13 | ᴄɪᴀᴏ, ɪᴠʏ.

1042 Words
La cena di ieri si può definire un disastro. Mi sono sentita a disagio nella prima parte, quando Andrew rispondeva vago ad ogni domanda; poi mi sono sentita confusa e delusa mentre mi parlava sulla spiaggia; e poi mi sono sentita in imbarazzo quando siamo rientrati. Lui parlava con i nostri genitori, e facevano tutti discorsi da adulti. Sì, persino mia madre. Mentre io, troppo giovane per parlare di esperienza lavorative o della vita, - perché, per alcuni, a ventidue anni non si può dire di aver vissuto davvero - stavo per i fatti miei in silenzio. Dopo i primi venti minuti avevo persino provato a prendere in mano il telefono per poter scrivere a Jax, ma sono persino stata rimproverata da mio padre. Quello è stato praticamente l'unico momento in cui si sono ricordati di me. Un po' ipocrita come cosa. L'unica che sembrava accorgersi della situazione era mia madre, che a casa mi ha chiesto scusa per la noia che trasmettono gli adulti. L'ho adorata in quel momento. È arrivato il weekend. La prima settimana di lezioni non è stata così pesante. Più o meno. Sono in camera a leggere. Sono seduta per terra con la schiena appoggiata al letto. Sono completamente immersa nella storia, quando sento la porta d'ingresso aprirsi e delle voci familiari. Mi sento il sangue gelarsi nelle vene, e mi viene la pelle d'oca. Spero di sbagliarmi. Scatto in piedi e metto il libro sul comodino, mentre mi affaccio dalla finestra e vedo un taxi parcheggiato davanti casa. Sento dei passi veloci sulle scale e la mia porta viene aperta così velocemente che va a sbattere contro al muro. Sussulto, spaventata, e mi giro di colpo. Mio cugino è qui, davanti a me, con un sorriso arrogante e un ego che mi fa soffocare. «Allora, come sta la cugina più deludente che ho?» Ha le braccia incrociate sul petto e la spalla destra appoggiata sullo stipite della porta. Mi sembra di essere appena stata catapultata in un incubo. Gli scocco un'occhiataccia, e lui in risposta solleva un sopracciglio. «Sto di certo meglio del criceto che hai in testa. Di' un po', non è già morto per tutto lo sforzo che deve fare nel fare funzionare almeno mezzo tuo neurone?» Non attendo una sua risposta, - non mi interessa -, ed esco dalla camera. Scendo di fretta le scale e vado verso l'ingresso. La prima cosa che entra nel mio campo visivo è una valigia. Anzi, diverse valigie. E tutte mi sembrano parecchio grandi. Poi il mio cervello mi impone di guardare in cucina. Ed è qua che la vedo. Scarpe nere e lucide con un tacco spropositato, vestito nero sicuramente di marca e una pelliccia rosa che ricorda molto quella di Crudelia De Mon. Appena la donna mi vede, un sorriso falso si palesa sul suo volto. Il suo sguardo mi percorre tutta, scandagliando centimetro per centimetro della mia figura. Mi sta giudicando, lo so. Nora, la sorellastra di mio padre, è qui. Non ha mai sopportato mia madre, principalmente per il suo stile di vita, e, di conseguenza non ha mai sopportato me. Per lei sono una nullità che rimarrà sempre tale. L'unica persona che sembra tollerare di questa famiglia è mio padre, che le vuole troppo bene per tagliare i ponti con lei. Nora, - di chiamarla zia non se ne parla -, ha sposato un uomo ricco di cui si vanta un ogni occasione. Ha dato vita ad un essere traboccante di egocentrismo ed egoismo. Ma di certo tollero più la presenza del figlio che la sua. Il suo sguardo palesa disgusto e derisione. «Ciao, Ivy.» «Nora» mormoro. Sento il fiato mancarmi sempre di più, così ignoro lo sguardo preoccupato di mia madre ed esco fuori dalla porta. Sento l'ossigeno che viene meno, come se ci fosse un enorme e opprimente peso sul mio petto. Esco di casa, nel cortile, mentre iniziano le palpitazioni e i tremori. Sto avendo un attacco di panico. Respiro affannosamente e mi guardo intorno. Appena vedo la casa del signor Dowson, mi sento meglio. Emotivamente parlando, s'intende. Corro verso casa sua e busso. Durante l'adolescenza ho sofferto spesso di attacchi di panico, e il signor Dowson mi è sempre stato accanto. È come un secondo padre per me. A quanto pare da adolescente ne ha sofferto anche lui. Da quando mi ha trovata una volta nel giardino mentre ero in preda ad uno dei miei primi attacchi di panico e non sapevo cosa fare, è diventato il mio porto sicuro in queste situazioni. L'unico che sapeva calmarmi. Nel corso degli anni ho imparato a cavarmela da sola, quindi mentre aspetto che apra, tengo la testa appoggiata alla porta e gli occhi chiusi. Tento di regolare il mio respiro, cosa che mi risulta piuttosto difficile, ma non impossibile. Appena riesco a calmarmi la porta viene aperta. «Oddio, Ivy, hai avuto un attacco di panico?» Annuisco, mente ho il fiatone. Mi fa entrare e mi fa sedere in cucina, mentre riempie un bicchiere con dell'acqua fresca. «Grazie.» Si siede difronte a me. «Cosa è successo?» «Nora.» Il suo viso si incupisce. «Merda.» «Già, è quello che è.» Il signor Dowson sorride. «Lei o la situazione?» Scoppio a ridere. «Bah, direi entrambe.» «Si è portata dietro anche il circo?» «Sì, c'è pure il mio adorato e fantastico cugino.» Fa una smorfia di disgusto. «Che gioia.» Poi mi guarda comprensivo. «Se vuoi stare nella stanza degli ospiti per me non c'è alcun problema, lo sai. Almeno durante la loro piacevolissima sosta non dovrai condividere lo stesso tetto.» Mi emoziono a sentire queste parole. «Grazie, davvero, ma è comunque troppo vicino a loro. Penso che troverò un altro posto. O proverò a resistere.» Il signor Dowson annuisce. «Sicura? Io e Penny non ci lamenteremmo.» Prende in braccio il chihuahua e se lo appoggia sulle gambe. «Vero Penny?» Il cane abbaia. E questo cosa dovrebbe dire? Bah. «Davvero, non preoccuparti. Piuttosto, stamattina ho sentito profumo di torta...» lascio la frase in sospeso, sperando che afferri la domanda sottintesa. Alza gli occhi al cielo. «Ne vorresti per caso una fetta?» «Se non è troppo disturbo.» «Tu non disturbi mai, Ivy.» Poi mi guarda. «Ma tuo padre sì. Ogni volta che se la prende con Penny.»
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