– Proprio alla David Copperfield! – gridò la signorina Betsey. – David Copperfield, dalla testa ai piedi! Chiama una casa Rookery quando non c’è una cornacchia nemmeno a pagarla, e invece pensa che ci siano perché ne vede i nidi!
– Il signor Copperfield, – ribatté mia madre, – è morto, e se voi osate parlarne male davanti a me…
Credo che la mia povera e cara madre avesse un’improvvisa intenzione di passare alle vie di fatto con mia zia, che l’avrebbe sistemata facilmente con una mano sola, anche se mia madre fosse stata più in forma per un incontro del genere di quanto non lo fosse quella sera. Ma l’abbandonò nell’atto stesso di alzarsi dalla sedia; e allora dolcemente si sedette di nuovo, ma svenne.
Quando riprese i sensi, oppure quando la signorina Betsey la fece rinvenire, comunque sia andata, vide che quest’ultima era alla finestra. A quel punto il crepuscolo stava sfumando nell’oscurità; ormai non riuscivano quasi più a vedersi, e sarebbe stato del tutto impossibile farlo senza l’aiuto del fuoco.
– Ebbene? – disse la signorina Betsey tornando alla sedia, come se avesse solo dato un’occhiata al panorama; – quando pensate che…
– Sto tremando, – balbettò mia madre. – Non so cosa ho. Morirò, ne sono certa!
– No, no, no, – replicò la signorina Betsey. – Prendete del tè.
– Oh povera me, povera me, credete che mi farà bene? – esclamò mia madre con voce disperata.
– Senz’altro, – disse la signorina Betsey. – È solo immaginazione. Come si chiama la vostra ragazza?
– Non so ancora se sarà una ragazza, signora, – rispose mia madre innocentemente.
– Creatura benedetta! – esclamò la signorina Betsey, citando a sua insaputa la seconda scritta del puntaspilli nel cassetto al piano di sopra, applicandola però a mia madre invece che a me, – non intendo dire questo. Mi riferisco alla vostra cameriera.
– Peggotty, – rispose mia madre.
– Peggotty! – ripeté la signorina Betsey, indignata. – Volete dire, bambina, che esiste un essere umano che sia entrato in una chiesa cristiana e ne sia uscito con il nome di Peggotty?
– È il cognome, – replicò mia madre flebile. – La chiamava così il signor Copperfield, perché il suo nome di battesimo era uguale al mio.
– Presto! Peggotty! – chiamò la signorina Betsey aprendo la porta del salottino. – Del tè. La vostra padrona non si sente bene. Non perdete tempo.
Avendo dato quel comando con tanta potenza come se fosse stata la riconosciuta autorità in quella casa da quando era stata una casa, ed essendosi affacciata per affrontare la stupefatta Peggotty che arrivava dal corridoio con la candela al suono di quella strana voce, la signorina Betsey richiuse la porta per tornare a sedersi come prima: con i piedi sul parafuoco, la gonna ben rincalzata, e le mani unite su un ginocchio.
– Dicevate che secondo voi è una femmina, – riprese la signorina Betsey. – Io ne sono sicurissima. Ho il presentimento che sia una femmina. E adesso, bambina, dal momento in cui nascerà questa creatura…
– Magari è un maschio, – mia madre si permise di dire.
– Vi dico che ho il presentimento che sia una femmina, – ribatté la signorina Betsey. – Non mi contraddite. Dal momento in cui nascerà questa creatura, bambina mia, io voglio essere sua amica. Voglio essere la sua madrina, e vi prego di chiamarla Betsey Trotwood Copperfield. Nella vita di questa Betsey Trotwood non ci saranno errori. Non farà confusione con i suoi affetti, povera cara. Sarà tirata su bene, e sarà protetta così che non darà sciocche confidenze a chi non lo merita. Sarà compito mio.
Dopo ognuna di queste dichiarazioni, la testa della signorina Betsey faceva un piccolo scatto, come se i suoi errori di un tempo si risvegliassero dentro di lei, e lei evitasse di tornarci sopra con un forte sforzo. Così almeno sospettò mia madre, mentre la osservava al debole riflesso del fuoco: troppo spaventata dalla signorina Betsey, troppo a disagio con se stessa, e troppo sottomessa e stupefatta per osservare le cose con chiarezza, o per sapere cosa dire.
– E David è stato buono con voi, bambina? – domandò la signorina Betsey, dopo essere stata silenziosa per un po’, mentre a poco a poco erano cessati gli scatti della testa. – Vi trovavate bene insieme?
– Eravamo molto felici, – rispose mia madre. – Il signor Copperfield è stato troppo buono con me.
– Vi avrà viziata, vero? – replicò la signorina Betsey.
– Dal momento che devo tornare a essere sola e dipendere da me stessa in questo mondo duro, sì, temo di sì, – singhiozzò mia madre.
– Ebbene! Non piangete! – esclamò la signorina Betsey. – Non eravate ben assortiti, bambina… sempre che due persone possano esserlo… ecco perché ho fatto quella domanda. Eravate orfana, vero?
– Sì.
– Facevate la governante?
– Ero governante e bambinaia in una famiglia dove il signor Copperfield veniva spesso a fare visita. Il signor Copperfield era gentilissimo, mi aveva notata, e aveva mille attenzioni per me, alla fine mi fece una proposta di matrimonio. E io accettai. Così ci sposammo, – disse mia madre con semplicità.
– Ah! Povera bambina! – rifletté la signorina Betsey, con il viso ancora rabbuiato e rivolto verso il fuoco. – Ne sapete qualcosa?
– Come, signora, – balbettò mia madre.
– Di come tenere la casa, per esempio, – replicò la signorina Betsey.
– Non molto, temo, – rispose mia madre. – Non quanto vorrei. Il signor Copperfield però mi stava insegnando…
(“Perché lui invece sì che ne sapeva!”), mormorò a parte la signorina Betsey.
– E sarei migliorata, spero, perché ero molto ansiosa di imparare, e lui molto paziente nell’insegnare, se la grande disgrazia della sua morte… – mia madre si interruppe di nuovo, e non riuscì a proseguire.
– Ebbene, su! – esclamò la signorina Betsey.
– Aggiornavo regolarmente il quaderno delle spese, e lo riguardavo tutte le sere con il signor Copperfield, – disse piangendo mia madre in un altro accesso di disperazione, e lasciandosi andare ancora una volta.
– Su, su! – disse la signorina Betsey. – Smettete di piangere.
– … E di certo non siamo mai stati in disaccordo, tranne quando il signor Copperfield trovava da ridire sui miei tre e i miei cinque perché si somigliavano troppo, o perché facevo uno svolazzo in fondo ai sette e ai nove, – riprese mia madre in un altro accesso, e lasciandosi andare nuovamente.
– Vi ammalerete, – affermò la signorina Betsey, – e sapete che non farà bene né a voi né alla mia figlioccia. Coraggio! Non dovete farlo.
Quell’argomento ebbe qualche effetto nell’acquietare mia madre, sebbene la sua crescente indisposizione forse ebbe una parte maggiore. Ci fu un momento di silenzio, rotto solo dalla signorina Betsey che esclamava di tanto in tanto, “Ah!” standosene seduta con i piedi sul parafuoco.
– So che David era riuscito a mettere insieme una rendita, – disse, poco dopo. – Per voi cosa ha fatto?
– Il signor Copperfield, – rispose mia madre, con qualche difficoltà, – si preoccupò di garantire che ne venisse versata una parte a me.
– Quanto? – domandò la signorina Betsey.
– Centocinque sterline l’anno, – rispose mia madre.
– Poteva fare peggio, – ribatté mia zia.
In quel momento fu la cosa giusta da dire. Mia madre si sentiva peggio, a tal punto che Peggotty, entrando con il vassoio del tè e le candele, si accorse con un’occhiata di quanto stesse male – come avrebbe potuto fare prima la signorina Betsey se vi fosse stata luce a sufficienza – e la portò in tutta fretta su in camera sua; poi mandò immediatamente a chiamare la levatrice e il medico: Ham Peggotty, suo nipote, negli ultimi giorni all’insaputa di mia madre era stato nascosto in casa, come messaggero speciale in caso di emergenza.
Quelle potenze alleate arrivando a pochi minuti di distanza l’una dall’altro furono assai meravigliate quando trovarono seduta davanti al fuoco una signora sconosciuta dall’aspetto imponente, con la cuffia legata al braccio sinistro, che si tappava le orecchie con dell’ovatta da gioielliere. Poiché Peggotty non sapeva nulla di lei, e mia madre non le aveva detto nulla, rappresentava un mistero nel salottino; e il fatto che avesse una gran quantità di quell’ovatta in tasca e che se la infilasse nelle orecchie in quel modo, non levava nulla alla solennità della sua presenza.
Il dottore era salito ed era ridisceso, ed essendosi reso conto – credo – che c’era la possibilità che lui e quella signora sconosciuta dovessero sedere là, faccia a faccia per alcune ore, si preparò a essere cortese e socievole. Era il più dolce degli uomini, il più mite rappresentante del sesso forte. Entrava e usciva furtivamente da una stanza, per occupare il minor spazio possibile. Aveva il passo leggero come il Fantasma dell’Amleto, ma camminava più lentamente. Teneva la testa piegata su un lato, in parte per poca considerazione di se stesso, in parte per ingraziarsi umilmente gli altri. È poco dire che non era in grado di lanciare nemmeno una parola a un cane. Nemmeno a un cane infuriato. Forse gliene avrebbe potuta porgere una con gentilezza, o mezza, o un frammento; perché parlava con la stessa lentezza con cui camminava; e nei suoi confronti non sarebbe stato maleducato, né aggressivo per tutto l’oro del mondo.
Il signor Chillip, guardando gentilmente mia zia, con la testa piegata da una parte, e rivolgendole un lieve inchino, disse, alludendo all’ovatta, toccandosi leggermente l’orecchio sinistro:
– Un’irritazione locale, signora?
– Cosa! – replicò mia zia, estraendo l’ovatta da un orecchio come se fosse stato un tappo di sughero.
Il signor Chillip fu così allarmato dalla sua asprezza – come disse poi a mia madre – che solo per pura misericordia non si perse d’animo. E ripeté con garbo:
– Un’irritazione locale, signora?
– Sciocchezze! – replicò mia zia e si ritappò, con un colpo solo.
Dopo di ciò, il signor Chillip non poté fare altro, se non sedere e guardarla gentilmente, mentre lei se ne stava seduta a guardare il fuoco, finché lo richiamarono di sopra. Dopo un’assenza di un quarto d’ora, ritornò.
– Ebbene? – domandò mia zia, tirando fuori l’ovatta dall’orecchio più vicino a lui.
– Ebbene, signora, – replicò il signor Chillip, – progrediamo… con un po’ di pazienza, signora.
– Ba… a… ah! – ribatté mia zia, scuotendo la testa con perfetto tempismo insieme a quella espressione piena di disprezzo, e si ritappò come prima.
Davvero – davvero – come disse il signor Chillip a mia madre, si scandalizzò quasi; parlando esclusivamente da un punto di vista professionale, si scandalizzò quasi. Nonostante ciò, rimase a guardarla per quasi due ore, mentre lei sedeva a guardare il fuoco, fino a che lo chiamarono di nuovo. Dopo un’altra assenza, ritornò.
– Ebbene?– domandò mia zia, levandosi di nuovo l’ovatta dallo stesso lato.
– Ebbene, signora, – rispose il signor Chillip, – progrediamo – con un po’ di pazienza, signora.
– Ya… a… ah! – esclamò mia zia. E facendogli un tale versaccio, che il signor Chillip non poté assolutamente sopportarlo. Era proprio calcolato per distruggergli il morale, disse poi. Preferì salire e sedersi sulle scale, al buio e fra gli spifferi, fino a quando lo mandarono nuovamente a chiamare.
Ham Peggotty, il quale aveva frequentato la National School, era un vero drago a catechismo, e quindi può essere considerato un testimone attendibile, riferì il giorno seguente che, capitandogli di sbirciare dalla porta del salotto un’ora dopo, venne istantaneamente adocchiato dalla signorina Betsey, che camminava avanti e indietro in uno stato di grande agitazione, e che venne acchiappato prima di poter fuggire. Riferì che di tanto in tanto sentivano il rumore di piedi e di voci sopra le loro teste e lui aveva intuito che l’ovatta non la isolava perché la signora lo afferrò come vittima su cui riversare la propria agitazione in eccesso quando quel frastuono si fece più forte. E che, costringendolo a camminare in continuazione in su e in giù tenendolo per il colletto (come se avesse preso troppo laudano), lei, in quei momenti, lo scuoteva, gli arruffava i capelli, gli stropicciava la camicia, gli tappava le orecchie come se le confondesse con le sue, insomma, lo bistrattava e lo maltrattava. In parte ciò venne confermato da sua zia, che lo vide a mezzanotte e mezza, poco dopo essere stato rilasciato, e sostenne che era rosso quanto lo ero io appena nato.
Il mite signor Chillip non poteva proprio serbare rancore in un momento come quello, se pure ne fosse stato capace. Entrò furtivo nel salottino non appena poté, e con il tono più mansueto possibile, disse a mia zia:
– Ebbene, signora, sono felice di potervi fare le mie congratulazioni.
– Per cosa? – domandò brusca lei.
Il signor Chillip si confuse nuovamente per l’estrema severità delle maniere di mia zia; così le fece un piccolo inchino e le rivolse un sorrisetto, per rabbonirla.
– Dio mi perdoni, ma che fate! – gridò mia zia, impaziente. – Non potete parlare?
– Calmatevi, mia cara signora, – disse il signor Chillip con il suo tono più dolce. – Non c’è più bisogno di agitarsi, signora. Calmatevi.
Da allora si ritiene che sia stato un miracolo che mia zia non l’abbia scosso, per fargli uscire quanto aveva da dire. Si limitò così a scuotere la propria testa, in un modo però che lo fece tremare.
– Ebbene, signora, – ricominciò il signor Chillip non appena ebbe il coraggio di farlo, – sono felice di farvi le mie congratulazioni. È finito tutto, signora, ed è finito bene.
Durante i cinque minuti, più o meno, in cui il signor Chillip si dedicò a questa orazione, mia zia lo guardò con occhio inquisitore.
– Come sta? – domandò, incrociando le braccia, a cui era ancora appesa la cuffia.
– Ebbene, signora, presto starà bene, io spero, – replicò il signor Chillip. – Bene quanto possiamo aspettarci che stia una giovane madre, in queste malinconiche circostanze domestiche. Non ci sono obiezioni di sorta a che la vediate subito, signora. Potrebbe giovarle.
– E lei. Come sta lei? – lo assalì mia zia.
Il signor Chillip piegò ancora un po’ la testa su un lato, e guardò mia zia come un amabile uccello.
– La piccola, – disse mia zia. – Come sta?
– Signora, – rispose il signor Chillip, – pensavo che ne foste al corrente. È un maschio.
Mia zia non disse una parola, prese la cuffia per i lacci, come una fionda, mirò per colpire la testa del signor Chillip, poi se la infilò sghemba, uscì e non tornò mai più. Svanì come una fata scontenta; oppure come uno di quegli esseri soprannaturali che tutti supponevano che io potessi vedere; e non tornò mai più.
No. Io sono nella mia culla e mia madre nel suo letto; ma Betsey Trotwood Copperfield rimase per sempre nella terra dei sogni e delle ombre, quella tremenda regione da dove poco tempo prima io ero partito; e la luce sopra la finestra della nostra camera brillò sulla meta terrena di tali viaggiatori, e sulle ceneri e la polvere che una volta furono colui senza il quale io non sarei mai esistito.