II.Mount Vernon! Lo spettacolo era magnifico! Con tutti quei colori sugli alberi, il pendio erboso, e sotto il grande azzurro del Potomac che, persino Soames lo ammetteva, era più imponente del Tamigi. E lassù la bassa casa bianca, dignitosa e intima, a parte i turisti, quasi inglese, gli dava una sensazione non più provata da quando aveva lasciato la patria. Ah, doveva esserne innamorato, quel George Washington! Chiunque avrebbe voluto abitare lì. Faceva venire in mente la vecchia casa di lord John Russel sulla collina di Richmond... Ma là il fiume non era così grande, e non si aveva l’impressione che sempre si aveva in America e in Canada, l’impressione che si fosse cercato di riempire la campagna e non ci si fosse riusciti... Era una paurosa immensità e pareva senza tempo!
Fleur era in estasi e il giovane Michael aveva subito notato che era “assolutamente fantastico”. Il sole scaldò la guancia di Soames mentre lui dava, dal vasto portico, un’ultima occhiata al panorama prima di entrare nella casa. Se ne sarebbe ricordato... L’America non era stata fatta tutta il giorno prima! Entrò e girò curiosando per le stanze del pianterreno. Ah, com’era tutto fatto bene! Tutto originale, tutto di un secolo e mezzo fa. Tutta roba che ricordava a Soames i bei momenti passati nei negozi di antiquari a Taunton e a Tunbridge Wells. Troppo “George Washington”, naturalmente! La brocca di George Washington, la bagnarola di George Washington, e la lettera di George Washington al tal dei tali, e la trina del colletto di George Washington, e la spada di George Washington, lo schioppo di George Washington, e via di seguito ogni minima cosa che aveva avuto a che fare con George Washington! Ma era inevitabile!
Staccato dalla calca, staccato persino dalla figlia, Soames andava avvolto, come da un mantello, dalla sua abitudine di collezionista ad apprezzare in silenzio; non poteva soffrire di essere disturbato nei propri giudizi dalle stolte imbecillità. Era arrivato al piano superiore nella camera da letto dove George Washington era morto, e stava osservando attraverso la griglia, quando sentì un suono di voci che gli gelò il sangue; le stesse voci che aveva sentito quella mattina davanti alla statua di Saint-Gaudens, e insieme a esse la voce di Michael.
C’era anche Fleur? Un’occhiata indietro bastò a rassicurarlo. No, Fleur non c’era! I tre si trovavano sul pianerottolo dello scalone e si andavano scambiando le solite frasi che è uso scambiarsi tra estranei occasionalmente interessati al medesimo soggetto.
Sentì Michael dire:
«Ne avevano di gusto, a quei tempi!»
E il giovane Jon Forsyte rispondere:
«Tutto fatto a mano, vedete!»
Soames si precipitò per le scale di servizio, urtò in una grande e grossa signora, si tirò indietro, balbettò qualcosa, e tornò a precipitarsi. Giacché non era con Michael, Fleur doveva essere col curatore... Bisognava la portasse via mentre quei tre si trovavano di sopra! Questo era il pensiero che lo occupava tutto.
Molto probabilmente Michael e Jon non si sarebbero presentati... Altrimenti avrebbe dovuto impadronirsi alla svelta anche di Michael. Ma in che modo intanto portar via Fleur? Eccola là che giusto parlava col curatore davanti al flauto di George Washington posato sul clavicembalo di George Washington nella sala di musica! Soames strinse i denti. Era disgustoso che uno si sentisse male, ancora più che uno lo fingesse... Ma d’altra parte, che fare? Mica poteva dirle: “Ne ho avuto abbastanza, andiamo!” E inghiottendo con violenza, si portò una mano al capo e si diresse verso il clavicembalo.
«Fleur!» disse. E senza lasciarle il tempo di guardarlo, continuò: «Non mi sento molto bene. Bisogna che me ne torni in vettura».
Erano parole senza dubbio da allarmare, venendo da uno avverso come lui alla teatralità.
«Oh, papà! Che hai?»
«Non so», rispose Soames. «Mi gira un po’ la testa. Dammi il braccio».
Era terribile, fingere una cosa simile... E nel camminare verso la vettura, ferma all’ingresso, fu quasi per farla finita, tanto la premura della figlia lo imbarazzava. Ma riuscì a mormorare:
«Mi sono stancato troppo, credo... O forse è questa cucina americana... Ma basterà che mi metta a sedere...»
Con suo grande sollievo essa gli si sedette accanto, tirò fuori la boccetta dei sali, e mandò l’autista a cercare Michael. Soames rimase commosso, per quanto l’annusare quei sali, che erano piuttosto forti, lo disturbasse non poco.
«Troppo chiasso per nulla», mormorò.
«Faremo meglio a rincasare subito, caro; così potrai sdraiarti», disse la figlia.
Un minuto dopo arrivava Michael di corsa. Anche lui si mostrò, parve a Soames, pieno di premura, e l’automobile partì. Rovesciato sullo schienale, con la mano nelle mani di Fleur, Soames teneva la bocca e gli occhi ermeticamente chiusi, e si sentiva forse meglio di quanto non si fosse mai sentito in vita sua. Prima di arrivare ad Alexandria schiuse le labbra per dire che aveva loro guastato la gita, ma che ora dovevano passare per Arlington e andar giù a dare un’occhiata mentre lui avrebbe aspettato in macchina. Fleur voleva tirare dritto, ma lui insistette. E come, a ogni modo, raggiunsero l’altra casa bianca in magnifica posizione anch’essa sul pendio che portava al fiume, egli aspettò in preda a una viva angoscia che visitassero il posto. Dio, se la stessa idea fosse venuta a quel Jon Forsyte! Se d’improvviso fosse arrivato anche lui con la sua macchina! Fu perciò grande il suo sollievo nel vedere Fleur e Michael uscire sani e salvi, e dire che il posto era bello, ma niente in confronto a Mount Vernon: il portico aveva le colonne troppo massicce.
Quando l’automobile si trovò di nuovo a passare per le luminose foreste Soames aprì definitivamente gli occhi.
«Mi sento di nuovo bene, adesso... Credo sia stato il fegato».
«Dovresti bere un po’ di brandy, papà... Se chiamiamo il medico, te lo può prescrivere...»
«Il medico? Assurdo chiamare il medico. Piuttosto possiamo pranzare in camera e persuadere il cameriere a portarcene un po’... Devono pur averne nella casa».
Pranzare in camera! Ecco una buona idea!
Si sdraiò sul sofà nel loro salottino, e fu commosso e grato che Fleur gli accomodasse i cuscini, schermasse la luce, e poi, leggendo, guardasse ogni momento di sopra al libro per vedere come si sentiva. Egli non ricordava di aver altre volte avuto tanta precisa sicurezza dell’amore di sua figlia. E persino pensò:
“Bisognerebbe che mi ammalassi ogni tanto!” Ma a casa, se mai gli capitava di lamentarsi della propria salute, c’era subito Annette che si lamentava più di lui.
Vicinissimo, nel piccolo salone là di fronte sul pianerottolo, qualcuno suonava il pianoforte.
«Ti dà noia questa musica, caro?» chiese Fleur.
Un pensiero balenò alla mente di Soames: “Irene!” Se davvero era Irene, e Fleur andava a pregarla di smettere, sarebbe stato cascare dalla padella nella brace!
«No, anzi mi piace», si affrettò a dire.
«Sembra che suoni bene...»
Eh già! Suonava bene, Irene! Egli ricordava come June ne era entusiasta; e come una volta aveva sorpreso Bosinney ad ascoltarla, nel piccolo salotto di Montpellier Square, con quella sua faccia da gatto selvatico che aveva. E ricordava come lei usasse smettere appena entrava lui, per riguardo o perché sentiva ch’era sprecato per lui… chissà? Non lo aveva mai saputo. Non aveva mai saputo nulla, lui! Bene, era stata un’altra vita!
Chiuse gli occhi, e subito vide Irene nel suo vestito da sera verde-smeraldo, la prima volta che erano andati a pranzo in Park Lane, dopo la luna di miele! Perché gli venivano in mente simili cose? Non c’era ragione... Ed ecco Irene che si pettinava i capelli! Doveva avergli grigi, ora, naturalmente... Aveva settant’anni lui, e lei doveva bene averne sessantadue. Come passava il tempo! I suoi capelli color feuille morte – come era solita chiamarli la zia Juley con una certa vanità per aver trovato quel termine – e gli occhi di velluto scuro!... Ah! Ma la bellezza era in quello che si faceva! eppure… chi poteva dirlo!... Forse, se egli avesse saputo esprimere quello che sentiva! Se egli avesse capito la musica! E se lei non avesse eccitato così tanto i suoi sensi! Forse! Oh, al diavolo i forse! Non si risolveva nulla coi forse! E poi, perché pensarci? In America! Ah, era buffo! Non si poteva mai dimenticare?
Fleur si ritirò a fare le valigie e a cambiarsi.
Quindi venne servita la cena. E Michael raccontò di aver conosciuto una simpatica coppia di giovani sposi a Mount Vernon.
«Lui, è un inglese, e diceva che Mount Vernon gli dava una terribile nostalgia della patria!»
«Come si chiama, Michael?»
«Come si chiama? Non gliel’ho chiesto. Perché?»
«Così! Credevo che glielo avessi chiesto».
Soames tornò a respirare. Aveva visto le orecchie di lei rizzarsi. Il sentimento che covava in lei per quel ragazzo, il figlio d’Irene, sarebbe divampato di nuovo alla minima occasione. Non per nulla era sua figlia!
«Bright Markland ha speculato sull’avvenire dell’America», disse Michael, «e ne è contento perché vi sono ancora tanti agricoltori in America... Ma ha speculato anche sull’avvenire dell’Inghilterra e ne è non meno contento... Eppure non vi sono più agricoltori in Inghilterra».
«Chi è Bright Markland?» borbottò Soames.
«Il direttore dello Scrutator... Non si è mai visto sulla terra un miglior campione di ottimismo, o di arrivismo che dir si voglia».
«Speravo», osservò Soames gravemente, «che la conoscenza diretta di questi nuovi paesi vi portasse a sentire che c’è qualcosa di buono nei vecchi, dopotutto».
Michael rise.
«Non occorre che mi si convinca, di questo... Ma vedete, io appartengo a quella che chiamano la classe privilegiata. E anche voi, credo».
Soames spalancò tanto d’occhi. Quel ragazzo diventava sarcastico!
«Bene», disse, «sarò contento di ritrovarmi a casa. Avete fatto già le valigie?»
Sì, Fleur e Michael avevano fatto già le loro valige. E cosi egli telefonò per mandare a prendere un taxi che li portasse al teatro d’opera. Bisognava impedir loro che indugiassero nella hall e scese ad accompagnarli. La partenza avvenne senza incidenti, e con un profondo sospiro di sollievo egli ritornò in ascensore e di là nella sua camera.