Capitolo I - Nasco
Se diventerò l’eroe della mia vita, o se questa condizione spetterà a qualcun altro, lo diranno queste pagine. Per cominciare la mia vita dall’inizio, devo dire che sono nato (così almeno mi hanno detto e così credo) di venerdì, a mezzanotte. Fu notato che l’orologio prese a suonare e che, nello stesso momento, io mi misi a piangere.
Considerando il giorno e l’ora della mia nascita, venne dichiarato dalla levatrice e da alcune comari che si erano vivamente interessate a me già qualche mese prima che potessimo conoscerci di persona, che primo, io sarei stato sfortunato; e secondo, che avrei avuto il privilegio di vedere fantasmi e spiriti; ritenevano infatti che entrambi questi doni fossero concessi inevitabilmente a tutti gli sfortunati bambini di entrambi i sessi, nati di venerdì nel cuore della notte.
Circa il primo punto non voglio aggiungere nulla, perché nulla meglio della mia storia dimostrerà se quella predizione si verificò o meno. Riguardo alla seconda parte della questione, noterò solo che a meno che già da bambino io non abbia ricevuto quella parte dell’eredità, non l’ho ancora avuta. Ma non mi lamento affatto di esserne stato privato; e se in questo momento ne gode un altro, è caldamente incoraggiato a continuare a farlo.
Sono nato con la camicia, che venne messa in vendita sui giornali al modico prezzo di quindici ghinee. Non so se chi andava per mare in quel momento fosse a corto di denaro, o di fede, e preferisse un salvagente di sughero; (1) so solo che ci fu un’unica offerta, da parte di un avvocato che aveva a che fare con un’agenzia di cambio, che offrì due sterline in contanti, e il resto in sherry, ma che rifiutò di proteggersi dall’affogamento per una cifra più alta. L’annuncio venne quindi ritirato senza che si arrivasse a nulla – perché quanto allo sherry, allora sul mercato c’era quello della mia povera madre – e dieci anni dopo, l’amnio venne offerto come premio in una riffa in campagna dalle nostre parti, a cinquanta persone per mezza corona a testa, così che il vincitore avrebbe speso cinque scellini. Ero presente anch’io, e ricordo di essermi sentito piuttosto a disagio e confuso, perché una parte di me veniva messa in mostra in quel modo. Ricordo che venne vinto da una vecchia signora con una sporta dalla quale estrasse con grande riluttanza i cinque scellini stabiliti, tutti in monete da mezzo pence. Le mancavano però due penny e un mezzo pence – e ci volle un tempo infinito e si sprecarono molti calcoli per tentare di dimostrarglielo, senza alcun risultato. Lei poi morì trionfalmente nel suo letto a novantadue anni, senza affogare, e da quelle parti questo fatto considerato straordinario verrà ricordato a lungo. Venni poi a sapere che fino all’ultimo il suo maggior vanto era stato quello di non essere mai stata sull’acqua in tutta la sua vita, tranne che su un ponte; e che prendendo il tè (per il quale aveva un gran debole), fino alla fine lei espresse la sua indignazione verso l’empietà di marinai e simili, che avevano la presunzione di andarsene – a zonzo – per il mondo. E a nulla valeva assicurarle che alcune comodità, come forse il tè, si dovevano a questa pratica esecrabile. Lei ribatteva sempre, con grande enfasi e sicurezza istintiva nella forza della sua obiezione, “Guai, vagare per il mondo”.
E per non divagare nemmeno io, mi affretto a tornare alla mia nascita.
Sono nato a Blunderstone, nel Suffolk, o nei “paraggi”, come dicono in Scozia. E sono nato postumo. Gli occhi di mio padre si erano chiusi alla luce di questo mondo da sei mesi, quando i miei si aprirono per guardarla. Ancora oggi trovo qualcosa di strano nel pensare che non mi abbia mai visto; e qualcosa di ancora più strano nei vaghi ricordi che ho delle mie prime associazioni infantili con la sua lapide bianca nel cimitero, e dell’indefinibile compassione che mi suscitava là fuori sola nella notte buia, mentre il nostro piccolo salottino era caldo e illuminato dal fuoco e dalle candele, mentre le porte della nostra casa erano per quella lapide – quasi con crudeltà, alle volte pensavo – chiuse e stoppinate.
Una zia di mio padre, e quindi una mia prozia, di cui dovrò ancora parlare in seguito, fu la benefattrice principale della nostra famiglia. La signorina Trotwood, o signorina Betsey, come la chiamava sempre la mia povera mamma, quando riusciva a superare quanto bastava il terrore che provava per questo formidabile personaggio tanto da riuscire a nominarla (e ciò avveniva di rado), si era sposata con un uomo più giovane di lei, molto bello, tranne che nel senso del semplice adagio “bello è chi cose belle fa”, perché si sospettava che la picchiasse, e persino che una volta, durante una discussione per una questione di approvvigionamenti, avesse fatto dei tentativi frettolosi ma determinati di buttarla fuori da una finestra del secondo piano. Queste prove di incompatibilità di carattere convinsero la signorina Betsey a liquidarlo, e a effettuare una separazione consensuale. Con il suo capitale, lui andò in India, e là, secondo una stranissima leggenda familiare, una volta venne visto su un elefante, in compagnia di un babbuino; ma io credo piuttosto che si trattasse di un Baboo – o di una Begum. (2) In ogni caso, dopo dieci anni, dall’India giunse la notizia della sua morte. Nessuno seppe l’effetto che ciò ebbe su mia zia; perché immediatamente dopo la separazione, lei aveva ripreso il suo nome da ragazza, si era comprata un cottage in un villaggetto sulla costa molto lontano, stabilendovisi da sola con una cameriera. E si seppe anche che viveva reclusa in un rigoroso isolamento.
Credo che in un certo periodo tra lei e mio padre ci fosse stata molta confidenza; ma la zia rimase mortalmente offesa quando lui si sposò, ritenendo che mia madre fosse una “bamboletta”. Non l’aveva mai vista, ma sapeva che aveva meno di vent’anni. Mio padre e la signorina Betsey non si videro mai più. Al momento del matrimonio lui aveva il doppio degli anni di mia madre, ed era di salute malferma. Morì un anno dopo e, come ho già detto, sei mesi prima che io arrivassi in questo mondo.
Questo era lo stato delle cose nel pomeriggio, e mi si scuserà se lo definisco così, di quell’importantissimo e memorabile venerdì. Non posso affermare di sapere come stessero le cose in quel momento né che ricordo qualcosa di quanto segue, basandomi sui miei sensi.
Mia madre, malaticcia e molto avvilita, era seduta accanto al fuoco e lo guardava con gli occhi pieni di lacrime disperandosi per se stessa e per quel piccolo sconosciuto senza padre, a cui era già stato dato il benvenuto da alcuni pacchetti di spilli profetici, riposti in un cassetto al piano di sopra, in un mondo per nulla eccitato dall’annuncio del suo arrivo; mia madre, ripeto, era seduta accanto al fuoco, quel pomeriggio di marzo luminoso e pieno di vento, timorosa e triste, e piena di dubbi sul riuscire a venire fuori viva dalla prova che l’aspettava quando, alzando gli occhi per asciugarli, vide in giardino dalla finestra davanti a lei una strana signora che si avvicinava.
A un secondo sguardo mia madre fu certa che si trattava della signorina Betsey. Il sole calante al di sopra dello steccato brillava sulla strana signora quando giunse alla porta; la sua fiera rigidità e compostezza non sarebbero potute appartenere a nessun altro.
Quando raggiunse la casa dette un’altra prova della sua identità. Mio padre aveva spesso accennato che solo di rado lei si comportava come una cristiana qualsiasi; adesso infatti, invece di suonare il campanello, arrivò a quella stessa finestra e ci guardò dentro, premendo la punta del naso contro il vetro con tanta forza che la mia povera e cara madre diceva sempre che in un istante era diventato perfettamente bianco e piatto.
Fece prendere a mia madre uno spavento tale, che sono sicuro di dovere alla signorina Betsey di essere nato di venerdì.
Mia madre si alzò dalla sedia agitatissima, e vi si riparò dietro, nell’angolo. La signorina Betsey cominciò a guardarsi intorno, con lentezza e con fare inquisitorio, iniziando dal lato opposto, e muovendo gli occhi come la Testa del Saracino in un orologio olandese, fino a quando si posarono su mia madre. Poi si accigliò e le fece un gesto, come chi è abituato a essere obbedito, perché venisse ad aprirle la porta. Mia madre andò.
– La signora David Copperfield, direi, – osservò la signorina Betsey; e l’enfasi forse era riferita alle gramaglie di mia madre e alla sua condizione.
– Sì, – rispose mia madre con un filo di voce.
– La signorina Trotwood, – replicò la visitatrice. – Ne avrete sentito parlare, no?
Mia madre rispose che aveva avuto quel piacere. Ed ebbe la sgradevole consapevolezza di non mostrare che era stato un piacere estremo.
– In persona, – continuò la signorina Betsey. Mia madre chinò il capo, e la pregò di entrare.
Entrarono nel salottino da dove era arrivata mia madre, perché nella camera migliore all’altro lato del corridoio il fuoco non era stato acceso – e dal funerale di mio padre; quando si furono sedute, e la signorina Betsey non disse nulla, mia madre, dopo aver invano tentato di frenarsi, iniziò a piangere.
– Suvvia, – disse subito la signorina Betsey. – Non lo fate! Su, su!
Mia madre però nonostante ciò non riuscì a controllarsi, e pianse fino a quando si fu sfogata.
– Levatevi la cuffia, bambina, – disse la signorina Betsey, – e lasciate che vi guardi.
Mia madre aveva troppa paura di lei per rifiutarsi di obbedire a quella strana richiesta, anche se le sarebbe piaciuto. Perciò fece come le venne detto, e le tremarono talmente le mani che i capelli (foltissimi e splendidi) le ricaddero sul viso.
– Ma santo cielo! – esclamò la signorina Betsey. – Siete proprio una bimba!
È fuor di dubbio che mia madre avesse un aspetto insolitamente giovanile, anche per gli anni che aveva; chinò la testa, come se fosse colpa sua, poverina, e disse singhiozzando che aveva paura di essere una vedova molto infantile, e che se fosse sopravvissuta, lo sarebbe stata anche come madre. Nella breve pausa che seguì, ebbe la sensazione che la signorina Betsey le toccasse i capelli, e che lo facesse con mano gentile; invece guardandola, con timida speranza, si accorse che la signora era seduta con la gonna ben rincalzata, le mani unite sopra un ginocchio, e i piedi sul parafuoco, mentre guardava le fiamme accigliata.
– In nome del cielo, – disse d’un tratto la signorina Betsey, – perché Rookery?
– Volete dire la casa, signora? – domandò mia madre.
– Perché Rookery? – ripeté la signorina Betsey. – Cookery (3) sarebbe stato più appropriato, se aveste avuto un’idea più pratica della vita, tra tutti e due.
– Il nome è stato scelto dal signor Copperfield, – rispose mia madre. – Quando comprò la casa, gli piaceva pensare che vi fossero delle cornacchie.
In quell’istante il vento della sera fece un tale rumore, fra gli olmi vecchi e alti in fondo al giardino, che né mia madre né la signorina Betsey poterono evitare di guardare in quella direzione. Gli alberi si piegarono l’uno verso l’altro, come giganti che si sussurravano segreti, e dopo alcuni momenti di riposo, si agitarono violentemente, muovendo le braccia come pazzi da una parte e dall’altra, come se le ultime confidenze che si erano scambiati fossero davvero troppo perfide per la pace dei loro spiriti, e alcuni vecchi nidi di cornacchia molto malandati, che appesantivano i loro rami più alti, ondeggiarono come relitti sul mare in tempesta.
– E gli uccelli dove sono? – domandò la signorina Betsey.
– Gli…? – Mia madre si era messa a pensare ad altro.
– Le cornacchie… cosa gli è capitato? – domandò la signorina Betsey.
– Non ce ne sono mai state da quando viviamo qui, – rispose mia madre. – Pensavamo… pensava il signor Copperfield… che fosse una colonia di cornacchie; però i nidi erano vecchissimi, e gli uccelli li avevano abbandonati da molto tempo…