“È un nécessaire per la cura dei baffi.” spiegò Ares, sebbene fosse superfluo, aggiungendo, visto che Byron sembrava senza parole, mentre sfiorava i vari oggetti. “Mi è stato consigliato dallo zio del mio amico Archie. È un tipo molto simpatico. Si figuri che ha voluto che lo chiamassi subito anch’io zio Richard. Anche lui ha dei bei baffi foltissimi ... come i suoi. Mi ha detto che ci si trova bene, spero anche lei ...”
“È magnifico. Un regalo così raffinato ... Hai avuto un pensiero davvero gentile e così … premuroso. Lo apprezzo moltissimo.” lo ringraziò emozionato. “Sono sicuro che i miei baffi avranno gran giovamento dalle cure che farò tutti i giorni ... grazie a te.” aggiunse più disinvolto, concludendo con un sorriso affettuoso.
Si era fatta l’ora di andare e si diressero all’uscita, dopo aver recuperato gli altri loro effetti al guardaroba.
“È già buio. Ti accompagno alla tua stazione di metro.”
“Non si preoccupi, vorrei fare una commissione nei dintorni prima. Lei vada pure tranquillo. Se non sbaglio il suo treno parte da Waterloo tra una mezzoretta.”
Il Direttore delle Esperidi, gli aveva detto di essere venuto in treno da Salisbury, alla cui stazione aveva lasciato l’auto.
“Il tempo è volato. Spero di vederti di nuovo ... Presto.”
“Anch’io.”
Del tutto inaspettatamente, Byron lo abbracciò con foga, battendogli più volte la mano sulle spalle. “Sei un bravo ragazzo, Ares! Ti voglio bene. Ti abbiamo voluto bene tutti. Sempre.” Sciogliendo l’abbraccio, lo afferrò saldamente per le spalle e, fissandolo, affermò con intensità. “Ricordati che io ... noi ci siamo sempre per te e le porte delle Esperidi sono aperte in ogni momento ... per te. So che non è una casa, ma vorrei che tu la considerassi come tale. Come la tua casa.”
“Grazie, Signore. Grazie tante. Davvero.”
Il commiato durò qualche altro minuto e infine si separarono.
Ares guardò il Direttore allontanarsi verso la stazione di Green Park con un certo rimpianto. La sua sagoma massiccia, infagottata in quel cappotto voluminoso, e il suo incedere un po’ caracollante gli fecero malinconia. Era come se, in quel momento, il suo aspetto gli mostrasse quanto anche lui fosse solo, senza una famiglia propria. Sentì che lui e quell’uomo attempato erano molto simili e pensò che, forse, lo attendeva lo stesso destino. Scrollò testa e spalle, come a voler allontanare quei pensieri cupi. Quindi, tirò su il cappuccio del suo giaccone imbottito e, col suo regalo stretto sottobraccio, si avviò rapido.
Parlare a sussurri, intercalando le osservazioni artistiche con le notizie sulla sua nuova vita, quasi si trattasse di preziose confidenze da tenere riservate, aveva reso quella conversazione molto più leggera di quanto si aspettasse e si dispiacque che l’incontro alla fine fosse risultato breve. Forse avrebbe potuto proporgli di prendere il treno successivo per Salisbury, ma anche lui doveva tornare al suo mondo. Voleva godersi quegli ultimi momenti di libertà e, avendo deciso di tornare a St. James’s Park a piedi, si era inventato lì per lì un’inesistente faccenda da sbrigare.
Attraversò la strada e si incamminò per Piccadilly Arcade dove, forse per sentirsi a posto con la coscienza, guardò qualche vetrina, soffermandosi davanti a quella di un negozio di antiquariato. La sua attenzione venne attirata da un bell’anello d’oro che, finemente cesellato a tutto tondo, raffigurava un drago. Gli venne in mente l’anello d’argento e giada che recava un fregio anch’esso a forma di drago. Era uno dei dodici oggetti che, subito dopo il suo arrivo, la Douglass gli aveva sottoposto perché ne scegliesse uno. Erano Segni del Comando, seppe dopo. Lui aveva preferito il più semplice: un obelisco in cristallo di rocca assolutamente perfetto. Istintivamente portò la mano dietro la schiena, alla cintura dei pantaloni, sotto giaccone e pullover. Sentirlo al suo posto, lo rassicurò. Strano, pensò, solo cinque mesi prima non sapeva nemmeno cosa fosse un Segno del Comando e ora si sentiva nudo senza. Chissà se anche l’anello della vetrina era un Segno? Non sapeva ancora cosa distingueva un normale monile dal catalizzatore che i Lumen usavano per concentrare e convogliare la loro energia. Sorrise appena. Gli sarebbe piaciuto poter raccontare a Perseus Byron tutto quanto. Chi era in realtà. Già ... Chi ... era? Emise un profondo sospiro, scuotendo la testa. Non sapeva nemmeno il suo nome ... quello vero. Cosa pensava mai di potergli raccontare?!
Alzò gli occhi, lo sguardo perso che non distingueva nessuno dei begli oggetti esposti. Improvvisamente, riflesso nella vetrina vide qualcosa che mai si sarebbe aspettato e men che meno in quel posto. Respirando adagio, irrigidito, cercò di non palesare la sua scoperta. L’immagine era sempre lì che lo fissava. Si sforzò di scorgere con la coda dell’occhio cosa ci fosse realmente alle sue spalle, ma senza successo. Non c’era che una cosa da fare. Per fortuna, aveva ancora la mano sul suo Segno. Ruotando sui tacchi, si voltò con la velocità del fulmine, fermandosi appena in tempo dall’estrarre il suo cristallo davanti a ignari passanti che, stupefatti dalla sua mossa, lo scansarono guardandolo male. Boccheggiante, col cuore che batteva forte in gola, si guardò rapidamente attorno. Nessuno. Eppure era sicuro di ciò che aveva visto. Un uomo, con la testa coperta da un cappuccio nero, il cui viso era interamente ricoperto di foglie verde scurissimo.
“Cosa c’è, ragazzo? Non stai bene?” indagò un addetto alla sicurezza dell’Arcade, un uomo di colore piuttosto corpulento e dalla faccia larga, che gli si era avvicinato lestamente.
“No, niente. Sto ... sto bene.” rispose ansimante, dopo aver deglutito più volte e, vedendo l’espressione poco benevola dell’uomo, aggiunse. “È che ho visto un uomo ... Un uomo dall’aria minacciosa alle mie spalle e allora mi sono spaventato.”
“Non ho notato nessuno vicino a te.” replicò asciutto l’uomo.
“Le assicuro che c’era! L’ho visto riflesso nella vetrina.” ribatté Ares con decisione, stendendo il braccio verso il negozio.
“Fammi vedere dov’eri.”
Si portò dove si trovava prima, seguito dal sorvegliante.
“L’hai visto come vedi me adesso?”
Il volto dell’uomo sovrastava per intero il suo.
“No, era più ... basso.”
L’immagine si rimpicciolì, spostandosi in giù. La faccia della guardia si sovrappose alla sua incorniciata dal cappuccio e i lineamenti si confusero, dando vita a un viso piuttosto sinistro.
Si voltò: l’uomo era distante un paio di passi.
“L’ho visto come adesso ho visto lei. Soltanto che ... Quell’uomo era ... era ...” si limitò a sospirare, non potendo fare nessuna descrizione.
La guardia si avvicinò e, mettendogli una mano sulla spalla, lo confortò con fare comprensivo. “Magari eri sovrappensiero e hai fatto confusione. Non ho visto nessun uomo sospetto e tu sei l’unico in tutta la galleria che porta un cappuccio. Sei qui solo? Vuoi che chiamiamo i tuoi, perché ti vengano a prendere?”
“No, no. Grazie. Sto bene, sto bene ... adesso. Sì, sarà come dice lei, ho avuto una svista. Sarà meglio che vada a ... a casa, adesso. Grazie e buona sera, Signore.”
L’addetto si toccò la visiera e poi riprese la sua sorveglianza. Ares percorse di buon passo il resto dell’Arcade, uscendo in Jermyn Street. Tagliò per Duke of York Street, sempre rimuginando su quanto era appena successo. Non poteva certo spiegare a quella guardia che aveva visto Greenman. Non un Green Man vero, ma era sicuro che si trattasse di quello stesso uomo che aveva scorto tra le conifere, che sovrastavano l’Ovalo alla fine dell’ultima partita e che lui aveva chiamato allo stesso modo. Il suo Green Man non era un mezzo gigante dalla folta chioma di albero. Era un uomo normale, a parte il fatto che aveva la faccia coperta di foglie, con rametti fronzuti al posto dei capelli. Certo, quella volta non l’aveva visto da vicino e solo di sfuggita. Eppure, il volto riflesso nella vetrina gli aveva richiamato subito alla mente quell’episodio. Quei lineamenti e, soprattutto, quello sguardo lo avevano raggelato. Ripensandoci, non sembrava particolarmente ostile, ma lui si era sentito in pericolo. Forse era per la forte sorpresa di vedere un’altra volta quell’individuo e, oltretutto, nella Londra normale. Il punto era comunque un altro. Cosa voleva quel soggetto da lui? Perché lo stava spiando? E perché lo aveva seguito fin lì, nella zona Opaca?!
Immerso nelle sue riflessioni, arrivò a St. James Square. La piazza era molto grande e completamente occupata da un vasto giardino piantumato che decise di attraversare per far prima. Era deserto. Non c’era da stupirsi: faceva freddo, piovigginava ed era buio. Sentì un fruscio dietro di sé. Affrettò il passo, avendo dopo pochi istanti la sensazione che qualcuno camminasse dietro di lui. Si arrestò di colpo. I rumori cessarono, ma li udì nuovamente quando riprese la marcia. Allora si bloccò, girandosi di scatto. Non c’era anima viva dietro di lui. Scrutò nel buio, oscillando per vedere oltre i tronchi degli alberi. Sembrava che ci fosse solo lui lì. Evidentemente, l’incidente di prima l’aveva impressionato, si disse mentre stava per riavviarsi. Con la coda dell’occhio, vide una sagoma muoversi da dietro un grosso albero defilato. Rimase immobile per qualche istante, non sapendo cosa fare. Girò un po’ la testa indietro, quel tanto che bastava per rivedere lo stesso albero. Non c‘era nessuno lì, ma spingendo lo sguardo più che poteva senza darlo a vedere, lo scorse nuovamente. Un fugace raggio di luna, apparso per un istante in uno spiraglio tra le nuvole, lo rischiarò. Era lui. Era Greenman. Il cuore cominciò a battere all’impazzata e, senza più riflettere, si mise a correre più che poteva in avanti, fiducioso di arrivare presto all’uscita. Giunto in fondo non ne trovò nessuna e fu quindi costretto a spostarsi. Senza più voltarsi indietro, decise di andare verso destra e, dopo una corsa a perdifiato, trovò uno sbocco. Girò a sinistra, continuando a correre e finalmente si ritrovò di fronte la Pall Mall. Aspettò fremente che il semaforo diventasse verde, guardandosi circospetto attorno, col fiato corto per la corsa e la paura. Attraversò il largo viale in un baleno. Già dall’altra parte del marciapiede, si era accorto che non c’era nessuna strada che portasse oltre le case al Mall, il vialone prospiciente il parco. Si diresse veloce a sinistra sperando che la traversa non fosse troppo lontana. Mentre correva, si guardava spesso alle spalle senza vedere alcuno di sospetto. Girò alla prima strada a destra, Carlton Gardens, ritrovandosi dopo poco di fronte a un’unica scelta: andare a destra o a sinistra. Scelse la sinistra, percorrendo per un bel tratto la Carlton House Terrace.
“Maledizione!” esclamò fuori di sé, quando giunse alla fine senza uscita.
Tornò sui suoi passi e prese la prima a destra, Waterloo Place, ritrovandosi di nuovo sulla Pall Mall. Gli venne voglia di urlare. Si sentiva intrappolato in un labirinto. Cosa gli era venuto in mente di andarsene a piedi?! Se avesse preso la metropolitana con Byron a Green Park, a quest’ora sarebbe già stato a casa! St. James’s Park era poco lontano, ma non sapeva qual era la strada più breve da prendere.
“Va tutto bene, ragazzo?”
Una voce soave lo riscosse dai suoi pensieri. Si voltò e vide una gentile signora anziana guardarlo con la testa piegata, come se volesse vederlo meglio sotto il cappuccio.
“Sì. No. Mi sono perso.”
“Dove devi andare, caro?”
“Devo andare a St. James’s Park. È da un pezzo che giro per tutte queste strade, ma non ...”
“Eeh, capisco. Se non si è pratici, c’è proprio da perdersi. Ma non ti crucciare. Sei sulla buona strada. Torna indietro e vai sempre diritto. Vedi quella grande colonna laggiù?”
Annuì, l’aveva vista eccome: impossibile non notarla, alta com’era. Ma cosa c’entrava col parco?
“È la Colonna del Duca di York, subito dopo c’è la gradinata che porta al Mall.”