Capitolo II - Osservo-2

2007 Words
Avevamo finito con i coccodrilli e stavamo cominciando con gli alligatori, quando suonò il campanello del giardino. Andammo alla porta; c’era mia madre, più carina del solito, pensai, e con lei era un signore con bellissimi capelli e favoriti neri, che la domenica precedente ci aveva accompagnati a casa dalla chiesa. Quando mia madre si chinò sulla soglia per prendermi in braccio e darmi un bacio, quel signore disse che ero un ometto più privilegiato di un imperatore – o qualcosa del genere; perché mi rendo conto che qui mi viene in aiuto ciò che compresi in seguito. – Cosa vuol dire? – gli domandai, da sopra la spalla. Mi dette una pacca sulla testa; ma per qualche motivo non mi piacque, né lui né la sua voce profonda, e mi ingelosii pensando che la sua mano nel toccarmi avrebbe sfiorato quella di mia madre… cosa che accadde. La spostai, con tutta la rudezza di cui fui capace. – Oh, Davy! – protestò mia madre. – Caro ragazzo! – esclamò il signore. – La sua devozione non mi meraviglia. Non avevo mai visto un colorito più bello sul viso di mia madre. Mi rimproverò gentilmente perché ero stato scortese; e tenendomi stretto allo scialle, si girò per ringraziare il signore di essersi disturbato tanto da riaccompagnarla a casa. Parlando, gli tese una mano, e quando lui, tendendo la sua, la toccò, mi parve che lei mi guardasse. – Diciamoci “buona notte”, mio caro ragazzo, – disse il signore, quando ebbe chinato la testa – lo vidi! – sul piccolo guanto di mia madre. – Buona notte, – risposi. – Su! Cerchiamo di diventare i migliori amici al mondo! – disse il signore, ridendo. – Diamoci la mano! La mia mano destra era nella sinistra di mia madre, così gli porsi l’altra. – Ma come, quella è la mano sbagliata, Davy! – rise il signore. Mia madre mi spinse in avanti la destra, ma io decisi, per la ragione precedente, di non dargliela, e non lo feci. Gli porsi l’altra, lui la scosse con veemenza, e disse che ero un ometto coraggioso, poi andò via. Prima che la porta si chiudesse vidi che quando fu in giardino si girò, per darci un ultimo sguardo con quegli occhi neri del malaugurio. Peggotty, che non aveva detto una parola né mosso un dito, mise subito i catenacci, e andammo tutti in salotto. Mia madre, al contrario di come faceva di solito, invece di sedersi sulla poltrona accanto al fuoco, rimase all’altro lato della stanza, e si sedette canticchiando. – … Spero che abbiate trascorso una piacevole serata, signora, – disse Peggotty, rimanendosene rigida come un pezzo di legno in mezzo alla camera, con una candela in mano. – Grazie mille, Peggotty, – rispose mia madre, in tono allegro, – ho passato una serata piacevolissima. – Uno sconosciuto, o qualcosa del genere, rappresenta un gradito cambiamento, – suggerì Peggotty. – Molto gradito, davvero, – replicò mia madre. Peggotty continuava a starsene immobile in mezzo alla stanza, mia madre riprese a cantare, e io mi addormentai, anche se non così profondamente da non sentire le loro voci, pur senza capire cosa dicessero. Quando mi svegliai quasi del tutto dal quel pisolino poco confortevole, vidi che Peggotty e mia madre erano entrambe in lacrime, e che stavano parlando. – Uno così al signor Copperfield non sarebbe piaciuto, – disse Peggotty. – Lo dico, e ci posso giurare! – Santo cielo! – ribatté piangendo mia madre. – Mi farai diventare matta! C’è mai stata una povera ragazza che sia stata trattata così male dalle proprie cameriere! E perché mi faccio il torto di chiamarmi ragazza? Non mi sono mai sposata, Peggotty? – Dio sa se lo siete stata, signora, – rispose Peggotty. – E allora come osi, – riprese mia madre – … sai che non voglio dire come osi, Peggotty, ma come puoi avere il cuore di… di farmi stare così male e di dirmi delle cose così cattive, quando sai benissimo che non ho mai avuto, al di fuori di qui, un singolo amico a cui rivolgermi! – A maggior ragione, – ritorse Peggotty, – posso dire che non funzionerà. No! Non funzionerà. No! A nessun costo. No! – Pensai che Peggotty avrebbe tirato la candela, perché la agitava con tanta enfasi. – Come puoi essere tanto insopportabile, – esclamò mia madre piangendo, e versando più lacrime di prima, – e parlare in maniera così ingiusta! Come puoi insistere come se fosse tutto deciso e organizzato, Peggotty, quando continuo a ripeterti, crudele che non sei altro, che non si è andati oltre la normale creanza! Parli di ammirazione. Cosa dovrei fare? Se la gente è tanto sciocca da indulgere in questo sentimento, è forse colpa mia? Che cosa devo fare, ti chiedo? Vorresti che mi rasassi la testa e che mi annerissi il viso, o che mi sfigurassi bruciandomi, o con una scottatura, o qualcosa del genere? Mi pare che sì, lo vorresti, Peggotty. Mi pare che ne saresti contenta… Peggotty sembrò essere molto toccata da questa calunnia, pensai. – E bambino mio caro, – gridò mia madre, avvicinandosi alla poltrona in cui ero io, e carezzandomi, – il mio piccolo Davy! Si può forse insinuare che non do abbastanza affetto al mio prezioso tesoro, il piccino più caro che sia mai esistito! – Nessuno si è mai azzardato a farlo, – disse Peggotty. – Tu, Peggotty! – ribatté mia madre. – E lo sai benissimo. Che altro si poteva pensare dopo ciò che hai detto, malvagia creatura, quando sai bene quanto me, che tre mesi fa solo per lui ho rinunciato a comprarmi un nuovo parasole, anche se quello verde vecchio è sfilacciato fino in cima, e la frangia è logora. Lo sai che è così, Peggotty. Non puoi negarlo. – Poi rivolgendosi piena d’affetto a me, appoggiando la sua guancia alla mia, – Sono una mamma cattiva, Davy? Sono una mamma maligna, crudele, egoista e perfida? Dillo, bambino mio; dì “sì”, mio caro figliolo, e Peggotty ti amerà, e il suo amore è molto meglio del mio, Davy, io non ti voglio bene per nulla, vero? A ciò, finimmo a piangere tutti insieme. Io credo di essere stato quello che piangeva più forte, ma sono certo che ognuno di noi fosse straziato. Il mio cuore era spezzato, e temo che nei primi trasporti di una tenerezza ferita chiamai Peggotty “bestia”. Quell’onesta creatura si afflisse profondamente, ricordo, e in quel frangente deve essere rimasta del tutto senza bottoni; perché una raffica di quegli esplosivi partì quando, avendo fatto pace con mia madre, si inginocchiò davanti alla poltrona e fece pace anche con me. Andammo a letto molto abbattuti. I miei singhiozzi mi tennero sveglio per molto tempo; e quando uno fortissimo mi fece sobbalzare nel letto, trovai mia madre seduta sul copriletto, china su di me. Mi addormentai fra le sue braccia, e dopo di ciò dormii sodo. Non ricordo se fosse la domenica seguente quando rividi il signore, o se trascorse più tempo prima che riapparisse. Non pretendo di essere preciso con le date. Comunque lo trovammo in chiesa, e ci riaccompagnò a casa. Entrò poi anche per vedere quel famoso geranio che avevamo alla finestra del salotto. Non mi sembrò che vi facesse molto caso, ma prima di andare via chiese a mia madre di dargliene un fiore. Lei lo pregò di sceglierlo, lui però rifiutò di farlo – non riuscii a capire perché – così lo prese lei per lui, e glielo porse. Lui disse che mai, mai se ne sarebbe separato; e io pensai che doveva essere piuttosto sciocco per non sapere che in un giorno o due si sarebbe guastato. La sera Peggotty prese a stare con noi meno di quanto non avesse mai fatto. Mia madre era molto rispettosa con lei – pensai che lo fosse più del solito – e andavamo d’accordissimo, tutti e tre; ma eravamo diversi da prima, e non ci trovavamo più tanto a nostro agio fra noi. Qualche volta immaginavo che magari Peggotty avesse da ridire sul fatto che mia madre indossava tutti i vestiti graziosi che aveva nei cassetti, o che andava tanto spesso a trovare i vicini; ma non riuscivo assolutamente a capirne il perché. Poco a poco mi abituai a vedere quel signore con i favoriti neri. Non mi piaceva più di prima, e provavo verso di lui la stessa sgradevole gelosia; ma se pure questa derivasse da qualche altra ragione oltre all’istintiva antipatia di un bambino, e dall’idea generale che Peggotty ed io potessimo prenderci cura di mia madre anche senza aiuto, non era senz’altro il motivo che avrei potuto trovare se fossi stato più grande. Niente di tutto ciò mi passò mai per la testa. Potevo osservare, in frammenti, ecco tutto; ma riuscire a formare una rete con quei frammenti, e prenderci qualcuno era molto al di sopra delle mie capacità. Un mattino d’autunno ero con mia madre in giardino, quando arrivò il signor Murdstone – ormai lo conoscevo con quel nome – a cavallo. Tirò le redini per salutare mia madre, e disse che andava a Lowestoft a trovare degli amici che erano là in una barca, e se volevo fare una cavalcata propose allegramente di farmi salire in sella davanti a lui. L’aria era così tersa e piacevole, e il cavallo sembrava così contento all’idea della passeggiata, mentre se ne stava al cancello del giardino, sbuffando e scalpitando, che mi venne una gran voglia di andare. Così fui mandato su da Peggotty per essere sistemato; nel frattempo il signor Murdstone smontò, e con la briglia sul braccio, si mise a camminare lentamente in su e in giù lungo il lato esterno della siepe di rosa canina, mentre mia madre camminava lentamente in su e in giù lungo quello interno per tenergli compagnia. Ricordo Peggotty e io che li guardavamo sbirciando dalla mia finestrella; ricordo come sembravano osservare da vicino la siepe fra loro, mentre passeggiavano; e come, dall’essere di umore angelico, in un secondo Peggotty si incupì, e mi spazzolò i capelli alla rovescia e con troppa forza. Il signor Murdstone ed io ci allontanammo subito dopo, trottando lungo le verdi zolle erbose al lato della strada. Mi teneva senza sforzo con un braccio, e credo che fossi piuttosto tranquillo; ma non riuscivo a stare lì davanti a lui senza girare la testa di tanto in tanto per guardarlo in faccia. Aveva quel genere di occhi di un nero superficiale – non trovo una parola migliore per definire un occhio che non abbia alcuna profondità – che, quando sono assorti, per un istante sembrano essere strabici a causa di qualche stranezza della luce. Ogni volta che lo guardavo notavo quella sua aria con una specie di timore, e mi chiedevo a cosa stesse pensando con tanta attenzione. Visti da vicino i suoi capelli e i favoriti erano ancora più neri e più folti di quanto persino io avrei potuto pensare. Una certa squadratura nella parte inferiore del suo viso, e i puntini che indicavano la barba ispida e nera che si radeva con cura tutti i giorni, mi ricordavano la figura di cera che all’incirca sei mesi prima era stata esibita nel nostro vicinato. Tutto questo, insieme alle sopracciglia regolari, il bianco pastoso, il nero, e il marrone della sua carnagione – al diavolo la sua carnagione, e il ricordo di lui! – mi fecero pensare di lui, a dispetto dei miei timori, che fosse un uomo molto bello. Non ho dubbi sul fatto che anche la mia povera madre lo pensasse. Andammo a un albergo vicino al mare, dove due signori stavano fumando il sigaro in una camera tutta per loro. Ognuno occupava, steso, almeno quattro sedie, e portavano delle giubbe grandi e grezze. In un angolo c’era una pila di giacconi e cerate da barca, e una bandiera, tutto ammassato insieme. Quando entrammo entrambi si alzarono subito in piedi con un movimento sgraziato, ed esclamarono, – Salve, Murdstone! Pensavamo che fossi morto!
Free reading for new users
Scan code to download app
Facebookexpand_more
  • author-avatar
    Writer
  • chap_listContents
  • likeADD