Presente
Sheridan
Chi non impara dal passato, è condannato a ripeterlo.
La frase stampata sul mio calendario delle citazioni del giorno mi rimbalza in testa mentre attraverso a piedi il parcheggio dissestato. I miei tacchi schiacciano dei vetri rotti e stringo i denti. Sono qui sotto coercizione. Se rovino le mie Jimmy Choos preferite in questo stupido incarico, mi incazzo sul serio.
Puoi farlo, zuccherino. Questa è stata solo una delle battute del discorsetto d’incoraggiamento che mio padre mi ha fatto. Il branco conta su di te è un’altra. Posso sentire la parte lasciata nel silenzio: io conto su di te. Se c’è una cosa che trent’anni di vita mi hanno insegnato, è che farei qualsiasi cosa per rendere orgoglioso mio padre. Incluso tornare ai tempi del liceo.
A quanto pare non ho imparato niente dal passato, perché eccomi qua, a ripeterlo. Ora che ci penso, è stato mio padre a darmi quel maledetto calendario delle citazioni del giorno.
Un magazzino fatiscente si profila minaccioso dall’altra parte dello spiazzo in ghiaia, innalzandosi dal cemento fratturato. Una serie di motociclette sono appoggiate in fila addosso a una rete rotta. Alcuni furgoncini spezzano la riga infinita di pelle e cromature. Passo accanto a una Chevrolet schizzata di fango, con una portiera sostitutiva arrugginita a donare una macchia di colore al blu della carrozzeria ammaccata. Un adesivo sbadito mostra un lupo che ulula. Un altro: un cane con la gamba sollevata e un chiaro arco liquido che colpisce un simbolo Ford.
Affascinante.
Mentre mi avvicino, la porta si apre di schianto e un mutante esce barcollando, la criniera di capelli impiastricciati e la maglietta macchiata di sudore che puzza di birra, piscio ed erba. Alle sei del pomeriggio di un mercoledì.
Adorabile.
“Mi scusi.” Gli toccherei il braccio per richiamare la sua attenzione, ma non so dove sia stato. “È questo il Fight Club dei mutanti?”
Il mutante mi lancia un’occhiata e mi irrigidisco. Sto indossando un completo con giacca e gonna di Anne Klein. Il color oliva fa risaltare le mèche caramello e rosso dei miei capelli, oltre a rendere strepitoso il verde dei miei occhi. Abbinato alle calze velate, che più velate non si può, e alle mie fortunate Jimmy Choos, sono tutta affari davanti, capperi dietro e… cazzutamente sexy sotto.
Non che questo insignificante lupo mutante lo possa mai scoprire. Il suo sguardo si sposta dalle mie scarpe lucide alla mia gonna elegante e ai miei fianchi piuttosto generosi, soffermandosi attorno alla mia vita affusolata e facendo tappa proprio sulle mie ragazze.
“Ehi,” gli dico bruscamente. “Li ho quassù, gli occhi.”
Il mutante solleva lo sguardo. “È luna piena?” dice con un ghigno. “Perché ho un’immediata urgenza di accoppiarmi.”
Ho scelto male. Fantastico.
“No,” abbaio, decidendo di non sprecare altra cortesia con questo deficiente. “Sto cercando…”
Dietro al mutante, la porta si riapre e la musica rock invade la giornata di sole. Un ululato ubriaco riempie l’aria: “Bere, bere, bere, bere!”
Ecco, sono tornata al liceo.
Un fusto di birra nel bosco, ragazzi mutanti a petto nudo che fanno la verticale. Il mio cuore che palpita mentre mi avvicino a uno di loro. Quello bellissimo e problematico con gli occhi azzurri come il ghiaccio. Lui si gira e un sorriso illumina il suo volto aspro. Mi leva il fiato…
“Signorina? Signorina…” Un’alitata che puzza di birra mi fa fare un passo indietro. “Se fossi in te, non entrerei là dentro,” mi informa il lupo con tono solenne. Ottimo consiglio. Peccato che non possa dargli retta.
“È questo il Fight Club?” chiedo, e quando annuisce spingo la porta con il palmo, inspirando una boccata d’aria e trattenendola nei polmoni, mentre entro nel torbido mondo della criminalità.
Mi ci vuole un secondo perché i miei occhi si adeguino alla penombra. Granelli di polvere sono sospesi nell’aria pregna di fumo. A destra, un mutante sta dietro a un bancone di fortuna, passando bicchieri ai suoi chiassosi clienti. Un gruppo di sciacalli con vestiti di pelle si sparano degli shottini. Alcuni barcollano. Uno è in piedi su uno sgabello di metallo e canta una canzone da ubriaco dalla sonorità vagamente irlandese. Non si capisce, perché sta biascicando e lanciando imprecazioni una parola sì è una no.
Il posto è cavernoso, con un pavimento di cemento e la luce che filtra all’interno dalle finestre che si trovano in alto, vicino al soffitto. Chiunque abbia convertito il magazzino non ha fatto un brutto lavoro. Il bancone e il retro sono stati fatti con legno riciclato. Ci sono alcuni tavolini alti con il ripiano di metallo e altro legno verniciato. Non ha un brutto aspetto, in effetti. Diamo a questo posto una bella pulita – magari una lavata di fondo con l’idropulitrice – e lo faremo apparire trendy, un posticino da hipster per farsi un brunch. Ovviamente bisognerà cambiare l’insegna del bagno. In questo momento dice: Troie e stalloni da monta.
Incantevole.
Ruoto gli occhi al cielo e mi faccio da parte mentre un gruppo di giaguari mi passa accanto, diretti al bar. Hanno i capelli scuri leccati indietro e i colletti delle camicie a foggia di aspiranti greaser anni Cinquanta. Alcuni si voltano a guardarmi con blando interesse, e mi trattengo dal ruotare di nuovo gli occhi.
Non c’entro nulla qua dentro. Sono l’unica che indossa gonna e giacchino. E poi sono una lupa. Non ci sono molte femmine in questo posto. Qualche stronza forse. Beh, so essere stronza pure io. Imposto i denti in una posa che è mezzo sorriso e mezzo ringhio e avanzo nell’ombra. Altri mutanti stanno riuniti in gruppetti e mormorano tra loro. Uno indica un bloc notes e il suo amico tira fuori un portafoglio. Con la coda dell’occhio vedo banconote che passano di mano in mano. Quasi mi fermo e fisso questa spudorata prova di gioco d’azzardo.
C’è una grossa gabbia sopra a un palco sopraelevato. All’interno, un ossuto mutante con un cespo di capelli arancioni in testa sta spingendo pigramente un mocio sul pavimento. Arriccio il naso sentendo un odore pungente. Sangue.
Più mi avvicino al ring dei combattimenti e più forte si fa l’odore. Sangue, sudore, piscio, tutto mescolato in un amalgama che mi dà alla testa. Se il testosterone avesse un odore, sarebbe questo. Arriccio il naso e mi faccio strada in mezzo ai mucchi di immondizia e vado a sbattere contro un solido muro di muscoli.
“Oh, mi scusi…”
“Attenta a dove vai, principessa.” Le parole escono come il rombo di una valanga da questa bestia d’uomo. Alzo lo sguardo e resto immobile, a bocca aperta. Due occhi selvatici mi scrutano da un volto segnato dai combattimenti. Braccia, collo, guance: qualsiasi parte di lui che non sia coperta dai tatuaggi è segnata dalle cicatrici. Bastano queste ultime a tenere i miei occhi fissi su di lui. Con i poteri di guarigione di un mutante, non sono cosa comune, ma neanche impossibile. Quante botte ha preso questo tipo, per non guarire del tutto e restare segnato dalle cicatrici?
Una grossa mano rimane sospesa sopra al mio gomito, come se fosse pronto ad afferrarmi per tenermi in piedi… o buttarmi fuori. “Questo non è un posto per signorine.”
“Io… ehm, io…” È ridicolo. Sono Sheridan Green, dei Green di Wolf Ridge, capi del branco di Phoenix. Sia mio zio che mio cugino sono alfa. Sono immersa nelle dinamiche politiche dei lupi mannari fin da quando ho imparato a camminare.
Fisso il viso segnato e cerco di ricordare la mia missione e i miei metodi. “Chiedo scusa.”
“Stai cercando qualcuno?” ringhia lui.
Liscio la giacca del mio completo, cercando di mantenere un tono. “Io… sì. Garrett Green è qui?”
Il grosso tizio inarca un sopracciglio. “L’alfa non ci viene qui.”
Mi lecco le labbra, cercando di pensare con chi altro potrei provare. “Mi hanno detto che questa è un’operazione di branco.”
“Ti hanno detto male,” mi risponde. È un mutante, ma non riesco a sentire bene l’odore e capire che tipo di animale sia, anche se lo percepisco, grosso e minaccioso, sotto alla sua pelle ostile. Sicuramente un primate predatore. “Questa roba qui è indipendente dal branco.”
Mi arrovello il cervello. Se non è il branco di Garrett a condurre l’operazione, allora chi è? “Pensavo che questo posto fosse sotto la protezione del branco di Tucson.”
Il grosso tizio scrolla le spalle. “Siamo lottatori. Ci proteggiamo da soli.”
“Ma è…” Scuoto la testa. Non voglio dire ‘una follia’. “Sono del branco di Phoenix. Mi hanno mandata qui per capire cosa sta succedendo…”
“Ehi, Grizz, chi è la tua amica?”
Mi volto verso la voce di seta che mi è appena arrivata all’orecchio, e ho il secondo shock della serata. Grizz, il grosso tipo che mi sta accanto, si mette tra me e l’uomo che ha parlato, ma non prima che mi arrivi una zaffata di acqua di colonia. Il seducente profumo copre un odore più brutto, un odore che sa di pietra fredda come una tomba, con un retrogusto di vecchio sangue.
Piego le labbra e ringhio: “Vampiro.”
Il succhiasangue è alto, con un volto magro tanto bello da apparire inumano. La sua bellezza è predatoria, letale, come un fiore velenoso. Uomini e donne ne saranno sempre attratti, ma prima di capirne il perché si ritroveranno morti.
Sorride, mostrando un paio di appuntiti canini. Mi viene la pelle d’oca e la mia lupa sale in superficie.
“Stai indietro, Nero,” dice il grosso mutante, le spalle vigorose poste fra me e il vampiro. “È un’ospite.”
“Mio caro Grizzly.” Il vampiro allarga elegantemente le braccia. Indossa un completo da mille dollari con stivali da cowboy in pelle di serpente. “Non lo siamo tutti?”
“Andiamo.” Grizz mi spinge verso il retro, lontano dal vampiro sorridente. “L’ufficio è da questa parte. Il capo vorrà parlare con te.”
Permetto al mutante pieno di cicatrici – un orso grizzly, ovviamente – di farmi strada dietro alla gabbia, in direzione dell’angolo del magazzino, dove un cubo scuro e delle dimensioni di una stanza abbraccia le pareti. Dietro di noi, Nerone ci guarda, i denti che brillano nella penombra. Reprimo un brivido.
“Quindi le voci sono vere,” mormoro. “Questo posto è passato ai succhiasangue.”
Grizz mi guarda torvo e mi spinge delicatamente verso la porta dell’ufficio. “Qualcuno è venuto a trovarti, capo,” esclama, battendo il pugno con leggerezza contro il lato del cubo.
La porta si apre e mi trovo a vivere il mio terzo shock. Capelli a spazzola, orecchino al labbro, tatuaggi scuri sulle braccia muscolose. E quegli occhi azzurri di ghiaccio che mi passano attraverso. Barcollo come se mi avessero pugnalata, e lui tende automaticamente le mani per tenermi in piedi.
Trey Robson.
“Sheridan.” È proprio come la prima volta che ha detto il mio nome. Trey mi fissa come se non fosse sicuro della mia presenza, ma incombe su di me. E io sono perduta, affogo nel passato, l’eccitazione e il ricordo nei suoi occhi azzurro chiaro.