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Ritorno all'Età della Pietra

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Dopo la conclusione della spedizione di Tarzan e Jason Gridley, un uomo rimane disperso nella selvaggia Pellucidar.È Wilhem von Horst, rimasto separato dal gruppo e in seguito catturato da uno pterodattilo che gli inietta una sostanza paralizzante.Inizia così un viaggio allucinante nel mondo interno, sotto il sole perenne che non dà riferimenti spazio-temporali. Tra amicizie insperate e vili tradimenti, von Horst dovrà cercare di riunirsi alla sua spedizione prima che sia troppo tardi.Quinto capitolo del ciclo di Pellucidar, pubblicato per la prima volta in italiano.

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I. La morte vivente
I. La morte viventeL’eterno sole di mezzogiorno di Pellucidar scrutava una scena che la crosta esterna della terra non aveva mai visto nelle innumerevoli epoche passate, una scena che solo il mondo interno al centro della terra può produrre oggi. Centinaia di tigri dai denti a sciabola stavano spingendo innumerevoli animali erbivori in una radura di una foresta gigantesca; e due uomini bianchi della terra esterna erano lì a guardare, due uomini bianchi e una manciata di guerrieri neri della lontana Africa. Gli uomini erano venuti in un dirigibile gigante con altri della loro specie attraverso l’apertura polare in cima al mondo per ordine urgente di Jason Gridley, ma quella è una storia che è già stata raccontata. Questa è la storia di colui che si era perso. — Non sembra possibile — esclamò Gridley, — che cinquecento miglia sotto i nostri piedi le automobili sfreccino in strade affollate e fiancheggiate da edifici enormi; che lì il telegrafo, il telefono e la radio siano così comuni da non suscitare alcun commento; che innumerevoli migliaia di persone vivano la loro intera vita senza mai dover usare un’arma per difendersi, eppure nello stesso istante ci troviamo qui ad affrontare tigri dai denti a sciabola in luoghi che potrebbero non essere esistiti sulla crosta esterna da un milione di anni. — Guardali! — esclamò von Horst. — Guarda cosa hanno già portato in questa radura, e ne stanno arrivando altri. C’erano grandi creature simili a buoi con mantelli arruffati e corna che si allargavano sulla testa. C’erano cervi rossi e bradipi di dimensioni gigantesche. C’erano mastodonti e mammut, e un’enorme creatura elefantina che assomigliava a un elefante e tuttavia non sembrava affatto un elefante. La sua grande testa era lunga quattro piedi e larga tre. Aveva una proboscide corta e potente e dalla sua mascella inferiore le possenti zanne si incurvavano verso il basso, con le punte che si piegavano verso il corpo. Alla spalla era alto almeno tre metri da terra, e in lunghezza doveva essere di ben sei metri. Ma la sua somiglianza con un elefante era attenuata dalle orecchie piccole, simili a quelle di un maiale. I due uomini bianchi, dimenticando momentaneamente le tigri dietro di loro nello stupore della vista davanti a loro, si fermarono e guardarono con meraviglia l’enorme adunata di creature all’interno della radura. Ma divenne presto evidente che se volevano salvarsi la vita, dovevano raggiungere la sicurezza degli alberi prima di essere trascinati giù dai denti a sciabola o calpestati a morte dagli erbivori spaventati che già si stavano aggirando in cerca di una via di fuga. — C’è ancora un’apertura davanti a noi, bwana — disse Muviro, il capo nero dei Waziri. — Dovremo correre — disse Gridley. — Le bestie sono tutte dirette verso di noi adesso. Diamo loro una raffica, e poi scappiamo verso gli alberi. Se caricano, ognuno per sé. La raffica li fece indietreggiare per un istante; ma quando videro i grandi felini dietro di loro, si girarono di nuovo in direzione degli uomini. — Arrivano! — gridò von Horst. Poi gli uomini si misero a correre per raggiungere gli alberi che offrivano l’unico rifugio. Gridley fu investito da un enorme bradipo; poi si rimise in piedi appena in tempo per evitare l’impatto con un mastodonte in corsa e raggiungere un albero proprio mentre il corpo principale della mandria in fuga gli si chiudeva intorno. Un momento dopo, temporaneamente al sicuro tra i rami, cercò i suoi compagni; ma nessuno era in vista, né alcun essere vivente così gracile come l’uomo avrebbe potuto rimanere vivo sotto quella solida massa di bestie saltellanti e terrorizzate. Alcuni dei suoi compagni, ne era certo, avrebbero potuto raggiungere la foresta in sicurezza; ma temeva per von Horst, che si trovava a una certa distanza dietro ai Waziri. Ma il tenente Wilhelm von Horst era scappato. Infatti, era riuscito a percorrere un po’ di strada nella foresta senza doversi arrampicare sugli alberi. Si era allontanato a destra dagli animali in fuga, che avevano virato a sinistra dopo essere entrati nella foresta. Poteva sentirli tuonare in lontananza, stridendo e strombazzando, grugnendo e muggendo. Sfinito e quasi esausto, si sedette ai piedi di un albero per riprendere fiato e riposare. Era molto stanco e solo per un momento chiuse gli occhi. Il sole era dritto sopra di lui. Quando riaprì gli occhi, il sole era ancora dritto sopra di lui. Si rese conto di essersi appisolato, ma pensò che fosse stato solo per un istante. Non sapeva di aver dormito a lungo. Per quanto tempo, chi può dirlo? Perché come si può misurare il tempo in questo mondo senza tempo in cui un sole statico pende eternamente immobile allo zenit? La foresta era stranamente silenziosa. Non sentiva più le trombe e gli strilli degli erbivori né i ringhi e le urla dei gatti. Chiamò ad alta voce per attirare l’attenzione dei suoi amici, ma non ci fu risposta; allora si mise alla loro ricerca, prendendo quella che pensava fosse una via diretta verso l’accampamento principale dove era ormeggiato il dirigibile e verso il quale sapeva che sarebbero sicuramente andati. Ma invece di andare a nord, come avrebbe dovuto fare, andò a ovest. Forse fu un bene, perché di lì a poco sentì delle voci. Si fermò e ascoltò. Degli uomini si stavano avvicinando. Li sentì distintamente, ma non riuscì a riconoscere la loro lingua. Potevano essere amichevoli; ma, in quel mondo selvaggio, ne dubitava. Si allontanò dal sentiero che aveva seguito e si nascose dietro un cespuglio, e un momento dopo gli uomini che aveva sentito apparvero alla vista. Erano Muviro e i suoi guerrieri. Parlavano il dialetto della loro tribù africana. Alla loro vista von Horst fece un passo nel sentiero. Erano contenti di vederlo quanto lui di vedere loro. Ora se avessero potuto trovare Gridley sarebbero stati felici; ma non lo trovarono, anche se cercarono a lungo. Muviro non sapeva meglio di von Horst dove si trovavano o in che direzione fosse il campo; e lui e i suoi guerrieri erano molto contrariati al pensiero che loro, i Waziri, potessero perdersi in qualsiasi foresta. Mentre confrontavano i percorsi, sembrava evidente che ognuno di essi avesse fatto un ampio giro in direzioni opposte dopo essersi separati. Solo così potevano spiegare il fatto di essersi ritrovati faccia a faccia come era effettivamente accaduto, dato che ognuno insisteva sul fatto di non essere mai tornato sui suoi passi. I Waziri non avevano dormito ed erano molto stanchi. Von Horst, al contrario, aveva dormito ed era riposato; così, quando trovarono una caverna che avrebbe dato loro un riparo, i Waziri entrarono dove era buio e dormirono, mentre von Horst sedeva a terra all’imboccatura della caverna e cercava di pianificare il futuro. Mentre sedeva lì in silenzio, passò un grosso cinghiale; e, sapendo che avrebbero avuto bisogno di carne, l’uomo si alzò e lo inseguì. Era scomparso dietro una curva del sentiero; ma anche se pensava di poterlo raggiungere, non sembrava essere in grado di vederlo di nuovo, e c’era un tale mosaico di sentieri che si incrociavano che presto si confuse e decise tornare verso la grotta. Camminò per una distanza considerevole prima di rendersi conto di essersi perso. Chiamò il nome di Muviro ad alta voce, ma non ebbe risposta; allora si fermò e cercò con molta attenzione di capire in che direzione doveva trovarsi la grotta. Guardò meccanicamente il sole, come se potesse aiutarlo. Era sospeso allo zenit. Come poteva tracciare una rotta dove non c’erano stelle ma solo un sole che pendeva perennemente dritto sopra la testa? Imprecò sottovoce e ripartì. Poteva contare solo su sé stesso. Per un tempo che gli sembrò lunghissimo continuò a camminare, ma era ancora mezzogiorno. Spesso, meccanicamente, guardava il sole, quel sole che non gli dava alcun orientamento né alcun indizio del passare del tempo, finché arrivò a odiare quella sfera splendente che sembrava prendersi gioco di lui. La foresta e la giungla pullulavano di vita. Frutti e fiori e noci crescevano a profusione. Tutta quella varietà di cibo non poteva essergli utile se non sapeva quale avrebbe potuto mangiare con sicurezza e quale no. Aveva molta fame e sete, ed era quest’ultima che lo preoccupava di più. Aveva una pistola e molte munizioni. In questo paese di selvaggina rigogliosa poteva sempre procurarsi la carne, ma doveva avere l’acqua. Si spinse avanti. Era l’acqua che cercava ora più che i suoi compagni o il campo. Cominciò a soffrire la sete, e si sentì di nuovo molto stanco e assonnato. Sparò a un grosso roditore e bevve il suo sangue; poi accese un fuoco e cucinò la carcassa. Era cotta solo a metà sotto la superficie, che era carbonizzata in alcuni punti. Il tenente Wilhelm von Horst era un uomo abituato a un cibo eccellente preparato e servito correttamente, ma strappò la carcassa della sua sgradevole preda come un lupo affamato e pensò che nessun pasto aveva mai avuto un sapore più delizioso. Non sapeva quanto tempo fosse rimasto senza cibo. Ora dormiva di nuovo, questa volta su un albero, perché aveva intravisto una grande bestia attraverso il fogliame della giungla, una bestia con zanne enormi e occhi ardenti. Di nuovo, quando si svegliò, non sapeva quanto tempo avesse dormito; ma il fatto che fosse completamente riposato suggeriva che fosse passato molto tempo. Sentiva che era del tutto possibile, in un mondo in cui non c’era tempo, che un uomo potesse dormire un giorno o una settimana. Come poteva saperlo? Il pensiero lo intrigava. Cominciò a chiedersi per quanto tempo era stato lontano dal dirigibile. Solo il fatto che non si era dissetato da quando era stato separato dai suoi compagni gli suggeriva che non poteva essere stato che un giorno o due, anche se ora stava effettivamente soffrendo la mancanza d’acqua. Era l’unica cosa a cui riusciva a pensare. Si mise a cercarla. Doveva avere l’acqua! Se non l’avesse avuta, sarebbe morto – morto qui da solo in questa terribile foresta, il suo ultimo luogo di riposo per sempre sconosciuto a qualsiasi essere umano. Von Horst era un animale sociale; e, come tale, questa idea gli ripugnava. Non aveva paura di morire; ma questa gli sembrava una fine del tutto stupida, ed era molto giovane, appena ventenne. Stava seguendo una pista di caccia. Ce n’erano molte; si incrociavano per tutta la foresta. Alcune di esse dovevano condurre all’acqua; ma quale? Aveva scelto quella che stava seguendo perché era più larga e più chiaramente segnata delle altre. Molte bestie erano passate lungo di essa e, forse, per un tempo incalcolabile, perché era consumata in profondità; e von Horst ragionò che era più probabile che molti animali avrebbero seguito un sentiero che portava all’acqua rispetto a qualsiasi altro sentiero. Aveva ragione. Quando arrivò a un piccolo fiume, emise un grido di gioia e corse verso di esso, gettandosi a faccia in giù sulla riva. Bevve a grandi sorsi. Forse avrebbe potuto fargli male, ma non lo fece. Era un piccolo fiume pulito che scorreva tra i massi su un fondo ghiaioso, una gemma di un fiume che portava nel suo seno alla foresta e alle pianure la frescura e la bellezza delle montagne che lo avevano fatto nascere. Von Horst seppellì la faccia nell’acqua, la lasciò scorrere sulle sue braccia nude, mise a coppa le mani e le immerse e si rinfrescò la testa, entusiasta. Sentiva di non aver mai conosciuto un lusso così raro, così desiderabile. I suoi problemi svanirono. Tutto sarebbe andato bene ora – aveva l’acqua! Ora era al sicuro! Guardò in alto. Sulla riva opposta del piccolo fiume si era accovacciata una creatura che non si trovava in nessun libro, le cui ossa non si trovavano in nessun museo. Assomigliava a un gigantesco canguro alato con la testa di un rettile, simile a uno pterodattilo nelle sue lunghe mascelle con molte zanne. Guardava von Horst intensamente, i suoi occhi freddi, rettiliani, senza palpebre, lo fissavano senza espressione. C’era qualcosa di terribilmente minaccioso nel suo sguardo fisso. L’uomo cominciò ad alzarsi lentamente; poi l’orribile cosa prese improvvisamente vita. Con un urlo sibilante si allontanò dal piccolo fiume con un unico poderoso balzo. Von Horst si voltò per correre, estraendo nel frattempo la pistola dalla fondina; ma prima che potesse estrarla, prima che potesse fuggire, la cosa gli piombò addosso e lo gettò a terra; poi lo raccolse con le mani simili ad artigli e lo sollevò per osservarlo. Seduto eretto sulla sua larga coda, torreggiava a quindici piedi di altezza, e a distanza ravvicinata le sue mascelle sembravano quasi abbastanza grandi da inghiottire il gracile uomo che le guardava con timore. Von Horst pensò che la sua fine fosse arrivata. Era indifeso nella potente morsa di quei possenti artigli, sotto uno dei quali la mano con la pistola era bloccata al suo fianco. La creatura sembrava gongolare su di lui, discutendo, apparentemente, su dove dare il primo morso; o almeno così sembrava a von Horst. Nel punto in cui il torrente incrociava il sentiero, c’era un’apertura nella chioma frondosa della foresta, attraverso la quale l’eterno sole di mezzogiorno gettava i suoi raggi brillanti sull’acqua increspata, sul prato verde, sulla creatura mostruosa e sul suo gracile prigioniero. Il rettile, se tale era, volse i suoi occhi freddi in su, verso l’apertura; poi balzò in alto nell’aria, e mentre lo faceva spiegò le ali e sbatté lugubremente verso l’alto. Von Horst sudava freddo per l’apprensione. Ricordava le storie che aveva letto di qualche grande uccello della crosta esterna che portava la sua preda in alto e poi la uccideva lasciandola cadere a terra. Si chiese se questo sarebbe stato il suo destino, e ringraziò il suo Creatore che sarebbero stati così pochi a piangerlo: né moglie né figli che sarebbero rimasti senza protettore, nessuna fidanzata che avrebbe pianto la sua perdita, struggendosi per l’amante che non sarebbe più tornato. Ora si trovavano sopra la foresta. Lo strano paesaggio senza orizzonte si estendeva in tutte le direzioni, svanendo gradualmente nel nulla man mano che usciva dalla portata della visione umana. Al di là della foresta, nella direzione del volo della creatura, c’era aperta campagna, colline e montagne. Von Horst poteva vedere fiumi e laghi e, in lontananza, nebulosa, ciò che sembrava essere una grande massa d’acqua: un mare interno, forse, o un vasto oceano inesplorato; ma in qualsiasi direzione egli guardasse c’era il mistero. La sua situazione non era tale da rendere la contemplazione del paesaggio un fattore di interesse vitale, ma in breve tempo qualsiasi interesse che aveva in esso fu definitivamente spazzato via. La cosa che lo portava improvvisamente abbandonò la presa con una zampa. Von Horst pensò che stesse per lasciarlo cadere, che fosse arrivata la fine. Sussurrò una piccola preghiera. La creatura lo sollevò di qualche metro e poi lo calò in una tasca scura e odorosa che tenne aperta con l’altra zampa. Quando lasciò la presa su di lui, von Horst si trovò nella più completa oscurità. Per un istante non riuscì a spiegarsi la sua situazione; poi gli venne in mente che si trovava nella tasca del ventre di un marsupiale. Faceva caldo ed era asfissiante. Pensava di soffocare, e il fetore dei rettili era quasi opprimente. Quando non riuscì più a sopportarlo, si spinse verso l’alto fino a che la sua testa non spuntò dall’apertura del marsupio. La creatura volava ormai in orizzontale, e la vista dell’uomo era limitata a ciò che si trovava quasi direttamente sotto di essa. Erano ancora sopra la foresta. Il fogliame, disteso come nuvole ondeggianti di smeraldo, sembrava morbido e invitante. Von Horst si chiese perché lo stesse portando via vivo e dove. Senza dubbio verso qualche nido o tana per servire da cibo, forse per una nidiata di piccoli orribili. Tastò la sua pistola. Come sarebbe stato facile sparare in quel corpo caldo e pulsante; ma a che cosa gli sarebbe servito? Avrebbe significato una morte quasi certa, forse una morte lenta, se non fosse stato ucciso all’istante, perché l’unica alternativa sarebbe stata una ferita mortale. Abbandonò qul pensiero. La creatura volava a una velocità sorprendente, considerando le sue dimensioni. La foresta sparì dalla vista; e sfrecciarono su una pianura alberata dove l’uomo vide innumerevoli animali che pascolavano o si riposavano. C’erano grandi cervi rossi, bradipi, enormi bovini primitivi dal manto ispido; e vicino a ciuffi di bambù che costeggiavano un fiume c’era un branco di mammut. C’erano anche altri animali, che von Horst non riuscì a classificare. Presto volarono sopra basse colline, lasciandosi alle spalle la pianura, e poi sopra un aspro paese vulcanico di colline brulle, nere, a forma di cono. Tra i coni e in parte lungo i loro fianchi, si riversa l’inevitabile vegetazione tropicale di Pellucidar. Solo dove nessuna radice poteva trovare un punto d’appoggio non c’era crescita. Una caratteristica peculiare di questi coni attirò l’attenzione di von Horst; c’era un’apertura nella cima di molti di essi, dando loro l’aspetto di vulcani estinti in miniatura. Le loro dimensioni variavano da un centinaio di metri a diverse centinaia di altezza. Mentre li contemplava, il suo rapitore cominciò a volteggiare proprio sopra uno dei coni più grandi; poi cadde rapidamente nel cratere spalancato, posandosi sul pavimento nella lama di luce proveniente dal sole sospeso perennemente allo zenit. Mentre la creatura lo trascinava fuori dal suo sacco, von Horst poté, in un primo momento, vedere poco dell’interno del cratere; ma mentre i suoi occhi si abituavano rapidamente all’oscurità circostante, vide quelli che sembravano essere le carogne di molti animali e uomini disposti in un grande cerchio intorno alla periferia del cono cavo, le loro teste verso l’esterno. Il cerchio non era del tutto completo, essendoci un unico spazio vuoto di diversi metri. Tra le teste dei corpi e la parete del cono era impilata una quantità di sfere color avorio di circa due piedi di diametro. Queste cose von Horst le osservò in un breve sguardo; poi fu sollevato di nuovo in aria. La creatura lo sollevò, a faccia in avanti, finché la sua testa fu all’incirca al livello della sua; allora l’uomo sentì un dolore acuto e nauseante nella parte posteriore del collo, alla base del cervello. Ci fu solo un istante di dolore e di nausea momentanea; poi un improvviso svanire di ogni sensazione. Era come se fosse morto dal collo in giù. Ora era consapevole di essere portato verso la parete del cono e di essere depositato sul pavimento. Poteva ancora vedere; e quando cercò di girare la testa, scoprì che poteva farlo. Vide la creatura che l’aveva portato fin lì balzare in aria, spiegare le ali e volare via tristemente attraverso la bocca del cratere.

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