Capitolo III - Cambio
Il carro era tirato da un cavallo che secondo me era l’animale più pigro del mondo, e si trascinava con la testa bassa, come se gli piacesse molto far aspettare la gente a cui erano diretti i pacchi. Così mi sembrava che qualche volta ridesse fra sé e sé mentre ci rifletteva, ma il vetturino mi disse che era solo disturbato dalla tosse.
Anche il vetturino aveva l’abitudine di tenere la testa bassa, come il suo cavallo, e di pendere assonnato in avanti mentre guidava, con le braccia sulle ginocchia. Ho detto “guidava”, ma mi pareva invece che il carro potesse benissimo andare a Yarmouth anche senza di lui; e quanto a conversare, non gli passava nemmeno per la mente, limitandosi a fischiettare.
Peggotty aveva sulle ginocchia un canestro con delle vettovaglie che sarebbero bastate e avanzate anche se fossimo andati fino a Londra con lo stesso mezzo. Mangiammo abbondantemente, e così dormimmo. Peggotty si addormentava sempre con il mento sul manico del canestro, di cui non lasciava mai la presa; e se non l’avessi sentita io stesso non avrei creduto che una donna indifesa potesse russare in quel modo.
Facemmo molte deviazioni su e giù per delle stradine, e ci mettemmo tanto per consegnare un letto a una locanda, essendoci fermati anche altre volte, che cominciai a sentirmi molto stanco, e fui contentissimo quando avvistammo Yarmouth. Vagando con l’occhio lungo la piana vasta e monotona che si stendeva oltre il fiume mi sembrò piuttosto spugnosa e umida; e non potei fare a meno di chiedermi come mai certe zone fossero così piatte, se la terra era davvero rotonda come sosteneva il mio libro di geografia. Riflettei però che forse Yarmouth era situata a uno dei poli; il che spiegava tutto.
Quando ci avvicinammo un pochino, e vedemmo tutto il paesaggio che si stendeva lungo una bassa linea dritta sotto il cielo, suggerii a Peggotty che una collinetta o qualcosa del genere forse l’avrebbero migliorato; e anche che se la terra fosse stata più lontana dal mare, e la città e la marea non fossero state così mescolate, come il pane inzuppato, sarebbe stato più carino. Peggotty però disse, con più enfasi del solito, che dovevamo prendere le cose come erano, e che, da parte sua, era fiera di potersi considerare una “Aringa Affumicata di Yarmouth”.
Quando arrivammo sulla strada (che mi parve strana), e sentimmo l’odore di pesce, di pece, di stoppa, e di catrame, e vedemmo i marinai che andavano a zonzo, e i carri che andavano tintinnando in su e in giù sul selciato, pensai che ero stato ingiusto verso quel posto così pieno di vita; e lo dissi a Peggotty, che ascoltò molto compiaciuta le mie espressioni di delizia, e mi disse che era risaputo (immagino si riferisse a coloro che avevano avuto la fortuna di nascere Aringhe Affumicate) che Yarmouth era, tutto sommato, il posto più bello dell’universo.
– Ecco il mio Am! – gridò Peggotty, – quanto è cresciuto! non si riconosce più!
Lui ci stava aspettando alla locanda; e mi chiese come stavo, come un vecchio conoscente. Dapprima non mi parve di conoscerlo tanto bene come lui conosceva me, perché non era mai più stato a casa nostra dalla notte in cui ero nato, e naturalmente si trovava in vantaggio. La nostra intimità però crebbe molto quando mi prese sulle spalle per portarmi a casa. Era diventato un uomo grande e grosso, alto sei piedi, robusto e con le spalle larghe; ma con una faccia da ragazzo schietto e dei capelli chiari e ricci che gli davano un aspetto mite. Aveva una giacca di tela, e un paio di pantaloni così rigidi che sarebbero potuti benissimo stare in piedi da soli, anche senza le gambe dentro. E non sarebbe stato corretto dire che portava un cappello, quanto piuttosto che aveva la sommità coperta, come un vecchio edificio, da qualcosa di appiccicaticcio.
Con Ham che portava me sulle spalle e sotto braccio uno dei nostri bauletti, e Peggotty che ne portava un altro, scendemmo per delle stradine cosparse di trucioli e di monticelli di sabbia, passando accanto a gasometri, corderie, cantieri navali, cantieri di maestri d’ascia, cantieri di demolizioni, officine di calafataggio, fabbriche di attrezzi, fucine di fabbri, e la gran confusione dei posti del genere, fino a che arrivammo alla piana desolata che prima avevo scorto da lontano; e Ham disse:
– Ecco la nostra casa, signorino Davy!
Guardai da tutte le parti, fino a dove arrivavo in quella desolazione, verso il mare e lungo il fiume, ma non riuscivo a scorgere nessuna casa. Non lontano c’era un barcone nero, o un altro genere di natante sorpassato, alto e asciutto sulla terra, con una ciminiera di ferro che spuntava fuori e faceva da comignolo e che fumava in maniera accogliente; ma la mia attenzione non veniva richiamata da nessun altro segno di abitazione.
– Non sarà quella? – dissi. – Quella cosa a forma di barca?
– È proprio quella, signorino Davy, – rispose Ham.
Credo che se fosse stato il palazzo di Aladino, con l’uovo dell’uccello fatato e tutto quanto, non sarei stato così affascinato dall’idea romantica di andarci ad abitare. C’era una deliziosa porticina aperta su un fianco, aveva un tetto e delle finestrelle; il suo fascino meraviglioso però stava nel suo essere una barca vera e propria, che senza dubbio era stata in acqua centinaia di volte e non si era mai pensato di viverci dentro, sulla terraferma. Era quello il suo incanto, per me. Se fosse mai stata pensata per abitarci, l’avrei trovata piccola, o scomoda, oppure isolata; non essendo però mai stata progettata per un uso del genere, diventava una dimora perfetta.
All’interno era molto pulita, e ordinatissima. C’era un tavolo, un orologio olandese, un cassettone, e sopra un vassoio da tè con dipinta una signora con un parasole, che passeggiava con un bambino dall’aria militaresca che faceva correre un cerchio. Il vassoio era sostenuto da una Bibbia; se fosse caduto, avrebbe rotto una grande quantità di tazze e piattini e una teiera che circondavano il libro. Sulle pareti c’erano dei quadri con dei colori piuttosto ordinari, incorniciati e con tanto di vetro che rappresentavano episodi delle Scritture; e da allora non ne ho più visti nelle mani dei venditori ambulanti, senza rivedere subito tutto l’interno della casa del fratello di Peggotty. Abramo in rosso che si accinge a sacrificare Isacco in azzurro, e Daniele in giallo gettato in una fossa di leoni verdi, erano i più notevoli di tutti. Sopra la piccola mensola del camino c’era un quadro del trabaccolo Sarah Jane, costruito a Sunderland, con una vera poppa di legno in miniatura in rilievo; un capolavoro, che mescolava la composizione pittorica con la falegnameria, che io considerai come una delle cose più invidiabili che il mondo potesse offrire. C’erano dei ganci nelle travi del soffitto, ma in quel momento non ne indovinai l’uso; e alcuni bauletti, scatole e comodità di quel tipo, che servivano da sedili e facevano economizzare sulle sedie.
Vidi subito tutto ciò appena varcata la soglia – con la capacità d’osservazione propria dei bambini, secondo la mia teoria – poi Peggotty aprì una porticina e mi mostrò la mia camera da letto. Era la camera da letto più completa e desiderabile che si fosse mai vista e si trovava nella poppa del vascello. Aveva una finestrella, dove prima passava il timone; un piccolo specchio, all’altezza giusta per me, inchiodato alla parete, e incorniciato da conchiglie d’ostrica; un lettino, appena grande abbastanza per poterci entrare dentro; e un mazzolino di alghe in un boccale azzurro sul tavolo. Le pareti erano imbiancate, e candide come il latte, e il copriletto multicolore mi fece quasi dolere gli occhi per la sua vivacità. In quella casa deliziosa notai in particolare una cosa, che era l’odore di pesce; ed era così penetrante che quando tirai fuori il mio fazzoletto per soffiarmi il naso, mi accorsi che sembrava avesse avvolto un’aragosta. Quando misi Peggotty a parte di quella scoperta, lei mi informò che suo fratello commerciava aragoste, granchi e gamberi; in seguito scoprii che di solito in un piccolo capanno di legno dove si riponevano le pentole e i bollitori si trovava un mucchio straordinariamente affollato di quelle creature, che non mancavano mai di pizzicare qualunque cosa gli capitasse a tiro.
Ci dette il benvenuto una donna molto cortese con un grembiule bianco, che avevo visto a circa un quarto di miglio di distanza quando ero ancora sulle spalle di Ham, farsi sulla porta e accennare un inchino. Così ci accolse anche una bambina bellissima (almeno così pensai) con una collana di perline azzurre, che non mi permise di baciarla quando mi offrii di farlo, scappando via a nascondersi. Dopo poco, quando avemmo cenato sontuosamente con platessa bollita, burro fuso, e patate, e una braciola per me, tornò a casa un uomo irsuto con una faccia molto bonaria. Poiché chiamò Peggotty “giovinotta” e le dette un sonoro bacio sulla guancia, non dubitai, dalla sua condotta generale, che fosse suo fratello; così infatti era; e mi fu immediatamente presentato come il signor Peggotty, il padrone di casa.
– Sono contento di vedervi, signorino, – disse il signor Peggotty. – Ci troverete un po’ rozzi, ma di buona volontà.
Lo ringraziai e replicai che ero certo che sarei stato benissimo in un posto delizioso come quello.
– E vostra madre come sta, signorino, – domandò il signor Peggotty. – L’avete lasciata contenta?
Feci intendere al signor Peggotty che mi pareva non potesse esserlo di più, e che gli porgeva i suoi saluti – una cortese invenzione da parte mia, questa.
– La ringrazio molto, – replicò il signor Peggotty. – Beh, signorino, se riuscirete a cavarvela, per un paio di settimane, con lei, – accennando a sua sorella, – con Ham, e con la piccola Em’ly, saremmo orgogliosissimi di avere la vostra compagnia.
Dopo aver fatto gli onori di casa in quella maniera ospitale, il signor Peggotty andò a lavarsi portandosi un bollitore pieno di acqua calda, osservando che “il freddo non avrebbe mai levato di dosso il suo sudicio”. Tornò quasi subito, e il suo aspetto era molto migliorato; ma era così rubicondo, che non potei evitare di pensare che la sua faccia aveva quello in comune con le aragoste, i granchi e i gamberi: entrava nell’acqua calda molto nera, e ne usciva molto rossa.
Quando dopo il tè la porta venne chiusa e rimanemmo al calduccio (le sere erano diventate fredde e nebbiose), mi sembrò il rifugio più piacevole che l’immaginazione di un uomo potesse concepire. Era quasi magico sentire il vento che si levava sul mare, al largo, sapere che la nebbia stava strisciando sulla piana desolata là fuori, e guardare il fuoco, pensando che non c’erano case vicino a quella, e che quella era una barca. La piccola Em’ly aveva vinto la sua timidezza, ed era seduta accanto a me sull’ultimo bauletto più basso, che era largo appena per noi due, ed entrava giusto giusto nell’angolo del camino. La signora Peggotty (6) con il grembiule bianco, stava lavorando a maglia al lato opposto del fuoco. Peggotty intenta al suo lavoro di cucito, con Saint Paul e il pezzo di cera, si trovava proprio a suo agio come se non fosse mai stata sotto un altro tetto. Ham, che mi aveva impartito la prima lezione di all four, (7) stava cercando di ritrovare il modo di leggere il futuro con quelle stesse carte molto sudice e marcava tutte quelle che girava con le impronte del suo pollice impregnato di pesce. Il signor Peggotty fumava la sua pipa. Sentii che era il momento adatto per la conversazione e le confidenze.
– Signor Peggotty! – esclamai.
– Signorino, – rispose lui.
– Avete dato a vostro figlio il nome di Ham, (8) perché vivete in una specie di arca?
Il signor Peggotty parve trovarla un’idea molto profonda, però rispose:
– No, signore. Non gli ho mai dato nessun nome.
– E allora chi gliel’ha dato? – dissi, rivolgendo la domanda numero due del catechismo al signor Peggotty.