I.A Washington, D.C., splendeva il sole autunnale, e tutto ciò che non era sempreverde o di pietra riluceva nel cimitero di Rock Creek.
Davanti alla statua di Saint-Gaudens, Soames Forsyte sedeva, in soprabito, con la schiena contro la spalliera di marmo, godendosi la solitudine e un raggio di sole che filtrava tra i cipressi.
Era già stato in quel posto il pomeriggio precedente con la figlia e il genero, e se n’era innamorato. A parte l’attrazione in genere del cimitero, quella statua risvegliava il suo gusto d’intenditore. Anche se non era cosa che si potesse acquistare, indubbiamente era un’opera d’arte e faceva un effetto notevole. Egli non ricordava di aver mai visto una statua così in grado di farlo sentire a casa.
La grande bronzea figura verdastra di donna seduta e avvolta nelle pieghe dell’ampio mantello gli smuoveva l’animo nel profondo. Il giorno prima, con Fleur, Michael e altra gente, tutti estasiati al pari di lui, egli non aveva tanto notato lo spirito dell’opera quanto l’eccellenza della fattura, ma ora che era solo poteva abbandonarsi pienamente alle proprie sensazioni.
Alcuni la chiamavano “Dolore”, altri “Memoriale Adams”. Lui non sapeva come chiamarla, ma sapeva che era la cosa più bella che avesse visto in America malgrado tutta l’acqua del Niagara e i grattacieli di New York.
Già tre volte aveva cambiato posizione sul sedile di marmo a semicerchio, e ogni volta aveva cambiato sentimento. Dal posto attuale la donna gli appariva al di là del dolore. Sedeva in gelida rassegnazione più profonda della morte, davvero straordinaria! C’era qualcosa nella morte! Si ricordò di suo padre, James, un quarto d’ora dopo il trapasso, come se… come se finalmente sapesse tutto!
Una foglia di quercia rossa gli cadde sul bavero, un’altra sul ginocchio; Soames non le scrollò via. Era così facile, restare immobili dinanzi a quella cosa!
Avrebbero dovuto obbligare tutti gli americani a sedersi lì una volta la settimana.
Si alzò, si avvicinò alla statua e delicatamente toccò una delle pieghe di bronzo verde, come a interrogare le possibilità del nulla senza fine.
«Ho una sorella a Dallas... Sposata con un ferroviere. Ah! Il Texas è meraviglioso... Mia sorella si mette a ridere quando le dicono che il clima del Texas non è salutare».
Soames ritrasse la mano dal bronzo e tornò a sedersi. Due alte e magre figure di anziani stavano entrando nel cimitero. Andarono dritte al centro e rimasero in silenzio. Poi una disse: «Bene!» e tutte e due mossero via dall’altra parte.
Un leggero alito di vento agitò alcune foglie cadute intorno alla base della statua. Soames si spostò sul sedile sino all’estremità sinistra. Di là, la statua tornava donna – nobilissima! Ed egli si tenne immobile in attitudine di pensatore, la parte inferiore della faccia nascosta nella mano.
Piuttosto abbronzato ed evidentemente in ottime condizioni di salute, egli si era abituato a considerarsi esausto per il lungo viaggio che, compiuto il giro del mondo, sarebbe terminato tra due giorni con l’imbarco sull’Adelphic. Quella gita di tre giorni a Washington era l’ultimo sforzo, ed egli lo sopportava benissimo. La città era ridente, con begli edifici e una profusione di alberi variopinti dall’autunno; non era febbrile come New York, e pareva che nelle sue case si potesse vivere. Naturalmente era gremita di americani, ma questo era inevitabile.
Soames si sentiva contento anche per Fleur; aveva praticamente dimenticato l’increscioso affare Ferrar, mostrava di essere in ottimi rapporti con Michael, e non vedeva l’ora di tornare a casa dal suo bambino. C’era così in Soames un’impressione di adempimento e di pace – un senso di virtù che era la sua ricompensa e, soprattutto, il pensiero di poter tra breve annusare di nuovo l’erba inglese e veder scorrere il fiume davanti alle sue mucche. Anche Annette sarebbe stata contenta di riaverlo... le aveva comprato un braccialetto di smeraldi veramente bello, a New York. A questo stato di soddisfazione generale quella monumentale immagine del “Dolore” dava il tocco definitivo.
«Ci siamo, Anne».
Una voce inglese, e due giovani all’altra estremità... lì per chiacchierare, supponeva. E Soames già si preparava ad alzarsi ed andarsene quando sentì la ragazza, con voce americana stavolta, ma dolce e stranamente intima, dire:
«Ah, è, grandiosa, John! Mi scava dentro, qui...»
Dal gesto della mano Soames vide che quel "qui" era lo stesso posto dove si sentiva scavare lui.
«Che immobile eternità! Mi rende triste, John!»
Il giovane infilò il suo braccio in quello della ragazza, e mostrò il viso. Con la rapidità del pensiero, metà della faccia di Soames riaffondò allora nella mano. “John?” Era piuttosto “Jon” che quella ragazza aveva inteso chiamarlo. Poiché si trattava del giovane Jon Forsyte... senza alcun dubbio! E la ragazza era sua moglie, sorella di quel giovane americano, Francis Wilmot, che aveva conosciuto a Londra.
Che disdetta! Riconosceva perfettamente il ragazzo, per quanto non lo avesse veduto che tre volte, una nella galleria dietro a Cork Street, una dal pasticciere, lo stesso giorno, e una quel brutto pomeriggio ch’era andato a Robin Hill per pregare la sua divorziata prima moglie di lasciare che i loro figlioli si sposassero... Mai egli aveva gioito tanto di un rifiuto: mai l’opportunità degli eventi aveva avuto miglior conferma; eppure l’angoscia sofferta nel riferire a Fleur di quel rifiuto gli restava nella memoria come una rossa brace ancora accesa sotto le ceneri del tempo.
Soames volle assicurarsi, riparato dalla falda del cappello e dalla mano. Il giovane teneva la testa scoperta come per riverenza verso la statua. Si vedeva ch’era un Forsyte, malgrado quella folta chioma. Poeta... aveva sentito dire! Il viso non era male; aveva quello che chiamano fascino; gli occhi, come suo nonno, il vecchio Jolyon, profondamente infossati e del medesimo colore, grigio scuro; i lineamenti fini della testa gli venivano per lo più dalla madre, ma il mento era il mento dei Forsyte.
Soames passò a esaminare la ragazza. Piuttosto alta, colorito abbronzato pallido, capelli castani, occhi neri; grazioso il modo di muovere il collo, e grazioso il portamento; e diritta, una persona attraente! Ma come poteva averla scelta un giovane che era stato innamorato di Fleur?... Per essere americana, a ogni modo, aveva della naturalezza, con qualche cosa di ninfa, con una specie di riservatezza...
Nulla in America aveva tanto colpito Soames quanto la mancanza di riservatezza. Se uno sentiva il bisogno di un po’ d’intimità doveva staccare il ricevitore del telefono e cacciarsi nel bagno... Altrimenti chiamavano proprio mentre si andava a letto per domandarvi se eravate Mr. e Mrs. Newberg. Le case non erano divise l’una dall’altra, neppure dalle strade. In albergo le stanze erano tutte intercomunicanti, come se non ci fossero stati tutti quei banchieri nella sala...
E anche i pasti non avevano nulla di intimo. E anche se andavate a mangiare fuori era sempre la stessa cosa: aragosta, orata, tacchino, asparagi, insalata e gelato; ottimi piatti, senza dubbio, che facevano crescere di peso, ma senza nulla di riservato.
Ora quei due laggiù chiacchieravano. Riconobbe la voce del giovane.
«È la più grande cosa che sia stata fatta da mano umana in America... Noi non abbiamo una cosa altrettanto bella in Inghilterra. Mi fa venir voglia di... Bisognerà andare in Egitto».
«Oh, tua madre ne sarebbe felice, Jon... E anche io».
«Andiamo a vederla dall’altro lato».
Qui subito Soames si alzò e usci dalla nicchia. Per quanto fosse sicuro di non essere stato riconosciuto, era in preda a una viva agitazione. Un incontro ridicolo e persino pericoloso! Egli aveva viaggiato sei mesi perché Fleur ritrovasse la tranquillità, e ora ch’essa era tranquilla non voleva per nulla al mondo che venisse sconvolta dalla vista del suo primo amore! Ricordava fin troppo bene come la vista di Irene lo avesse sempre sconvolto! Sì... e con tutta probabilità c’era anche Irene con quei due!
Washington, a ogni modo, era una grande città. Non si correva molto pericolo. Quel pomeriggio sarebbero andati a Mount Vernon, poi sarebbero partiti, l’indomani mattina di buon’ora.
Fuori, in fondo al cimitero, il suo taxi lo aspettava. Una di quelle altre vetture doveva appartenere a quei due, e Soames lanciò un’occhiata in tralice alla fila delle auto. Una paura mista di speranza sorse in lui di vedere dentro a una di esse colei che, in un’altra vita, aveva visto ogni giorno e ogni notte aspettare... aspettare, pareva, quello che lui non poteva darle. Ma no! Non c’erano che gli autisti e le loro voci, i loro “Yeah!” i loro “Yep!” In America non si diceva più “Yes!”.
E montando nel suo taxi, fece:
«Hotel Pótomac».
«Hotel Potómac?»
«Come meglio vi piace».
L’autista sogghignò e chiuse lo sportello.
La casa dei Veterani! Dicevano che di veterani non ce n’erano più. Eppure dovevano essercene un mucchio di quell’ultima guerra... Del resto cos’erano lo spazio e il denaro in America? Ne avevano tanto da non saperne che fare. Beh, non gliene importava più, ora che stava per partire. Non gli importava più di nulla. In realtà, aveva invitato diversi americani a venire a vedere i suoi quadri se capitavano in Inghilterra. Erano stati tutti molto gentili, molto ospitali, gli avevano fatto vedere un mucchio di belle pitture, anche cinesi... E quanti alti edifici c’erano in America! E che aria buona! Certo alla lunga non gli sarebbe affatto piaciuto vivere in America, ma era tutto molto vivo, e anche tonico, per un po’...
“Non so immaginarmela lei, a vivere qui”, pensò d’improvviso. “Non c’ è mai stata al mondo una persona più riservata di lei”.
Le auto ora gli passavano accanto, o stavano parcheggiate in fila. L’America era tutta automobili e giornali! E qui, un rapido pensiero lo turbò. Mettevano tutto sui giornali; se avessero messo anche il suo nome tra quelli dei forestieri in arrivo?
Raggiunto l’albergo andò subito al chiosco, nella hall, dove si potevano comprare giornali, dentifrici, “candy” per perdere i denti – e, forse anche, denti di ricambio, non ne sarebbe stato sorpreso. La lista degli arrivi? Eccola... «Hotel Potomac : Mr. e mrs. Cyrus K. McGunn; Misses Errick; Mr. H. Yellam Roof; Mr. Semmes Forsyth; Mr. e Mrs. Munt... »
C’erano dunque, e in caratteri cubitali ma, per fortuna, coi nomi sbagliati. Forsyth! Munt! Non l’azzeccavano mai sui giornali. “Semmes!” Impossibile riconoscerlo, sperava bene. E andato al bureau consultò il registro.
Sì! Lui i nomi li aveva scritti chiaramente. Ed era una fortuna... Poiché forse se non li avesse scritti chiaramente li avrebbero decifrati giusti, per sbaglio... Ma ecco che voltando pagina lesse: “Mr. e Mrs. Jolyon Forsyte”.
Oh! erano nel loro stesso albergo, quei due! E da un giorno prima di loro... Sì, e in cima alla pagina, datato di qualche giorno ancora prima: “Mrs. Irene Forsyte”!
Subito la testa prese a viaggiare a incredibile velocità. Bisognava ch’egli corresse subito ai ripari. Dove erano Fleur e Michael? Avevano già visto con lui, il giorno prima, la Freer Gallery, una piccola galleria veramente bella, e il Lincoln Memorial, e quella grande torre in cima alla quale si era rifiutato di salire. Quella mattina dovevano essere andati alla Corcoran Gallery dove c’era la mostra del Centenario... Sapeva di cosa si trattava. Aveva visto esposizioni simili in Inghilterra. Tutti i pittori alla moda del loro tempo – e con risultati terribilmente malinconici!
Si rivolse all’impiegato, gli chiese:
«C’è un ristorante dove mangiare in questa città ?»
«Naturalmente... Da Filler cucinano benissimo».
«Allora ecco, se vedete tornare mia figlia e suo marito, informateli per piacere che li aspetto all’una da Filler».
E tornato al chiosco, comprò dei biglietti per il teatro d’opera per restar fuori la sera sino a tardi. Dieci minuti dopo era in cammino verso la Corcoran Gallery.
Da Filler sarebbero andati direttamente a Mount Vernon; prima dell’opera avrebbero mangiato di nuovo fuori e l’indomani sarebbero partiti col primo treno... Non voleva correre dei rischi! Ma ora quello che importava era trovare Fleur e Michael alla Corcoran Gallery!
Appena arrivato comprò un catalogo e salì le scale. Le sale si aprivano tutte sulla galleria ed egli cominciò la sua visita da quella in fondo. Ah, eccoli davanti a quel quadro di un tramonto! Era sicuro, adesso, di loro; ma non di se stesso! Fleur era così acuta!...
Si mise a esaminare i quadri. Tutta roba moderna, sul solco delle stravaganze francesi che Dumetrius gli aveva fatto vedere a Londra sei mesi prima: roba, come giusto si era immaginato, che avrebbe potuto esser dipinta tutta da una stessa mano. Vide Fleur che toccava il braccio di Michael e rideva. Ah, come era graziosa! Sarebbe stata una bella disdetta se avesse perso la pace di nuovo! Andò loro vicino da dietro. Che diamine? Quello che gli era parso un tramonto era un volto umano! Non si poteva mai esser sicuri di nulla al giorno d’oggi.
E disse:
«Ho pensato di venire a vedere anch’io. Andiamo a pranzare da Filler... Sembra sia molto meglio dell’albergo. Poi di là potremo andare direttamente a Mount Vernon. Ho prenotato dei posti all’Opera, per stasera».
Consapevole di essere osservato da Fleur portò la propria attenzione tutta sui quadri. Non si sentiva troppo a suo agio.
«Sono meglio quelli vecchi?» chiese.
«Mah!... Fleur stava giusto chiedendosi come si possa continuare a dipingere...»
«Che vuol dire?»
«Fate un giro per le sale e lo penserete anche voi. Ce ne sono di tutto un secolo».
«Le cose migliori non vengono mai esposte in queste mostre», disse Soames. «Prendono quello che trovano a portata di mano. Ryder, Innes, Whistler, Sargent... Non ci sono mai stati grandi pittori in America».
«Giusto», fece Fleur. «Ma hai proprio voglia di vederli papà? Ho una fame terribile, io».
«No», rispose Soames. «Dopo quella statua non me la sento... Andiamo a mangiare!»