e il suo rifiuto di servirmi con Aziyadé me lo faceva stimare ancora di più.
Ma ho visto strane cose di notte con quel vagabondo, una strana prostituzione, nelle cantine dove si consumano fino alla completa ebbrezza il mastice e il raki…
XIV
Una tiepida notte di giugno, stesi tutti e due a terra nella campagna, attendevamo le due del mattino, l’ora convenuta. Mi ricordo di quella bella notte stellata, in cui si sentiva solo il fioco rumore del mare calmo. I cipressi disegnavano lacrime nere sulla montagna, i platani masse scure; in lontananza, vecchi cippi secolari segnavano la residenza dimenticata di qualche derviscio di un tempo; l’erba secca, il muschio e i licheni avevano un buon odore; dava felicità essere in piena campagna in una simile notte, metteva gioia di vivere.
Ma Samuele sembrava subire quell’impegno notturno di pessimo umore e non mi rispondeva nemmeno.
Allora gli presi la mano per la prima volta, in segno di amicizia, e poco dopo gli dissi in spagnolo più o meno così: «Mio buon Samuele, dormi ogni notte sulla terra dura o su assi di legno; qui l’erba è migliore e profuma di timo. Dormi e dopo sarai di buon umore. Non sei contento di me? Che cosa ti ho fatto?»
La sua mano tremava nella mia e la stringeva più del necessario.
«Che volete» disse con voce cupa e tremante «che volete mi?…» (Che volete da me?…)
Qualcosa di inaudito e di tenebroso, per un momento, era passato nella testa del povero Samuele – nel vecchio Oriente tutto è possibile! – poi si era coperto il viso con le braccia ed era rimasto là, spaventato da se stesso, immobile e tremante…
Ma da quello strano istante è al mio servizio anima e corpo; rischia ogni sera la sua libertà e la sua vita entrando nella casa abitata da Aziyadé; per andare a cercarla, traversa nell’oscurità quel cimitero per lui gremito di visioni e terrori mortali; rema fino al mattino sulla sua barca per sorvegliare la nostra, o mi attende tutta la notte, dormendo alla rinfusa con cinquanta vagabondi sulla quinta lastra di pietra del molo di Salonicco. La sua personalità è come assorbita nella mia, e me lo trovo dappertutto come un’ombra, quali che siano il luogo e l’abito che ho scelto, pronto a difendere la mia vita a rischio della sua.
XV
Loti a Plumkett, sottotenente di marina
Salonicco, maggio 1876
Mio caro Plumkett,
puoi raccontarmi, senza mai annoiarmi, tutte le cose tristi, assurde o anche felici che ti passano per la testa; ti considero superiore al «gregge vile» e leggerò con piacere tutto ciò che mi scriverai.
La tua lettera mi è stata consegnata alla fine di una cena accompagnata da vino di Spagna, e ricordo che a prima vista mi ha un po’ stordito per il suo insieme originale. In effetti sei un tipo strano, ma questo lo sapevo. Sei anche un ragazzo di spirito, come è noto. Ma questa non è l’unica cosa che ho tratto dalla tua lunga lettera, te l’assicuro.
Ho visto che hai dovuto soffrire molto e questo è un punto in comune tra noi. Fanno dieci lunghi anni da quando sono stato gettato nella vita, a Londra, affidato a me stesso, a sedici anni; ho assaggiato un po’ tutti i piaceri, ma non credo che alcun genere di dolore mi sia stato risparmiato. Mi sento molto vecchio, malgrado la mia estrema giovinezza fisica, che mantengo con la scherma e l’acrobazia.
Le confidenze, del resto, non servono a nulla; basta che tu abbia sofferto perché ci sia simpatia tra noi.
Vedo inoltre che sono stato assai fortunato da ispirarti qualche affetto; te ne ringrazio. Avremo, se vuoi, ciò che chiami un’amicizia intellettuale, che ci aiuterà a trascorrere il tempo uggioso della vita.
Alla quarta pagina della tua lettera, la mano ti correva senza dubbio veloce, quando hai scritto: «un affetto e una devozione illimitati». Se hai pensato questo, mio caro amico, vedi bene che ci sono ancora in te gioventù e freschezza, e non tutto è perduto. Delle belle amicizie per tutta la vita, fino alla morte, nessuno ha sentito il fascino più di me; ma, lo sai, le si hanno a diciott’anni, a venticinque sono finite e non si ha altra devozione che per se stessi. È desolante quello che ti dico, ma terribilmente vero.
XVI
Salonicco, giugno 1876
Dava felicità, a Salonicco, compiere quelle fatiche mattutine che ci sfinivano prima dell’alba. L’aria era così leggera, il fresco così delizioso che vivere non era uno sforzo; si era come pervasi di benessere. Qualche turco cominciava a circolare, in abiti rossi, verdi o arancio, sotto le strade a volta dei bazar, appena rischiarate da una trasparente penombra.
L’ingegner Thompson giocava con me il ruolo del confidente d’opera buffa; avevamo traversato insieme le vecchie strade di quella città, alle ore più proibite e nelle tenute meno regolamentari.
La sera era per gli occhi un incanto d’altra specie: tutto era rosa o dorato. L’Olimpo aveva colori di brace o di metallo fuso e si rifletteva in un mare piatto come uno specchio. Nessun vapore nell’aria: sembrava che non ci fosse più atmosfera e che le montagne si stagliassero nel vuoto, tanto le loro creste più lontane erano terse e decise.
La sera ce ne stavamo spesso seduti sui moli dove affluiva la folla davanti a quella baia tranquilla. Gli organetti di Barberia d’Oriente suonavano lì i loro motivi bizzarri, accompagnati da campane e mezzelune; i kahveciler affollavano la strada con i loro tavolini sempre imbanditi, e non bastavano più per servire i narghilè, gli skiro, il lokum e il raki.
Samuele era felice e fiero quando lo invitavamo alla nostra tavola. Mi gironzolava intorno per comunicarmi con segni convenuti qualche incontro con Aziyadé, e tremavo d’impazienza pensando alla notte in arrivo.
XVII
Salonicco, luglio 1876
Aziyadé aveva detto a Samuele di rimanere con noi quella notte. La guardavo stupito: mi pregò di sedermi tra loro e cominciò a parlargli in turco.
Voleva un colloquio, il primo tra noi due, e Samuele doveva servire da interprete; per un mese, avvinti all’ebbrezza dei sensi, senza aver potuto scambiare nemmeno un pensiero, eravamo rimasti stranieri l’uno all’altra, fino a quella notte, come sconosciuti.
«Dove sei nato? Dove hai vissuto? Quanti anni hai? Hai una madre? Credi in Dio? Sei andato nel paese degli uomini neri? Hai avuto molte amanti? Sei un signore nel tuo paese?»
Lei era una ragazza circassa venuta a Costantinopoli da bambina con un’altra della sua età; un mercante l’aveva venduta a un vecchio turco che l’aveva allevata per darla a suo figlio; il figlio era morto, il vecchio anche; lei aveva sedici anni ed era estremamente bella; allora era stata presa da un uomo che l’aveva notata a Stambul e portata nella sua casa di Salonicco.
«Dice che il suo Dio non è lo stesso che il tuo» traduceva Samuele «e che non è ben sicura, secondo il Corano, che le donne abbiano un’anima come gli uomini; pensa che, quando sarai partito, non vi vedrete mai più, persino dopo la morte, ed è perciò che piange. Adesso» disse Samuele ridendo «chiede se vuoi gettarti nel mare con lei subito; vi lascerete colare a fondo insieme tenendovi stretti… Poi io riporterò la barca e dirò che non vi ho visto.»
«Io» dissi «sono d’accordo, a condizione che lei non pianga più; andiamo subito e dopo sarà finita.»
Aziyadé comprese e mi passò le braccia tremanti attorno al collo; ci poggiammo entrambi sull’acqua.
«Non fatelo» gridò Samuele, che ebbe paura, trattenendoci con pugno di ferro. «Vi dareste un brutto bacio là. Quando si annega ci si morde, e si fa una smorfia orribile.»
Disse questo in sabir con una crudezza selvaggia che non si può tradurre.
… Per Aziyadé era ora di ripartire, e un istante dopo ci lasciò.
XVIII
Plumkett a Loti
Londra, giugno 1876
Mio caro Loti,
ho un vago ricordo di averti inviato il mese scorso una lettera insensata, senza capo né coda. Una di quelle lettere che ti detta l’istinto, in cui l’immaginazione galoppa, seguita dalla penna che trotta, trotta e spesso inciampa come un vecchio ronzino preso a nolo.
Tali lettere non le si rilegge mai prima di chiuderle, perché in quel caso non le si spedirebbe. Digressioni più o meno pedanti di cui è inutile cercare il tema, seguite da balordaggini indegne del Tintamarre. Poi, come se non bastasse, un autopanegirico da individuo incompreso che cerca di farsi compatire, per raccogliere i complimenti che sei tanto buono da inviargli. Conclusione: tutto sommamente ridicolo.
E le proteste di devozione! – oh, allora il vecchio ronzino prendeva il morso tra i denti! Tu rispondi a questa parte della mia lettera come avrebbe potuto fare quello scrittore di diciassette secoli fa, che avendo provato ogni cosa, l’essere un grande re, un grande filosofo, un grande architetto, avere seicento donne ecc., prese tutto in tale noia e disgusto da dichiarare, nei giorni della vecchiaia, dopo aver riflettuto, che tutto era vanità.
Ciò che mi rispondevi, nello stile dell’Ecclesiaste, lo capivo bene; sono così d’accordo con te in tutto e anche in altro da dubitare fortemente di poter mai discutere con te diversamente da Pandoro con il suo gendarme. Non abbiamo nulla da imparare l’uno dall’altro sulle questioni di ordine morale.
«Le confidenze» mi dici «sono inutili.»
Concordo più che mai: mi piace avere uno sguardo d’insieme sulle persone e le cose, indovinarne i tratti generali; quanto ai dettagli, ne ho avuto sempre orrore.
«Affetto e devozione illimitati!» Che vuoi! Era uno di quei moti di bontà, uno di quei felici scatti grazie ai quali si è migliori di se stessi. Credi davvero che si sia sinceri quando si scrive così? Se sono soltanto degli scatti, con chi prendersela? … con te e con me, che non siamo responsabili della profonda imperfezione della nostra natura? Con chi ci ha creati solo per lasciarci abbozzati a metà, suscettibili alle aspirazioni più elevate, ma incapaci di azioni adeguate alle nostre idee? O con nessuno? Nel dubbio in cui ci troviamo, credo sia la cosa migliore da fare.
Grazie per quello che dici sulla freschezza dei miei sentimenti. Ma non ci credo. Sono troppo usati, o meglio li ho troppo usati perché non siano sfioriti un po’ dall’uso che ne ho fatto. Potrei dire che sono sentimenti d’occasione, e, a questo proposito, ti ricorderò che spesso si trovano ottime occasioni. Ti farò altresì notare che ci sono cose che guadagnano in solidità ciò che l’usura può aver tolto loro in brillantezza e freschezza; come esempio tratto dal nobile mestiere che esercitiamo entrambi, ti citerò la vecchia corda.
Resta inteso che ti voglio bene. Non c’è più da ripeterlo. Una volta per tutte, ti dichiaro che sei pieno di qualità e che sarei molto infelice se per colpa delle acrobazie lasciassi atrofizzare la miglior parte di te. Ciò detto, smetto di seccarti con l’affetto e l’ammirazione, per entrare in qualche dettaglio su di me.
Sto bene fisicamente e sono in cura per ciò che concerne la morale. La mia terapia consiste nello smettere di tormentarmi il cervello e frenare la mia sensibilità. Tutto è in equilibrio in questo mondo, dentro di noi come fuori. Se la sensibilità prende il sopravvento, è sempre a spese della ragione. Più sarai poeta, meno sarai geometra, e nella vita occorre un po’ di geometria e, quel che è peggio, molta aritmetica. Dio mi perdoni, credo di scriverti qualcosa di molto simile al senso comune!