Capitolo II - Osservo-1

2151 Words
Capitolo II - Osservo Quando mi guardo indietro nel vuoto della mia infanzia, i primi oggetti ad assumere un aspetto distinto ai miei occhi sono mia madre con i suoi bei capelli, piena di gioventù, e Peggotty, informe, e con gli occhi così scuri da far sembrare scuro tutto ciò che li circondava sul viso, e guance e braccia così sode e rosse che mi chiedevo come mai gli uccelli non beccassero lei invece delle mele. Mi pare di ricordarle a poca distanza da me, piccole piccole perché si chinavano o si inginocchiavano per terra, e io che barcollante vado dall’una all’altra. Ho un’impressione dell’indice di Peggotty che non riesco a distinguere dai ricordi veri e propri, perché lei me lo avvicinava sempre, e di quanto fosse indurito dall’ago, come una minuscola grattugia per la noce moscata. Potrebbe essere solo immaginazione, anche se ritengo che la maggior parte di noi può tornare con la memoria molto più indietro di quanto non si supponga; proprio come sono convinto che molti bambini piccoli possiedano uno straordinario potere d’osservazione sia per precisione che per acume. E inoltre che anche di molti adulti che lo possiedono in modo notevole si debba dire che hanno conservato questa facoltà, piuttosto che l’abbiano acquisita; ritengo, osservandoli, che mantengono una certa freschezza e gentilezza, e capacità di divertirsi con poco, eredità anche queste che hanno mantenuto dalla loro infanzia. Potrei temere di ‘vagare’ soffermandomi a raccontare ciò, ma mi spinge a notare che in parte ho raggiunto queste conclusioni per esperienza personale; e se da qualcosa che scrivo in questo racconto risulterà che ero un bambino molto osservatore, o che da adulto ho conservato una forte memoria della mia infanzia, credo di possedere davvero entrambe queste caratteristiche. I primi oggetti che riesco a ricordare guardandomi indietro, come dicevo, nel vuoto della mia infanzia, si stagliano su una confusione di cose, e sono mia madre e Peggotty. Che altro ricordo? Vediamo. Ecco che la nostra casa esce dalle nuvole – non nuova per me, ma abbastanza familiare, fin dai primi ricordi. Al piano terreno c’è la cucina di Peggotty, che si apre su un cortile sul retro; con una colombaia su un palo, nel centro, senza nessun piccione; un grande canile per cani nell’angolo, senza nessun cane; e una quantità di polli che mi sembravano terribilmente alti, che gironzolavano, con aria minacciosa e feroce. C’è un gallo che sale su un palo per cantare, e sembra che mi abbia notato mentre lo sto guardando dalla finestra della cucina, che mi fa rabbrividire da tanto è fiero. Le oche fuori dal cancello laterale che mi seguono con la loro andatura ondeggiante e i loro lunghi colli tesi quando vado in quella direzione, me le sogno la notte: come un uomo circondato da belve selvagge può sognarsi i leoni. Qui c’è un lungo corridoio – che enorme prospettiva acquista! – che conduce dalla cucina di Peggotty alla porta d’ingresso. Vi si apre un ripostiglio oscuro, e quello è un posto davanti a cui di notte bisogna correre; perché quando non c’è nessuno con una luce, seppure fioca, non so proprio cosa possa nascondere fra quelle tinozze, barattoli e vecchi bauli, ed emana un’aria stantia che sa di sapone, sottaceti, pepe, candele e caffè, tutto in un soffio. Poi ci sono i due salotti: quello in cui la sera ci riuniamo, mia madre, io e Peggotty – perché Peggotty è la nostra compagnia, quando ha terminato il suo lavoro e siamo soli – e il salotto migliore, dove stiamo la domenica; in gran pompa, ma non tanto comodi. C’è qualcosa di triste in quella camera per me, perché Peggotty mi ha raccontato del funerale di mio padre – non so quando, ma sembrano secoli fa – e delle persone tutte vestite di nero che vi si erano raccolte. Una domenica sera mia madre legge a Peggotty e a me, di come Lazzaro sia risorto dalla morte. E io mi spavento talmente che in seguito sono costrette a tirarmi fuori dal letto per mostrarmi il tranquillo cimitero fuori della mia finestra, con tutti i morti che riposano nelle loro tombe, sotto la luna solenne. Che io sappia non c’è nulla, in nessun luogo, che si avvicini sia pure lontanamente al verde dell’erba di quel cimitero; niente di così ombroso come i suoi alberi; niente di così tranquillo come le sue lapidi. La mattina presto ci pascolano le pecore, quando mi inginocchio per guardarle sul mio lettino nella cameretta accanto a quella di mia madre; e vedo la luce rossa che brilla sulla meridiana e penso fra me e me, “Sarà contenta la meridiana di poter segnare il tempo ancora una volta?”. Ecco il nostro banco in chiesa. Che schienale alto che ha! Accanto c’è una finestra da cui si può vedere la nostra casa, e infatti viene vista molte volte durante la funzione della mattina, da Peggotty, che ama rassicurarsi come può che nulla venga rubato, e che non vada a fuoco. Gli occhi di Peggotty vagano, ma lei si offende moltissimo se lo fanno i miei, e con un’occhiataccia mi costringe a guardare il pastore. Ma non lo posso guardare sempre – lo conosco senza quella cosa bianca, e ho paura che si chieda perché lo fisso così, e magari possa fermare la funzione per domandarmelo – cosa posso fare allora? Non è bello sbadigliare, ma devo pur fare qualcosa. Guardo mia madre, ma lei finge di non vedermi. Guardo un ragazzino accanto a me, ma lui mi fa le boccacce. Guardo la luce del sole che entra dalla porta aperta attraverso il porticato, e vedo una pecorella smarrita – non intendo dire un peccatore, ma un montone – che stava quasi risolvendosi a entrare in chiesa. Se lo osservo un altro po’, sarò poi tentato di dire qualcosa ad alta voce; e allora cosa sarebbe di me! Guardo le lapidi monumentali sulla parete, e cerco di pensare al vecchio signor Bodgers di questa parrocchia, e a cosa aveva provato la signora Bodgers, quando lui era sofferente di molti mali e dovette sopportarli a lungo, senza che i medici potessero fare qualcosa. Mi domando se abbiano chiamato il signor Chillip, e anche lui sia stato inutile; e se è andata così, se gli piace che glielo ricordino una volta alla settimana. Sposto lo sguardo dal signor Chillip con la sua cravatta della domenica, al pulpito; e mi viene da pensare che sarebbe un posto fantastico per giocare, e che castello potrebbe essere, con un altro bambino che sale le scale per attaccare, a cui tirare in testa il cuscino di velluto con le nappe. Piano piano i miei occhi si chiudono; mi pare di sentire il pastore che sta intonando nell’afa un cantico lento, poi non sento più nulla, fino a che cado dal sedile con un gran fracasso, e vengo portato fuori, più morto che vivo, da Peggotty. E adesso vedo l’esterno della nostra casa, le finestre delle camere da letto con gli scuri aperti per lasciar entrare l’aria dolce, e i vecchi nidi malandati delle cornacchie che ancora oscillano sugli olmi in fondo al giardino. Adesso sono nel giardino sul retro, oltre il cortile in cui sono la piccionaia e il canile vuoti – una vera riserva di farfalle, nella mia memoria, con un alto steccato, e un cancello con un lucchetto; dove la frutta si ammassava sugli alberi, più matura e più succulenta di tutta la frutta che ci sia mai stata, in qualunque altro giardino, e dove mia madre ne raccoglie un po’ in un canestro, mentre io, lì accanto, ingoio furtivo dell’uva spina cercando di sembrare immobile. Si alza un gran vento, e l’estate finisce in un attimo. Giochiamo nel crepuscolo invernale, balliamo nel salottino. Quando mia madre resta senza fiato e si riposa su una poltrona, la guardo mentre si passa i riccioli lucidi fra le dita, e si raddrizza, e nessuno sa meglio di me quanto le piaccia avere un bell’aspetto, e che sia orgogliosa di essere così carina. Quella è fra le mie primissime impressioni. Quella, e la sensazione che entrambi avevamo un pochino timore di Peggotty, e che ci sottomettevamo a lei per molti versi, erano fra le prime conclusioni – se possono essere chiamate così – che io abbia tratto da ciò che vedevo. Una sera Peggotty ed io eravamo seduti accanto al fuoco del salotto, da soli. Le avevo letto qualcosa sui coccodrilli. Devo aver letto con molta chiarezza, oppure quell’anima bella deve essere stata profondamente interessata, perché ricordo che quando terminai, lei rimase con una vaga impressione che fossero una specie di verdura. Ero stanco di leggere, e morto di sonno; ma avendo il permesso, come grande premio, di restare alzato fino a che mia madre fosse tornata dalla casa vicina dove era andata a passare la serata, sarei piuttosto morto sul posto (ovviamente) che non andato a letto. Avevo raggiunto un tale stadio di sonnolenza che Peggotty sembrava gonfiarsi e diventare immensa. Tenni le palpebre aperte con gli indici, e la fissai senza distrarmi mentre era intenta al lavoro; tenendo lo sguardo sul pezzetto di cera che lei teneva per il suo filo – come sembrava vecchio, così rugoso da tutte le parti! – sulla casetta con il tetto di stoppie, dove abitava il metro; sulla scatola da lavoro, con il coperchio scorrevole, con sopra dipinta una veduta della cattedrale di Saint Paul (con la cupola rosa); sul ditale di ottone al suo dito; su di lei, che mi pareva adorabile. Ero così assonnato, che sapevo che se avessi perso di vista una qualsiasi cosa, anche solo per un momento, non ce l’avrei fatta. – Peggotty, – dissi, all’improvviso, – ti sei mai sposata? – Dio mio, signorino Davy, – replicò Peggotty. – Perché mai vi viene in mente il matrimonio! Rispose trasalendo, tanto da svegliarmi del tutto. Poi smise di lavorare, e mi guardò, con l’ago nel filo tirato per tutta la sua lunghezza. – Ma ti sei mai sposata o no, Peggotty? – domandai. – Tu sei una donna molto bella, non è vero? Pensavo a lei in un modo diverso da come pensavo a mia madre; però la consideravo un perfetto esempio di un’altra scuola di bellezza. Nel salotto migliore c’era uno sgabello rivestito di velluto sul quale mia madre aveva dipinto un mazzolino di fiori. Lo sfondo di quello sgabello, e la carnagione di Peggotty, mi parevano uguali. Lo sgabello era liscio, Peggotty invece era ruvida, ma ciò non faceva alcuna differenza. – Io bella, Davy! – esclamò Peggotty. – Diamine, no, tesoro mio! Ma cosa vi ha fatto venire in mente il matrimonio? – Non lo so! Non si deve sposare più di una persona alla volta, vero, Peggotty? – Certamente no, – rispose lei, svelta e decisa. – Ma se sposi una persona e quella muore, perché allora poi ne puoi sposare un’altra, perché è così, vero Peggotty? – PUOI, – replicò Peggotty, – se vuoi, tesoro mio. È questione di punti di vista. – E qual è il tuo? – chiesi. Feci la domanda e la guardai con curiosità, perché a sua volta mi guardava con altrettanta curiosità. – Il mio punto di vista è, – affermò Peggotty, levandomi gli occhi di dosso, dopo una breve indecisione, e tornando al suo lavoro, – che io non mi sono mai sposata, signorino Davy, e che non credo che lo farò. Ecco quello che so sull’argomento. – Non sei arrabbiata, vero Peggotty? – ripresi, dopo essere stato buono per un minuto. Pensavo davvero che lo fosse, era stata così brusca con me; invece mi sbagliavo, perché mise da parte il lavoro (che era una sua calza), e aprendo le braccia, vi prese la mia testa riccioluta, e la strinse forte. Sapevo che era una bella stretta, perché, essendo grassottella, ogni volta che faceva un piccolo sforzo con i vestiti addosso, alcuni dei bottoni sulla schiena saltavano. E ne ricordo due che schizzarono dall’altra parte del salotto, mentre mi abbracciava. – Ora fatemi sentire un altro po’ sui croccodilli, – disse Peggotty, che non aveva ancora afferrato bene quel nome, – perché ancora non ne so un bel niente. Non riuscivo a capire perché Peggotty avesse un’aria così strana, né perché fosse così ansiosa di tornare ai coccodrilli. In ogni caso, tornammo a quei mostri, da parte mia con una rinnovata attenzione, e lasciammo le loro uova nella sabbia perché il sole le schiudesse; e scappammo via, lasciandoli con un palmo di naso perché cambiavamo direzione ogni minuto, cosa che loro non erano in grado di fare rapidamente, per la loro struttura rigida; e li seguimmo in acqua, come degli indigeni, ficcandogli in gola dei pezzi di legno acuminati; insomma, non ci fermammo davanti a nulla. Così feci io, almeno; ho qualche dubbio su Peggotty, la quale, pensierosa, si toccava in continuazione con l’ago in varie parti del viso e delle braccia.
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