III.

1614 Words
III.Si mise alla finestra e guardò le alte case, le luci, le automobili che correvano di sotto e il chiaro cielo stellato. Ora si sentiva stanco davvero. Un’altra giornata come quella e non gli sarebbe più occorso di simulare l’indisposizione. Una vittoria per un pelo, e in serie!... Desiderava essere in salvo a casa. Trovarsi sotto lo stesso tetto, con quella donna… che strano! Non aveva più passato una notte sotto lo stesso tetto con lei da quel terribile giorno del novembre ’87, che in preda a una mortale angoscia aveva girato e girato per Montpellier Square, e poi aveva trovato il giovane Jolyon sulla soglia della porta. Un amante appena morto e l’altro già sulla soglia! E lei era fuggita quella stessa notte, e mai più dopo quella notte egli era stato sotto lo stesso tetto con lei! Di nuovo quella musica! Dolce e stuzzicante! Era lei che suonava? Per scacciare quel pensiero, si recò nella sua camera da letto, e si mise a fare le valigie. Ma non gli ci volle molto tempo... Non ne aveva che una, di valigia. Doveva andare a letto? A che serviva andare a letto se non si aveva sonno? Era agitato. Gli sarebbe piaciuto vedere che aspetto aveva, se davvero era lei che, a pochi passi di là, suonava il pianoforte. Dopo quella lontana notte di novembre non l’aveva vista che sette volte... cioè otto... Due volte in quell’appartamentino di Chelsea; una vicino a quella fontana del Bois de Boulogne; una a Robin Hill quando aveva dato loro, a lei e a Jolyon, il suo ultimatum; una ai funerali dalla regina Vittoria; una sul campo da cricket dei Lord; un’altra volta a Robin Hill quando era andato a pregare per Fleur; e un’ultima volta, infine, alla Goupenor Gallery, poco prima della partenza di lei per l’America. Di ogni volta ricordava i più piccoli particolari – dell’ultima volta persino l’alzarsi della sua mano guantata, il lieve sorriso delle sue labbra... E Soames rabbrividì. Troppo riscaldate, quelle camere americane! Tornò in salotto. Avevano sparecchiato e portato il giornale della sera. Ma non giovava a nulla il giornale. Non si trovava mai nulla che interessasse in quei giornali. A tanta distanza dal passato, tanta distanza di spazio e di tempo, che aveva egli nel cuore per lei? Odio? No, la parola era troppo forte. Non si odiano mica le persone che non ci vivono accanto. E poi, lui non l’aveva mai odiata. Nemmeno quando s’era accorto della sua infedeltà. Disprezzo, allora? No... Lo aveva fatto soffrire perché potesse disprezzarla. No, egli non sapeva che cosa sentisse per lei. E cominciò a camminare su e giù, una o due volte fermandosi alla porta per origliare, come un prigioniero nella sua cella. Non era dignitoso! Andò al sofà e vi si lasciò cadere lungo disteso. Avrebbe riflettuto sui suoi viaggi... Si era divertito? Oh, era stato un gran turbinio di cose, e... e acqua. Eppure tutto si era svolto secondo il programma, salvo per la Cina, da cui si erano tenuti, date le condizioni nelle quali versava, il più lontano possibile. La Sfinge e il Taj Mahal, il porto di Vancouver e le Montagne Rocciose, ora giocavano a nascondino dentro di lui... Ed ecco quello strimpellio di pianoforte... Era lei che suonava? Strano! Sembrava non si avesse che una sola stagione di vero calore. Ogni altra cosa che vi accadeva era tiepida, e forse era provvidenziale, altrimenti la caldaia sarebbe scoppiata. Avrebbe egli voluto rivivere le emozioni degli anni in cui era stato con quella donna? Per nulla al mondo... Eppure! Qui Soames si alzò. La musica continuava, non si fermava... Ma quando si fosse fermata, non sarebbe stato più possibile vedere se la persona che suonava fosse lei o no... Perché non attraversare quel salotto, nient’altro che attraversarlo, e dare un’occhiata? E se si fosse trattato di lei... Bene, probabilmente non aveva più il fascino di una volta, quella bellezza che gli era stata fatale! Egli aveva notato la posizione del pianoforte – chi suonava si sarebbe trovato di profilo rispetto a lui. Aprì l’uscio e la musica gli giunse più forte... Avanzò furtivo. Soltanto la larghezza della camera di Fleur lo separava ora dal salotto. Non c’era nessuno nel corridoio, nemmeno un fattorino. Ma probabilmente si trattava di qualche americana, forse quella ragazza... la moglie di Jon! Eppure no, c’era qualcosa... qualcosa in quel suono! E tenendo spiegato dinanzi a sé il giornale della sera continuò ad avanzare... Tre colonne a larghi intervalli dividevano il salotto, al posto di quel che Soames rimpiangeva tanto in America: la quarta parete. Raggiunta la prima colonna egli si fermò. Una grande lampada dal paralume arancione era posata vicino alla tastiera e illuminava la musica, i tasti, la guancia e i capelli di colei che suonava. Era lei! Per quanto avesse immaginato che doveva essere grigia, ora, vedere che quei capelli non avevano più un filo dell’oro di una volta lo commosse stranamente. Ondulati, morbidi, lucenti erano come un casco d’argento... E poiché lei si trovava in abito da sera egli poté vedere che aveva le spalle, il collo e le braccia ancora torniti e belli. Dalla vita in su tutto il corpo si muoveva leggermente al ritmo della musica. L’abito era di un lilla quasi grigio. Soames rimase a guardare dietro la colonna, con la mano sulla faccia nel caso che si voltasse. Non sapeva esattamente come si sentisse – troppo rapida si svolgeva in lui la pellicola dei ricordi. Dalla prima volta che l’aveva vista in un salotto di Bournemouth all’ultima nella Goupenor Gallery, la lunga successione delle immagini di lei gli sfilava davanti con tutto il calore, tutto il gelo, e tutta l’amarezza propri di ognuna: la lunga lotta dei sensi, la lunga disfatta dello spirito, la lunga passione di dolore, e il lungo allenamento per il torpore e l’indifferenza. L’ultima cosa che desiderava, mentre era lì, sarebbe stato di parlarle, eppure non poteva toglierle gli occhi di dosso. D’improvviso smise di suonare, si piegò in avanti a chiudere la musica e allungò il braccio per spegnere la lampada. La sua faccia venne allora in piena luce e Soames, che si tirò indietro per ripararsi, la vide, ancora bella, forse più bella sebbene un po’ sciupata, con gli occhi che sembravano più neri, più grandi e dolci che in passato sotto le sopracciglia pur sempre scure. E ancora una volta provò quella sensazione: «Ecco una donna che non ho mai conosciuto». Con una specie di ira continuò a tirarsi indietro sinché non vide più nulla. Ah! lei aveva molte colpe verso di lui, ma la peggiore tra tutte era quel suo infernale mistero! E camminando come un gatto egli ritornò nella sua camera. Si sentiva mortalmente stanco adesso e subito si spogliò, si mise a letto. Desiderava con tutta l’anima di essere già a bordo, sotto la protezione della bandiera britannica. “Sono vecchio”, pensò a un tratto, “vecchio!” L’America era troppo giovane per lui, così piena di energia, cosi affannata a raggiungere mete che non gli riusciva di vedere. I paesi dell’Oriente erano diversi... Eppure non aveva che settant’anni, dopotutto. E suo padre era vissuto sino ai novanta, il vecchio Jolyon sino agli ottantacinque, Timothy sino a cento, e così via tutti i vecchi Forsyte... A settant’anni loro non avevano certo giocato al golf, pure erano stati più giovani, sì, più giovani di quanto lui non si sentisse quella sera. La vista di quella donna lo aveva... lo aveva... Ah, vecchio! “Non voglio sentirmi vecchio”, pensò. “Se mi sento di nuovo così consulterò qualcuno!” Adesso iniettavano quelle cose delle scimmie. Mai lui si sarebbe fatto iniettare quelle cose. Perché dovevano prenderle proprio dalle scimmie? Perché non dai maiali o dalle tigri invece? Si trattava di vivere altri dieci o quindici anni, in ogni caso! Allora avrebbero capito a che punto si era in Inghilterra. Quel famoso prelevamento sul capitale sarebbe esploso fino ad allora. E lui avrebbe saputo quello che poteva lasciare a Fleur. Avrebbe visto il nipotino diventare ragazzo, e andare a scuola... anche all’università, magari! Eton? No, ci era andato il giovane Jolyon a Eton. Winchester, la scuola dei Mont?... No, neppure Winchester finché ci sarebbe stato lui a impedirlo. Harrow sì, oppure Marlborough, dov’era stato lui... Forse lo avrebbe visto giocare ai Lord. Dovevano passare quindici anni prima che Kit potesse giocare ai Lord. Bene, era qualcosa cui mirare, cui tendere, qualcosa per cui tener duro... Se non c’era una cosa così, ecco che uno si sentiva vecchio. E sentirsi vecchi significava essere vecchi. E allora veniva la fine. Come si conservava bene quella donna! Quella donna!... Ma aveva anche i suoi quadri lui, poteva occuparsene con maggiore impegno. Quella Freer Gallery! Lasciarli allo Stato, i quadri... e il nome sarebbe sopravvissuto. Era confortante! Ma lei! Lei non sarebbe morta mai! Uno spiraglio di luce si aprì sul muro vicino alla porta. «Dormi, papà?» Ecco che Fleur s’era ricordata di lui, veniva a vedere come stava! «Ti senti bene, caro?» «Benissimo... Solo stanco. Com’era l’opera?» «Mediocre». «Ho lasciato detto di svegliarci alle sette. Faremo colazione in treno». Le labbra di lei gli si posarono sulla fronte. Se... se quella donna... ma mai... mai una volta... mai una volta di sua spontanea volontà...! «Buona notte», disse. «Dormi bene!» La luce sul muro si assottigliò e scomparve. Bene! Aveva sonno ora! Ma in quella casa... Forme, nient’altro che forme! Passato... presente... al pianoforte... al suo capezzale... e passavano... passavano via... e lì, dietro di loro, la grande donna dal mantello di bronzo, con gli occhi chiusi, sprofondata nell’eternità... profond... prof... E a Soames scappò a un leggero russare.
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