2. IL GIOCATORE PROFESSIONISTA-1

2065 Words
2. IL GIOCATORE PROFESSIONISTAEra una limpida serata di marzo, tiepida come può essere solo in Riviera in quella stagione e Monte Carlo brulicava di una grande folla eccitata e gioiosa. Era il giorno della grande corsa e la città, già rigurgitante di visitatori, era stata invasa da ulteriori massicci contingenti di turisti provenienti da Nizza, Mentone e perfino Sanremo. Sullo splendido lungomare la folla si accalcava fluttuando in modo disordinato e distratto e le vaste rotonde affacciate sul mare avevano l’aspetto dei più gradevoli e frequentati luoghi di villeggiatura inglesi in piena alta stagione, mentre i tavolini del Caffè Americano erano occupati dal primo all’ultimo da avventori che cenavano, ridendo e chiacchieravano animatamente. Monte Carlo stava vivendo l’ora più bella della giornata sotto una falce di luna crescente che, sospesa sulle acque tranquille del Mediterraneo, faceva vibrare la calma superficie del mare con innumerevoli mobili e guizzanti riflessi. Di tanto in tanto la folla in lento movimento sulle rotonde si fermava a scrutare verso l’alto, ascoltando il ronzio del motore di un aeroplano che, per qualche attimo, sovrastava il brusio delle voci, mentre l’ombra del velivolo scivolava lentamente sul velluto scuro del cielo. Due persone uscirono a passo lento attraverso le porte girevoli del Monaco Palace Hotel e si soffermarono sull’ampio marciapiedi di marmo osservando la moltitudine che passeggiava qualche metro più in basso. Erano due uomini, entrambi nella prima giovinezza e dall’aspetto tipicamente britannico, riconoscibile essenzialmente dal taglio sobrio e dignitoso dei loro abiti da sera. I due giovani non dovevano avere molta fretta perché restarono fermi per qualche minuto osservando silenziosamente l’animato brulichio. Il più alto dei due era un ragazzo sui ventinove anni con il viso ben rasato e il portamento eretto. Complessivamente dava l’impressione di essere un soldato, anche se Milton Sands, tale era il suo nome, non poteva vantare molte campagne al suo attivo, tranne quella cui, per dovere di patriottismo, aveva partecipato durante la guerra boera, quando aveva ottenuto un grado nel reparto dei Cacciatori del reggimento di fanteria Vittoria. Il suo viso, naturalmente abbronzato, acquistava una più intensa colorazione sotto la luce dorata e dai riflessi bronzei del lampione. Gli occhi, grandi ed espressivi, di un colore grigio metallico erano ben distanziati sull’ovale del viso e sovrastati dalle linee nette e scure delle sopracciglia, mentre la bocca e la mascella volitiva esprimevano una forza e risolutezza interiori che rivelavano chiaramente il carattere del giovane anche a un osservatore superficiale. Però, gli occhi ridenti e una lievissima piega a un angolo della bocca suggerivano anche che si trattava di una persona in possesso di una rara e amabile qualità: un profondo e sincero senso dell’umorismo. Il suo compagno, anch’egli di forte corporatura e di statura media, era appena un po’ più basso; anch’egli ostentava un portamento militaresco, ma i lineamenti del viso apparivano, nel complesso, più morbidi e meno accentuati. Chi lo vedeva avrebbe potuto considerarlo un normale cittadino inglese benestante e sarebbe stato difficile arricchire di ulteriori particolari tale definizione. Come il suo compagno, era ben rasato e, dal colorito del viso, si capiva che trascorreva buona parte del suo tempo all’aria aperta. Lasciò cadere la cenere della sigaretta e, volgendosi rapidamente verso l’altro, domandò: - Quo vadis? Milton Sands sollevò lo sguardo sorridendo. - Alla casa della ricchezza e del peccato - rispose divertito. - In altre parole, al Casinò? - ribatté il primo con pari allegria. - Bene, spero solo che abbiate più fortuna del mio... - stava per dire “amico”, ma cambiò idea - di quanta ne abbia avuta Wilton. A voi come è andata ultimamente? Prima di rispondere, Milton Sands soffiò una serie di anelli di fumo nell’aria calma e immobile e, forse, durante quegli attimi di silenzio pregustò il piacere della notizia che Toady Wilton aveva perso del denaro, visto che quel tipo non gli era per nulla simpatico. - Non saprei dirlo - rispose infine prudentemente. - Da certi punti di vista è andata bene, da altri male. Vedete, in fondo avevo cominciato questo viaggio quasi con niente in tasca e adesso mi ritrovo ancora con il mio intero capitale. Eric Stanton scoppiò a ridere e guardò con ammirazione il suo gagliardo compagno. -In ogni caso, voi disponete sempre di un capitale inesauribile di buonumore - disse. - Mi sono spesso domandato se i giocatori si arricchiscano davvero al tappeto verde. Io, personalmente, non gioco mai, non in quel modo, almeno - si corresse. - Preferisco scommettere il mio denaro su un cavallo, perché so che, insieme, mi godrò anche una bella corsa. Ma non ho ancora sentito l’irresistibile attrazione del rosso e del nero o del trente et quarante, che invece voi trovate estremamente affascinante. - Non so se sia proprio così - riprese l’altro. - In realtà io non sono qui per passatempo, ma per far soldi. Questa si chiama sincerità, siete d’accordo? Sono venuto a Monte Carlo con un mio sistema e duecento sterline in tasca ma, per quanto riguarda il sistema, non sono ancora riuscito a farlo funzionare - concluse un po’ tristemente. Di nuovo Eric scoppiò a ridere. - Il fatto non sembra preoccuparvi molto - obiettò, e il suo compagno annuì col capo. - Perché dovrebbe? In fondo io sono un filosofo, un capitano di ventura... anche un avventuriero, se volete e vi posso assicurare che esiste una sorta di selvaggia esultanza nello strappare denaro dalle mani di un mondo in genere assai riluttante e, quando il rappresentante di questo mondo si identifica in un piccolo e panciuto croupier francese dalle basette ricciolute, la gioia diventa ancora più grande. Però ho fatto anche una cosa saggia - continuò rivolgendosi al suo compagno, con la bocca distorta da una smorfia ironica. - Ho depositato presso il cassiere di questo eccellente albergo una somma pari al presunto conto finale e, inoltre, sono già in possesso di un biglietto di ritorno per Londra. Per il resto... - così dicendo agitò vagamente la mano in direzione del ontano Casinò, così allettante nel suo sfavillante bagliore - quel che sarà corre solo sulla ruota del destino. Allons! Insieme discesero i gradini della scalinata, si tuffarono nel lusso di gente festante e furono ingoiati dalla tiepida notte primaverile. Ma, nel frattempo, qualcuno li aveva osservati con un certo interesse. Si trattava di tre individui in abito da sera che stavano tranquillamente seduti a un tavolino di marmo sulla veranda dell’albergo, fumando sigari e bevendo caffè. -Come mai non siete con il vostro amico, Toady? - domandò distrattamente uno di loro. L’uomo al quale era stata posta questa domanda parve alquanto contrariato e la sua faccia olivastra si aggrottò, formando innumerevoli piccole rughe di nervosismo mentre brontolava al suo interlocutore una risposta generica e seccata. - Oh, piantatela! - ribatté quello che aveva fatto la domanda. - Non è certo un’offesa essere amici di un milionario. - Voi continuate a prendermi in giro, Sir George - grugnì l’altro. - E questo sta cominciando a stancarmi. Comunque, se proprio desiderate sapere come mai non l’ho raggiunto, ve lo dirò più che volentieri - continuò beffardo. - Non volevo che mi vedesse in vostra compagnia. Sir George rise di cuore. Non era un uomo molto sensibile e l’implicito insulto contenuto nelle parole appena pronunciate lo lasciava del tutto indifferente. Si limitò a carezzarsi i lunghi baffi biondicci scrutando il suo interlocutore attraverso il monocolo. Sir George Frodmere era un bell’uomo di aspetto raffinato e rappresentava perfettamente il prototipo della macchietta che gli umoristi francesi portano usualmente sulla scena come il tipico esemplare del popolo inglese. - Mio caro Toady - esordì con tono paternalista - un uomo che ha trascorso l’intera vita cercando timidamente di avvicinarsi a duchi e a ogni altro esponente dell’aristocrazia inglese che abbia l’onere di dover esibire uno stemma nobiliare accanto al proprio riverito nome, dovrebbe sentirsi in obbligo di prestare un minimo di attenzione anche a un umile baronetto britannico. Mi rendo conto che il vostro amico nutre un invincibile pregiudizio nei miei confronti, però dovrebbe onestamente ammettere che io rappresento alla perfezione il modello di quel che deve essere un baronetto. E un bravo ragazzo - proseguì poi pensoso. - Assomiglia alquanto a sua madre, almeno da come la ricordo io. Quando ebbe finito di parlare, Frodmere lanciò un’occhiata pungente verso Toady Wilton e quell’omaccione bruno e olivastro si mosse a disagio sulla sedia. - Era una bella donna - continuò Sir George, quasi parlando tra sé, ma continuando a fissare colui che gli stava davanti attraverso le palpebre semichiuse. - Peccato che la sua vita sia stata un fallimento! Aveva abbandonato il marito, se non ricordo male? - Credo di sì - brontolò Wilton, poi cercò di cambiare discorso, proponendo di andare tutti a fare due passi, ma Sir George continuò, imperterrito, a incalzarlo. - Il vostro maldestro tentativo di evitare l’argomento e di lasciar cadere la conversazione è prova solamente o di naturale modestia o di profondo senso di colpa. E, a questo proposito, devo affermare di non aver mai rilevato nella vostra singolare struttura mentale la prima delle caratteristiche testé enunciate. Sì - insistette - se ne andò via dal vecchio Stanton perché... - Vedo che voi sapete già tutto sull’argomento - ribatté Wilton esasperato. - Comunque, se ne andò perché venne ingiustamente accusata di avere una relazione clandestina con Lord Chanderson. - Abbandonò la famiglia portando con sé la bimba, per quel che sono venuto a sapere - infierì Sir George. - Sì, fu una storia romantica e misteriosa e, se non mi sbaglio, nessuno vide mai più quella donna. Wilton scosse il capo. - Il mio amico Stanton spese un piccolo patrimonio per ritrovarla - disse. - Comunque, è stata una vicenda abbastanza penosa e io vi sarei grato se voleste lasciar cadere l’argomento. - E nessuno la vide mai più. Proprio così! - brontolò tra sé Sir George, ignorando l’evidente imbarazzo del suo interlocutore. - Né lei, né la figlia; e, quando il vecchio Stanton si accorse di quanto fosse stato stupido nel ritenere la moglie colpevole solo a causa delle chiacchiere, diffuse probabilmente per pura perfidia da qualche mascalzone dalla faccia di bronzo... avete detto qualcosa, Toady? - No - rispose l’altro a voce bassa. - Come stavo dicendo - continuò con noncuranza il baronetto - quando capì di essersi sbagliato, perché con tutti probabilità non seppe mai di essere stato deliberatamente ingannato quando gli avevano fatto credere che Lord Chanderson era innamorato di sua moglie, spese grosse somme d denaro per rintracciarla e, alla fine, si decise a lasciare metà del suo patrimonio alla moglie e alla figlia che aveva così profondamente offeso e umiliato. - Sì, fu un errore - balbettò quasi indistintamente Toady Wilton. - Si era messo in testa che fosse innamorata di Chanderson; vide le lettere che costui le avrebbe scritto e che, al contrario, si dimostrarono poi dei falsi. - Capisco - commentò Sir George, sorseggiando il bicchierino di liquore e tergendosi le labbra con un fazzoletto di seta. - E voi - riprese - eravate il suo migliore amico e avete beneficiato dal suo testamento. - Che senso ha tirare fuori questo discorso? - sbottò Wilton, seccatissimo. - Sapete meglio di me che non ereditai neanche un soldo, anche se, nei suoi ultimi momenti fece il mio nome e il figlio ritenne doveroso interpretarlo come sua intenzione di lasciarmi qualcosa. - Cosa che il buon Eric fece, per quanto mi consta - obiettò Sir George. - Davvero, Toady, voi siete proprio un diavolaccio fortunato, perché se Eric Stanton avesse saputo sul vostro conto più o meno quello che so io, voi non avreste neppure sfiorato le diecimila sterline che ha così gentilmente provveduto a elargirvi. Toady Wilton non rispose, ma trovò una scusa per avviare una conversazione con il terzo uomo silenzioso che sedeva in mezzo a loro. In verità Kitson si sentiva un po’ un pesce fuor d’acqua: i vestiti un po’ fuori misura, le sue mani grandi e impacciate e la riluttanza a partecipare alla conversazione mostravano chiaramente la sua estraneità alla classe sociale di cui i suoi compagni di tavolo facevano, sia pur indegnamente, parte. Continuava a muovere nervosamente la testa, come se il colletto rigido gli irritasse fastidiosamente il collo, e così era effettivamente, ma Bud Kitson non aveva la vocazione del damerino ed era estremamente infastidito dalla necessità di apparire in pubblico vestito di tutto punto.
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