II.-3

1681 Words
«Il vecchio Tom chiama questa specie di molo il suo cortile di ingresso», osservò Hurry mentre attraccava la canoa dalla quale lui e il compagno erano frattanto usciti; «e i bellimbusti dei fortini avevano battezzato la “corte del castello”, per quanto io non riesca proprio a capire che ci abbia a vedere una “corte” qui, dove non esiste nessuna legge. È proprio come avevo immaginato: non c’è anima viva in casa, tutta la famiglia dev’essere partita per qualche viaggio di scoperta». Mentre Hurry si affaccendava nel “cortile d’ingresso”, ispezionando fiocine, lenze, reti e tutti gli altri attrezzi tipici di una abitazione frontiera, Cacciatore-di-Daini, i cui modi erano pure tanto più tranquilli e severi, entrò nel fabbricato con una curiosità raramente esibita da chi come lui era da lungo tempo avvezzo alle consuetudini indiane. L’interno del castello era impeccabilmente ordinato così come l’aspetto esteriore era insolito. L’intero spazio, circa sei metri per dodici, era suddiviso in parecchie minuscole stanze da letto, ma l’ambiente in cui entrò per primo serviva tanto da locale comune di abitazione quanto da cucina. Il mobilio offriva una strana mescolanza che non è raro trovare nelle isolate dimore di legno dell’interno. Erano quasi tutti mobili semplici e dall’aspetto sommamente rustico; ma vi era in un angolo una pendola, racchiusa entro una bella custodia di legno scuro, e due o tre seggiole, nonché una tavola e una scrivania che dovevano evidentemente provenire da un’abitazione d’insolite pretese. La pendola lavorava industriosamente, ma le sue lancette plumbee non smentivano il loro aspetto dimesso, poiché segnavano le undici, benché il sole chiaramente indicasse che il mezzo del giorno era trascorso da parecchio. Vi era pure un cassone massiccio e scuro. Gli utensili di cucina erano di tipo più semplice, poco numerosi, ma ogni oggetto era al proprio posto e mostrava di essere tenuto con la massima cura. Dopo aver gettato un’occhiata nella stanza esterna Cacciatore-di-Daini sollevò un paletto di legno ed entrò in un angusto andito che divideva la parte interna della casa esattamente in due. Poiché gli usi di frontiera erano tutt’altro che scrupolosi, e la sua curiosità d’altronde era fortemente stimolata, il giovane aprì un uscio, venendo a trovarsi così in una stanza da letto. Gli bastò un’occhiata per rendersi conto che chi l’occupava era di sesso femminile. Il letto era di piume d’oca selvatica, ed era tanto gonfio che traboccava da ogni parte, ma era adagiato su una cuccetta sommaria e sollevato dal pavimento di appena trenta centimetri. Da una parte erano appesi ad alcuni attaccapanni diversi vestiti di una qualità assai superiore a quella che era logico aspettarsi in un posto simile, e per giunta ornati di nastri e altri simili ammennicoli. Né mancavano scarpe graziose, adorne di belle fibbie d’argento, quali portavano a quel tempo le donne in circostanze di gala, e almeno una mezza dozzina di ventagli dai colori vivaci erano disposti a raggera in modo da colpire l’occhio con le loro sfumature e i loro artifizi. Persino il guanciale, da quel lato del letto, era ricoperto di un lino più fine di quello che ricopriva invece il suo gemello, ed era rallegrato da una minuscola arricciatura. Vi pendeva sopra un cappellino civettuolamente adorno di nastri, al quale erano ostentatamente appuntati due lunghi guanti, di quelli assai raramente usati in quei tempi da persone appartenenti alle classi lavoratrici, quasi con l’intenzione di metterli in mostra, non potendo essere sfoggiati sulle braccia della loro proprietaria. Cacciatore-di-Daini vide e notò tutto questo con una minuzia che avrebbe fatto onore all’abituale spirito di osservazione dei suoi amici Delaware. Né mancò di rilevare il contrasto esistente tra le due parti del letto la cui testata poggiava contro la parete. Sul lato opposto a quello or ora descritto ogni cosa appariva disadorna, e non offriva nulla di invitante, se si eccettui l’immacolato lindore di ogni particolare. I pochi indumenti appesi agli attaccapanni erano di stoffa ruvidissima e di foggia più che banale, e nulla insomma di essi sembrava fatto per attirare l’attenzione. Non erano ornati di un solo nastro, né vi erano cappellini o scialli, nessuna cosa insomma che le figliole di Hutter non potessero indossare senza uscire dal loro rango. Erano trascorsi diversi anni dall’ultima volta in cui Cacciatore-di-Daini si era trovato in una camera abitata da donne del suo colore e della sua razza. Quella vista gli riportò alla mente un fiotto di ricordi infantili, ed egli indugiò nella stanza con una tenerezza di sentimenti alla quale era da tempo disabituato. Gli sovvenne di sua madre, le cui semplici vesti egli si rammentava di aver veduto appese ad attaccapanni, al pari di queste che egli intuiva dovessero appartenere a Hetty Hutter; e si rammentò di una sua sorella il cui gusto innato per le cose fini si era mostrato pressappoco uguale a quello di Judith, se pure con minore ostentazione. Tutte queste piccole somiglianze riaprirono in lui una vena di sensazioni da lungo tempo sopite, e nel lasciare la camera lo fece con uno stato d’animo rattristato. Senza soffermarsi ulteriormente a curiosare ritornò a lenti passi e con aria assorta verso il “cortile d’ingresso”. «Il vecchio Tom si è dato a una nuova professione e ha cercato di esercitarsi a usare le tagliole», esclamò Hurry che aveva ispezionato attentamente gli attrezzi di Hutter; «se la pensa così e se tu sei disposto a restare da queste parti potremo trascorrere una stagione ottima; infatti, mentre il vecchio e io faremo la posta al castoro, tu potrai pescare e abbattere daini, così ti nutrirai il corpo e lo spirito insieme. Noi diamo sempre una parte ai cacciatori più poveri, ma un tipo attivo e sicuro come te può pretendere a una razione intera». «Ti ringrazio, Hurry, ti ringrazio di tutto cuore… ma anch’io mi occupo di castori un pochino, quando se ne offre l’occasione. È esatto, i Delaware mi chiamano Cacciatore-di-Daini non tanto però perché i miei colpi sono fatali alla selvaggina, ma perché pur avendo ucciso tanti daini e tante damme, non ho mai tolto la vita a una creatura umana. Loro dicono che non si parla nelle loro leggende di un altro uomo che pur avendo sparso il sangue di tanti animali non abbia mai versato quello di un suo simile». «Spero non ti giudichino un pulcino! Un uomo dall’animo tenero è come un castoro senza coda». «Non credo che mi giudichino un cuor di coniglio, ancorché non mi considerino eccessivamente valoroso. Non sono però un attaccabrighe, e questo aiuta moltissimo a non sporcarsi le mani nel sangue di cacciatori e di pellirosse; inoltre, Harry March, aiuta moltissimo a tenere la coscienza pulita». «Beh, per conto mio capi di selvaggina, pellirosse, Francesi sono tutti quanti pressappoco la stessa cosa, per quanto io sia forse il meno attaccabrighe di tutti quanti, nelle Colonie. Io disprezzo un attaccabrighe così come disprezzo un botolo ringhioso; ma non occorre aver eccessivi scrupoli, quando viene il momento opportuno di mostrare i denti». «Per me l’uomo migliore è colui che agisce sempre nel giusto, Hurry. Ma che posto meraviglioso, i miei occhi non si stancano di ammirarlo». «Questa è la prima volta che vedi un lago, e idee simili vengono a noi tutti, a volte. Ma secondo me i laghi sono tutti pressappoco gli stessi. Acqua e terra, inframmezzate da promontori e da insenature». Poiché una simile definizione non appagava affatto i sentimenti che dominavano in quel momento l’animo del giovane cacciatore questi non diede una risposta immediata, ma ristette a contemplare con muto rapimento le brune colline e l’acqua immota. «Spero non abbia nome», disse infine, «o perlomeno non abbia un nome da viso-pallido, poiché i loro appellativi sono sempre forieri di distruzione e di sterminio. Comunque sono certo che i pellirosse avranno i loro sistemi per conoscerlo, e così pure i cacciatori e i trapper, costoro certamente sapranno chiamare questo luogo in maniera ragionevole e adatta». «In quanto alle tribù ognuna ha la propria lingua e la propria maniera di chiamare le cose e considerano questa parte del mondo alla stessa stregua delle altre. Tra noi avevamo presa l’abitudine di chiamarlo “Specchio Lucente”, giacché tutto questo bacino è orlato di pini che vi si riflettono proprio come in uno specchio». «So che deve esservi un emissario, poiché tutti i laghi ne hanno, e la roccia ai piedi della quale devo incontrare Chingachgook sorge presso un emissario. Neppure questo ha ancora un nome da Colonia?». «In questo caso particolare sono in vantaggio su di noi, poiché l’altra estremità di esso, la maggiore, è in loro possesso; le hanno dato un nome che è risalito sino alle sue sorgenti, poiché i nomi naturalmente risalgono contro corrente. Tu hai certamente visto il Susquehannah, laggiù nel paese dei Delaware». «Si capisce, e ho cacciato lungo le sue rive almeno un centinaio di volte». «Quello e questo sono i medesimi di fatto e anche i medesimi di nome, immagino. Sono contento che siano stati costretti a conservargli il nome datogli dai pellirosse, perché sarebbe stato veramente troppo crudele derubarli della terra e del nome insieme». Cacciatore-di-Daini non diede risposta ma rimase appoggiato alla sua carabina contemplando lo scenario che tanto lo rapiva. Il lettore non deve però credere che soltanto l’elemento pittoresco che ne emanava attirasse così fortemente la sua attenzione. Il luogo era molto bello, certo, e in quel momento si presentava sotto uno dei suoi aspetti più favorevoli; la superficie del lago era liscia come uno specchio e limpida come aria tersa, e rifletteva le montagne ammantate di scuri pini lungo tutto il suo margine orientale; i promontori protendevano innanzi i fusti degli alberi che li ammantavano in linee quasi orizzontali, mentre le baie scintillavano attraverso il varco offerto di quando in quando da una chiarita nel folto dei rami e delle foglie. Era quel suo aspetto di profonda pace, di solitudine sconfinata, suggerente luoghi e foreste ancora vergini… era tutto quel predominare di forze naturali, in una parola, che dava così pura gioia a un uomo come Cacciatore-di-Daini, le cui abitudini e il cui modo di ragionare erano tanto caratteristicamente inconfondibili.
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