Capitolo III - Cambio-2

2091 Words
– Beh, signorino, gliel’ha dato suo padre, – replicò il signor Peggotty. – Pensavo che foste voi suo padre! – Mio fratello Joe era suo padre, – rispose il signor Peggotty. – È morto, signor Peggotty? – accennai, dopo una pausa rispettosa. – Annegato, – concluse il signor Peggotty. Fui molto sorpreso che il signor Peggotty non fosse il padre di Ham, e iniziai a chiedermi se non mi fossi sbagliato sul conto della sua parentela con gli altri. Provavo una tale curiosità, che decisi di togliermela con il signor Peggotty. – La piccola Em’ly, – dissi, guardandola. – È vostra figlia, vero, signor Peggotty? – No, signorino. Suo padre era mio cognato Tom. Non potei trattenermi: – … Morto, signor Peggotty? – accennai, dopo un altro rispettoso silenzio. – Annegato, – rispose il signor Peggotty. Avvertii la difficoltà di tornare sull’argomento, ma non ero ancora arrivato in fondo, e in qualche modo dovevo riuscirci. Così dissi: – Ma non avete nemmeno un figlio, signor Peggotty? – No, signorino, – rispose con una breve risata. – Sono scapolo. – Scapolo, – esclamai, attonito. – Come sarebbe, e quella chi è, signor Peggotty? – Indicando la persona con il grembiule che stava lavorando a maglia. – Quella è la signora Gummidge, – spiegò il signor Peggotty. – Gummidge, signor Peggotty? A quel punto però Peggotty – intendo la mia Peggotty – mi fece dei gesti così eloquenti perché smettessi di fare domande, che me ne rimasi seduto a guardare la compagnia silenziosa, fino all’ora di andare a letto. Poi, nella solitudine della mia piccola cabina, mi informò che Ham ed Em’ly erano i suoi nipoti orfani, che il mio ospite aveva adottato in momenti diversi quando erano bambini, ed erano stati lasciati in miseria; e che la signora Gummidge era la vedova del socio di una sua barca, che era morto poverissimo. Anche lui era povero, disse Peggotty, ma era buono come l’oro e leale come l’acciaio – queste furono le similitudini che usò. Poi mi disse che l’unico argomento che lo mandava fuori di sé e lo faceva bestemmiare, era quello della sua generosità; e se qualcuno ne parlava, dava un gran colpo al tavolo con la mano destra (in una di quelle occasioni lo aveva spaccato) e imprecava orribilmente dicendo che sarebbe stato “fatto cenere” e che se ne sarebbe andato per sempre, se ne avessero parlato un’altra volta. Quando risposero alle mie domande, sembrò che nessuno avesse la più pallida idea dell’etimologia di quel terribile verbo passivo “essere fatto cenere”; ma che tutti lo consideravano come parte di una solennissima imprecazione. La bontà del mio ospite mi piacque moltissimo, e in un meraviglioso stato d’animo accresciuto dalla sonnolenza, sentii le donne che andavano a dormire in lettini come il mio al lato opposto della barca, e lui e Ham che appendevano due amache per loro ai ganci che avevo notato sul soffitto. Mentre il sonno mi vinceva, sentii il vento che soffiava sul mare e che arrivava sulla pianura con tanta forza, da farmi vagamente preoccupare che l’avrebbe invasa durante la notte. Ma mi dissi che dopo tutto ero in una barca; e che non era male avere a bordo un uomo come il signor Peggotty se fosse accaduto qualcosa. Comunque, non accadde nulla di male, se non che arrivò il mattino. Non appena, o quasi, brillò sulla cornice di conchiglie di ostriche del mio specchio, io scesi dal letto, e uscii con la piccola Em’ly a raccogliere sassolini sulla spiaggia. – Tu sei una brava marinaia, vero? – le domandai. Non so se intendessi davvero una cosa di quel genere, ma mi sembrò galante dire qualcosa; inoltre in quel momento vicino a noi passò una vela luccicante ed era un’immagine così graziosa, nei suoi occhi luminosi, che mi venne in mente di dire così. – No, – replicò Em’ly scuotendo la testa, – il mare mi fa paura. – Paura! – esclamai, con un’aria ardimentosa, e guardando risoluto il poderoso oceano. – Io non ne ho! – Ah! Però è crudele, – disse Em’ly. – L’ho visto essere molto crudele con qualcuno dei nostri uomini. L’ho visto rompere una barca grande come la nostra casa, farla a pezzi. – Spero che non fosse quella che… – Su cui è annegato mio padre? – proseguì Em’ly. – No. Non era quella. Non l’ho mai vista, quella. – E nemmeno lui? – le domandai. La piccola Em’ly scosse la testa. – Non lo ricordo! Che coincidenza! Mi misi immediatamente a spiegare come neanche io avessi mai visto mio padre; di come mia madre e io avessimo sempre vissuto da soli nel modo più felice che si potesse immaginare, e così vivevamo allora, e pensavamo di continuare così per sempre; e di come la tomba di mio padre fosse nel cimitero accanto alla nostra casa, ombreggiata da un albero sotto i cui rami in molte piacevoli mattinate avevo passeggiato e sentito cantare gli uccelli. Sembrava però che ci fossero delle differenze nel modo in cui eravamo rimasti orfani, Em’ly e io. Lei aveva perso prima la madre del padre; e nessuno sapeva dove fosse la tomba di suo padre, tranne che si trovava da qualche parte nelle profondità marine. – Inoltre, – disse Em’ly, mentre cercava conchiglie e sassolini, – tuo padre era un signore e tua madre è una signora; mio padre era un pescatore e mia madre era la figlia di un pescatore, e mio zio Dan è un pescatore. – Dan è il signor Peggotty, vero? – domandai. – Lo zio Dan… là, – rispose Em’ly, accennando alla casa-barca. – Sì. Lui. Deve essere molto buono, vero? – Buono? – esclamò Em’ly. – Se fossi una gran signora, gli regalerei una giacca celeste con i bottoni di diamanti, dei pantaloni di nanchino, un panciotto di velluto rosso, un tricorno, un grande orologio d’oro, una pipa d’argento, e una cassa piena di soldi. Dissi che senza dubbio il signor Peggotty meritava tutti quei tesori. Devo ammettere che mi rimase difficile immaginarmelo a suo agio nelle vesti proposte per lui dalla sua riconoscente nipotina, e che la perplessità maggiore riguardava la questione del tricorno; in ogni modo tenni quelle considerazioni per me. La piccola Em’ly si era fermata a guardare il cielo mentre enumerava quegli articoli, come se rappresentassero una visione gloriosa. Proseguimmo, raccogliendo conchiglie e sassolini. – Ti piacerebbe essere una signora? – domandai. Em’ly mi guardò, rise e fece cenno con la testa, “sì”. – Mi piacerebbe moltissimo. Così saremmo tutti nella buona società. Io, lo zio, Ham, e la signora Gummidge. Non ci importerebbe nulla, allora, quando arriva la burrasca. Non ci importerebbe per noi, voglio dire; ma di certo staremmo in pena per i poveri pescatori, e li aiuteremmo col denaro se dovesse capitargli qualcosa di male. Mi parve un quadretto molto soddisfacente e perciò non improbabile. Espressi il mio piacere mentre lo contemplavo, e la piccola Em’ly prese coraggio per dire, timidamente: – E adesso non credi di avere paura del mare? Era abbastanza calmo e ciò mi rassicurò, ma non ho dubbi che se avessi visto arrivare e infrangersi un’onda moderatamente grossa, me la sarei data a gambe, al terribile ricordo dei suoi parenti annegati. Tuttavia risposi – No, – e aggiunsi: – Neanche tu sembri averne, anche se dici il contrario; – perché camminava vicinissima al bordo di una specie di vecchio pontile o passerella di legno su cui avevamo passeggiato, e temevo che cadesse. – Non ne ho paura in quel modo, – spiegò la piccola Em’ly. – Però mi sveglio quando c’è vento, e tremo a pensare allo zio Dan e a Ham, e mi sembra di sentirli che chiamano aiuto. Ecco perché vorrei tanto essere una signora. Ma non ne ho paura in quel modo. Per nulla. Guarda! Si allontanò da me correndo lungo un’asse dentellata che sporgeva proprio da dove ci trovavamo, e sovrastava da una certa altezza l’acqua profonda, senza alcuna protezione. Quel momento è così impresso nella mia memoria che, se fossi un pittore credo che lo potrei disegnare con la stessa precisione di quel giorno, con la piccola Em’ly che si lanciava verso il mare e verso la sua rovina (così mi parve), con un’espressione che non ho mai dimenticato. Quella piccola figura leggera, audace e palpitante, si girò e tornò sana e salva da me, che subito risi delle mie paure e del grido che avevo lanciato; inutile, in ogni caso, perché nelle vicinanze non c’era nessuno. Da adulto però ci sono stati dei momenti, e molti, in cui ho pensato: è possibile, come sono possibili tante cose inspiegabili, che nell’improvvisa temerarietà della bambina e nella sua aria così sfrenata e così distante, ci fosse una sua attrazione misericordiosa verso il pericolo, una possibilità concessa al padre morto di portarla a sé, perché la sua vita potesse davvero terminare quel giorno? C’è stato un momento, da allora, in cui mi sono chiesto, se il futuro di lei mi fosse stato rivelato in un attimo, rivelato in modo che anche un bambino avrebbe potuto comprenderlo appieno, e il conservarla fosse dipeso da un movimento della mia mano, se avrei dovuto trattenerlo per salvarla. C’è stato un momento da allora – non dico che sia durato a lungo, ma c’è stato – in cui mi sono rivolto la domanda, non sarebbe stato meglio per la piccola Em’ly se le acque si fossero chiuse sopra la sua testa quella mattina davanti a me; e in cui mi sono risposto sì, sarebbe stato meglio. Forse tutto ciò è prematuro. Forse ne ho parlato troppo presto. Ma lasciamolo dov’è. Camminammo a lungo, caricandoci di cose che ci sembravano strane, e rimettendo in acqua con grande cura delle stelle marine finite sulla spiaggia – ancora adesso so pochissimo di quella specie per sapere se avessero motivo di ringraziarci o tutto il contrario – poi tornammo alla casa del signor Peggotty. Ci fermammo al riparo del casotto delle aragoste per scambiarci un bacio innocente, ed entrammo per la colazione rilucendo di salute e piacere. – Proprio come due giovani tordi, – disse il signor Peggotty. Sapevo che nel nostro dialetto locale voleva dire due giovani uccelli canterini, e lo considerai un complimento. Ero ovviamente innamorato della piccola Em’ly. Sono certo di aver amato quella piccolina con tutta la sincerità, la tenerezza, e la purezza che si possono trovare nel più grande, alto, e nobile amore di un’età più matura, e senza il minimo interesse. Sono sicuro che la mia fantasia trovò qualcosa in quella bambina piccola dagli occhi azzurri che la rese eterea e la trasformò in un vero e proprio angelo. Non credo che mi sarei sorpreso molto se, in un qualunque pomeriggio assolato, avesse spiegato un paio di alucce e se ne fosse volata via davanti ai miei occhi. Andavamo a passeggio per ore e ore in quella piana vecchia e cupa di Yarmouth ed era bellissimo. I giorni si divertivano con noi, come se nemmeno il Tempo fosse ancora cresciuto, e fosse rimasto bambino, sempre intento a giocare. Dissi a Em’ly che la adoravo, e che se non confessava anche lei di adorarmi mi vedevo costretto a uccidermi con una spada. Ma lei disse di sì, e non ho ragione di dubitarne. Quanto al senso di disuguaglianza, alla nostra gioventù, o alle altre difficoltà che ci aspettavano, la piccola Em’ly e io non ci preoccupavamo affatto, perché non avevamo futuro. Non ci preparavamo a diventare vecchi, più di quanto non ci preparassimo a diventare più giovani. Allora la sera quando ci sedevamo amorevolmente sul nostro piccolo bauletto vicini l’uno all’altra suscitavamo l’ammirazione della signora Gummidge e di Peggotty, che sussurravano – Signore! Sono proprio bellissimi! – Il signor Peggotty ci sorrideva da dietro la pipa, e Ham ridacchiava tutta la sera senza fare altro. Mi pare che trovassero in noi lo stesso piacere che avrebbero potuto trovare in un bel giocattolo o in un modellino del Colosseo. Presto scoprii che la signora Gummidge non si rendeva sempre piacevole come ci si poteva aspettare da lei, date le circostanze in cui era andata a vivere con il signor Peggotty. Aveva infatti un temperamento piuttosto irritabile, e in un luogo così piccolo per gli altri non era sempre gradevole sentire le sue lamentele. Mi dispiaceva molto per lei; ma pensavo che in certi momenti sarebbe stato molto meglio se la signora Gummidge avesse avuto un comodo appartamento suo e vi si andasse a ritirare fino a che il suo stato d’animo si rasserenava.
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