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2034 Words
ISalonicco Diario di Loti I 16 maggio 1876 … Una bella giornata di maggio, un bel sole, un cielo limpido… Quando giunsero le lance straniere, i boia sui moli davano l’ultimo tocco al loro lavoro: sei impiccati eseguivano davanti alla folla l’orribile contorsione finale… Le finestre, i tetti strabordavano di spettatori; su un balcone vicino, le autorità turche sorridevano a quello spettacolo familiare. Il governo del sultano era andato al risparmio nel preparare l’esecuzione; le forche erano così basse che i piedi nudi dei condannati toccavano terra. Le loro unghie contratte grattavano sulla sabbia. II Terminata l’esecuzione, i soldati si ritirarono e i morti rimasero fino al tramonto esposti allo sguardo del popolo. I sei cadaveri, ritti in piedi, fecero fino a sera l’orribile smorfia della morte davanti al bel sole della Turchia, in mezzo ai passanti indifferenti e a gruppi silenziosi di giovani donne. III I governi di Francia e Germania avevano preteso quelle esecuzioni comuni come riparazione per il massacro di consoli che aveva fatto scalpore in Europa all’inizio della crisi orientale. Tutte le nazioni europee avevano inviato alla rada di Salonicco imponenti corazzate. L’Inghilterra fu una delle prime a presentarsi, e così vi ero giunto anch’io, su una corvetta di sua maestà. IV Un bel giorno di primavera, uno dei primi in cui ci fu permesso di circolare a Salonicco di Macedonia, poco dopo i massacri, tre giorni dopo le impiccagioni, verso le quattro di pomeriggio, mi capitò di fermarmi davanti alla porta chiusa di una vecchia moschea a guardare la lotta tra due cicogne. La scena si svolgeva in una strada del vecchio quartiere musulmano. Case cadenti costeggiavano vicoletti tortuosi, ricoperti per metà dalle sporgenze degli shaknisirs (sorta di misteriosi osservatori, grandi balconi chiusi e protetti da grate, da dove i passanti vengono occhieggiati attraverso minuscoli fori invisibili). Tra i ciottoli del selciato nero cresceva dell’avena, rami di foglie verdi correvano sui tetti; il cielo, che si intravedeva di sfuggita, era limpido e azzurro; dappertutto si respirava l’aria tiepida e il buon profumo di maggio. La popolazione di Salonicco manteneva nei nostri confronti un atteggiamento di ostile imbarazzo, così le autorità ci obbligarono a portare per le strade una sciabola e l’intero corredo di guerra. Di tanto in tanto, qualche personaggio col turbante passava lungo i muri e nessun viso di donna si mostrava dietro le grate discrete degli haremlikes; la si sarebbe detta una città morta. Mi sentivo così perfettamente solo che provai una strana impressione scorgendo vicino a me, dietro grosse sbarre di ferro, la parte superiore di un volto umano, due grandi occhi verdi fissi nei miei. Le sopracciglia erano brune, leggermente aggrottate, prossime a unirsi; l’espressione di quello sguardo era un misto di energia e ingenuità; lo si sarebbe detto lo sguardo di un bimbo, tanto era fresco e giovane. La ragazza cui appartenevano quegli occhi si alzò, mostrando fino alla cintola la sua figura avvolta in una veste turca (ferace) dalle pieghe lunghe e rigide. L’abito era di seta verde, ornato di ricami d’argento. Un velo bianco infagottava accuratamente la testa, lasciando scoperti soltanto la fronte e gli occhi grandi. Le iridi erano di un verde intenso, il verde mare cantato un tempo dai poeti d’Oriente. Quella ragazza era Aziyadé. V Aziyadé mi fissava. Davanti a un turco si sarebbe nascosta; ma un gâvur non è un uomo; tutt’al più è un oggetto di curiosità che si può contemplare liberamente. Sembrava sorpresa che uno di quegli stranieri venuti a minacciare il suo paese su terribili macchine di ferro potesse essere un giovane il cui aspetto non le suscitava né repulsione né paura. VI Tutte le lance delle squadre erano partite quando ritornai al molo; quegli occhi verdi mi avevano lievemente rapito, anche se il viso squisito nascosto dal velo bianco mi era ancora ignoto; ero ripassato tre volte davanti alla moschea delle cicogne e il tempo era volato senza che me ne fossi reso conto. Si accumulavano impossibilità tra quella ragazza e me; l’impossibilità di scambiare con lei un pensiero, di parlarle o di scriverle; il divieto di lasciare la nave dopo le sei di sera se non in armi; la probabile partenza entro otto giorni, senza ritorno, e inoltre la feroce sorveglianza degli harem. Guardai le ultime lance inglesi allontanarsi, il sole prossimo a sparire, e mi sedetti dubbioso sotto la tenda di un caffè turco. VII Presto mi si formò attorno un assembramento; era un gruppo di quegli uomini senza dimora che vivono sui moli di Salonicco, battellieri o scaricatori, che volevano sapere perché ero rimasto a terra e attendevano là, nella speranza forse che avessi bisogno dei loro servizi. In quel gruppo di macedoni notai un uomo che aveva una strana barba, separata in riccioli come le statue più antiche di quel paese; stava seduto per terra davanti a me e mi esaminava con molta curiosità; il mio abito e soprattutto i miei stivali parevano interessarlo. Si stirava con aria indolente, come un grosso gatto d’Angora, e sbadigliava mostrando due file di piccoli dentini, brillanti come perle. Aveva un viso molto bello, del resto; una grande dolcezza negli occhi che splendevano di onestà e intelligenza. Era tutto trasandato, i piedi nudi, le gambe nude, la camicia sbrindellata, ma pulito come una gatta. Quel personaggio era Samuele. VIII Quelle due creature in cui mi imbattei lo stesso giorno dovevano ben presto assumere un ruolo nella mia esistenza e rischiare, per tre mesi, la loro vita per me; se me lo avessero detto allora, mi sarei molto stupito. Tutti e due avrebbero poi abbandonato il loro paese per seguirmi, ed eravamo destinati a passare l’inverno insieme, sotto lo stesso tetto, a Stambul. IX Samuele si avventurò fino a dirmi le tre parole che sapeva in inglese: «Do you want to go on board?» (Volete salire a bordo?) E continuò in sabir: «Te portarem col la mia barca» (Ti porterò con la mia barca). Samuele capiva il sabir; pensai subito al vantaggio che si poteva trarre da un ragazzo intelligente e determinato, che parlava una lingua nota, per quell’impresa insensata che già fluttuava davanti a me come un vago abbozzo. L’oro sarebbe stato un mezzo per legare a me quel vagabondo, ma ne avevo poco. Samuele, del resto, doveva essere onesto, e chi lo è non accetta per dell’oro di fare da intermediario tra un ragazzo e una ragazza. X A William Brown, tenente della III fanteria di linea, Londra Salonicco, 2 giugno … Prima era solo un’ebbrezza dell’immaginazione e dei sensi; qualcosa in più è venuto dopo, amore o quasi; ne sono sorpreso e affascinato. Se oggi avessi potuto seguire il tuo amico Loti nelle strade di un vecchio quartiere solitario, l’avresti visto salire in una casa dall’aspetto fantastico. La porta si richiude dietro di lui misteriosamente. È il luogo prescelto per quei cambi di scena che gli sono familiari. (Una volta, ti ricordi, era per Isabelle B…, la diva: la scena era in carrozza, o in Hay Market Street, dalla padrona del Grand Martyn; vecchia storia quella dei cambi di scena, l’ambientazione orientale le presta a malapena ancora un po’ di attrattiva e novità). Inizio del melodramma. Primo quadro: un vecchio oscuro appartamento. Aspetto piuttosto miserabile, ma molto colore orientale. Narghilè gettati a terra con delle armi. Il tuo amico Loti sta nel mezzo e tre vecchie ebree gli si accalcano intorno senza dire nulla. Hanno costumi pittoreschi e nasi adunchi, lunghe vesti ornate di lustrini, zecchini infilati come collane e sulla testa kadogan di seta verde. Si danno da fare per levargli la divisa da ufficiale e vestirlo alla turca, in ginocchio per cominciare dalle calze dorate e dalle giarrettiere. Loti mantiene l’aria cupa e inquieta propria dell’eroe di un dramma lirico. Le tre vecchie gli infilano nella cintura molti pugnali con manici d’argento incrostati di corallo e lame damascate d’oro; gli passano una veste dorata dalle maniche svolazzanti e gli calzano in testa un tarbush. Poi gli dicono a gesti che è bellissimo così e vanno a cercare un grande specchio. Loti trova di non esser niente male, in effetti, e sorride tristemente di quel travestimento che potrebbe essergli fatale; poi sparisce da una porta sul retro e traversa tutta una città assurda, di bazar d’Oriente e di moschee; passa inosservato tra folle variopinte, vestite di quei colori sfavillanti che piacciono in Turchia; solo alcune donne velate di bianco al suo passaggio si dicono tra loro: «Ecco un albanese ben vestito, le sue armi sono belle». Oltre, mio caro William, sarebbe imprudente seguire il tuo amico Loti; al termine di quella corsa c’è l’amore di una donna turca, che è la donna di un turco: impresa insensata in ogni tempo, addirittura innominabile in tali circostanze. Con lei, Loti passerà un’ora di ebbrezza totale, rischiando la sua testa, la testa di molti altri e ogni sorta di complicazione diplomatica. Dirai che per arrivare a tal punto occorre una terribile riserva di egoismo; non lo nego, ma sono giunto a pensare che tutto ciò che mi piace è giusto e che occorre sempre condire nel modo migliore il pasto così insipido della vita. Non lamentarti di me, mio caro William: ti ho scritto a lungo. Non credo per nulla al tuo affetto né a quello di altri; ma, tra le persone che ho incontrato qua e là nel mondo, sei uno di quelli con cui trovo piacere nel vivere e scambiare le mie impressioni. Se nella mia lettera leggi una specie di sfogo, non me ne volere: avevo bevuto vino di Cipro. Ora mi è passato; sono salito sul ponte a respirare l’aria frizzante della sera e Salonicco aveva un aspetto miserrimo; i suoi minareti parevano un mucchio di vecchie candele, posate su una città sporca e nera dove fioriscono i vizi di Sodoma. Quando l’aria umida mi sferza come una doccia gelata e la natura assume un aspetto spento e penoso, ritorno in me stesso, e dentro di me ritrovo soltanto un vuoto nauseante e l’immensa noia di vivere. Penso di andare presto a Gerusalemme, dove cercherò di recuperare un briciolo di fede. Per ora le mie credenze religiose e filosofiche, i miei principi morali, le mie teorie sociali ecc. sono incarnate tutte in una grande figura: il gendarme. Ti rivedrò senza dubbio quest’autunno nello Yorkshire. Nell’attesa ti stringo la mano, il tuo devoto Loti XI Quegli ultimi giorni di maggio del 1876 furono un periodo veramente agitato della mia esistenza. Ero rimasto a lungo come annientato, con il cuore vuoto, inerte a forza di soffrire; ma quello stato transitorio era passato e la forza della gioventù portava il risveglio. Mi ridestavo alla vita solo; le ultime cose in cui credevo se n’erano andate e nessun freno mi tratteneva più. Una specie di amore nasceva su quelle rovine, e l’Oriente gettava il suo grande fascino sul mio risveglio, che si traduceva in un turbamento dei sensi. XII Lei era andata ad abitare con altre tre donne del suo padrone in uno yalı di campagna, in un bosco sulla strada di Monastir; là era meno sorvegliata. Di giorno sbarcavo armato. Dal mare grosso, una lancia mi gettava sempre sui moli, in mezzo alla folla di barcaioli e pescatori; Samuele, trovandosi come per caso al mio passaggio, riceveva a gesti i miei ordini per la notte. Ho passato intere giornate a vagare su quella strada per Monastir. Era una campagna nuda e triste, dove lo sguardo si stendeva a perdita d’occhio su antichi cimiteri; tombe di marmo in rovina, le cui misteriose iscrizioni erano rosicchiate dal muschio; campi cosparsi di menhir di granito; sepolture greche, bizantine, musulmane coprivano quel vecchio suolo di Macedonia dove grandi popoli del passato avevano lasciato la loro polvere. Di tanto in tanto, il profilo aguzzo di un cipresso o un platano immenso davano riparo a pastori albanesi e capre; sulla terra arida, ampi fiori di un lilla pallido spandevano un dolce profumo di caprifoglio, sotto un sole che già bruciava. I più piccoli dettagli di quel paese mi sono rimasti impressi nella memoria. La notte c’era una calma tiepida, inalterabile, un silenzio mischiato al frinire delle cicale, un’aria pura ricolma di profumi d’estate; il mare immobile, il cielo brillante così come un tempo le mie notti nei tropici.
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