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Quando mi ero messa con Tommy non mi ero preoccupata un granché di come fosse fatto dentro. Era semplicemente un tizio da urlo, con un fisico da sportivo, un viso da modello e un modo di muoversi sexy da morire.
Lui mi aveva rimorchiata al pub in cui lavoravo, a Hackney, più o meno quando avevo iniziato a lavorarci. Era così bello che ci ero stata subito, ma d’altronde sono sempre stata impulsiva. Due settimane di sesso dopo lui si era trasferito nel mio appartamento, dato che era “inutile” pagare due affitti. Ero stata felice della cosa, ma per poco.
Nell’arco di un mese, un mese e mezzo, avevo iniziato a rendermi conto che Tommy era una grana. Lavorava come muratore, ma non proprio sempre. A volte faceva dei lavoretti per dei tizi russi, ucraini o non so.
Non fraintendetemi: non mi importava da dove venissero, ma non sembravano esattamente dei cittadini irreprensibili.
Circa due mesi di convivenza dopo, una sera tornò a casa con il naso gonfio e un occhio nero. Più tardi capii che il grosso delle botte lo aveva preso tra le gambe. Gli chiesi quale fosse il problema e lui ammise che doveva dei soldi “al Russo”. Gli chiesi chi fosse “il Russo” e lui fu evasivo. Gli chiesi quanto gli dovesse, e alla fine venne fuori che i suoi debiti erano di diverse migliaia di sterline.
Mi disse che avrebbe sistemato tutto e in effetti per un altro mese circa non sentii più parlare di questo Russo.
Nel frattempo, però, mi informai. Secondo Gus, il proprietario del pub, il russo a cui Tommy doveva dei soldi poteva essere Sidor Guryev. Guryev era un costruttore, o, comunque, il suo lavoro ufficiale era quello. Aveva costruito alcuni grossi condomini, a nord-est di Hackney, per poi rivenderli. Gus mi spiegò che il vero lavoro di quelli come Guryev era ottenere tutti i permessi e far diventare edificabili zone che non lo erano. Aveva agganci tali da poter comprare un terreno non-edificabile e ritrovarsi, qualche mese dopo, con un terreno edificabile e una bretella di collegamento in construzione nelle vicinanze.
Gli chiesi come faceva Tommy a conoscerlo e perché mai, secondo lui, avrebbe dovuto essere in debito con un costruttore, e Gus mi rispose che sicuramente Tommy non doveva dei soldi direttamente a Guryev, ma a qualcuno della sua organizzazione.
«Quale organizzazione?» chiesi io.
Gus scosse la testa. «Una di quelle».
Cercai di non pensarci. Mi dissi che non erano affari miei. Iniziai a pensare seriamente di scaricare Tommy, che era bello, okay, ma non aveva molte altre buone qualità. Ero stanca di vederlo ciondolare in giro, sempre incazzato per qualcosa, senza che riuscisse mai a tenersi un lavoro o a mettere da parte qualcosa. Io lavoravo al pub come un mulo e nel tempo libero decoravo mobili vecchi, recuperati in qualche mercatino o anche accanto ai bidoni della spazzatura. Tommy non si sforzava nemmeno di aiutare in qualche modo.
Finché una sera non si presentarono alla porta delle persone.
Dico “persone”, ma avevano praticamente scritto in faccia “criminali”. Quello che chiese di Tommy – ed entrò subito dopo senza domandare il permesso – era un uomo sulla trentina, basso e massiccio, con i capelli biondi rasati quasi a zero e i lineamenti duri dell’Est Europa. Anche il suo accento era gutturale, così pensai che fosse russo. Indossava un piumino costoso e dei jeans di marca sopra a degli scarponcini gialli.
«B-Broña?» fece Tommy, alzandosi dal divano con un’espressione preoccupata.
«Bronislav, per te» rispose quello. Non lo disse in tono arrabbiato né niente, ma per qualche motivo mi fece rabbrividire. Aveva gli occhi piccoli, di un azzurro slavato, vuoti e inespressivi.
Dietro di lui entrarono altri tre uomini, con addosso delle giacche imbottite nere o blu scuro. Erano tutti tra i venti e i trent’anni, ma solo due di loro sembravano russi. Il terzo era uno spilungone con i denti marci e la tipica carnagione rossiccia britannica.
Fu quello a scrocchiarsi le nocche delle mani, mentre gli altri le mani le tennero in tasca.
«Senti, Bronislav» provò a fare il disinvolto Tommy, «lo so perché siete qua. E ti prometto che sistemerò tutto, davvero. Mi serve solo qualche altro giorno...»
«Quanti altri giorni?» chiese l’uomo che aveva detto di chiamarsi Bronislav, flemmatico.
Tommy deglutì. «U-una settimana. Al massimo, okay?».
Lui si strinse nelle spalle, come se trovasse la cosa ragionevole. Tommy stava letteralmente sudando dalla paura.
«Bene. Una settimana». Fece un piccolo cenno con la testa agli altri tre tizi. «Prendete la ragazza».
Sul momento non capii nemmeno che si riferivano a me. Era una cosa senza senso. Era tutto folle. Ma un istante dopo i due russi o quel che erano mi afferravano per le braccia e io mi rendevo conto che le cose stavano prendendo una brutta, bruttissima piega.
«Ehi, no, lasciatela!» fece Tommy.
Io gridai, cercando di divincolarmi.
Ebbi la seconda brutta sorpresa della serata. Lo spilungone britannico mi tirò un ceffone. Forte, in piena bocca. Un ceffone così forte che mi rivoltò la testa. Il dolore sembrò esplodermi in bocca e sentii qualcosa di caldo e bagnato schizzare fuori.
«Zitta, troia» disse lo spilungone.
Tommy gridò a sua volta e fece un passo verso di me, ma fu intercettato da Bronislav. Gli tirò un pugno dritto nello stomaco. Forte. Tommy si piegò in due, gemendo, ma mi era bastato vedere il modo in cui quel tizio lo aveva colpito per capire che era stato un pugno del diavolo. Dopo il pugno Bronislav gli tirò anche una ginocchiata nelle palle, tenendogli le braccia ferme con le mani.
Tommy cadde a terra, gemendo e singhiozzando.
Io cercai nuovamente di divincolarmi e lo spilungone rise, tirandomi un altro schiaffo, questa volta praticamente dimostrativo.
«P-per favore...» singhiozzò Tommy.
Bronislav scosse lentamente la testa. «Nossignore. Non ci fidiamo più di te. Tu portaci quello che ci devi e noi ti ridiamo la puttanella. Una settimana».
«C-come faccio a sapere che n-non le fate niente?».
Bronislav inarcò le sopracciglia. «Che cosa vuol dire niente?» fece. Il suo accento sembrò farsi più duro. «Per una settimana la lasciamo intera. Magari la usiamo un po’, ma senza rovinarla».
Capii quello che intendeva e cercai di nuovo di divincolarmi. Gridai – e fu una pessima idea. Lo spilungone mi colpì di nuovo, questa volta allo stomaco. Mi sembrò di rompermi in due. Un conato mi salì alle labbra, mentre mi piegavo e le ginocchia mi cedevano. I due russi risero e mi spinsero verso il basso, facendomi inginocchiare. Lo spilungone mi prese per il mento e mi piantò il pollice e il medio nelle guance, costringendomi ad aprire la bocca.
A quel punto non sapevo che cosa stesse facendo Tommy, dato che avevo gli occhi pieni di lacrime e anche lo spilungone davanti. Capii che si stava slacciando i pantaloni e mi stava avvicinando il pene alla bocca.
«La terremo impegnata così» spiegò.
Sentii un fiotto acido risalirmi dallo stomaco e un attimo dopo stavo vomitando.
«Cristo, che schifo!» fece lo spilungone, saltando indietro.
Bronislav ridacchiò. «Basta così. Tommy ha capito. Siamo rimasti anche troppo. Portatela via».
Mentre mi trascinavano fuori come un corpo morto, i piedi che strusciavano dietro di me, sentii ancora la voce del russo che diceva: «Una settimana, poi iniziamo a tagliarle le dita».
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Mi portarono fino al parcheggio con una tranquillità sorprendente. Non sembravano preoccupati di incontrare qualcuno per le scale o per strada. Forse facevano bene a non esserlo, perché non incontrammo nessuno. Pensai di gridare, ma non ne ebbi il coraggio. Avevo già preso abbastanza botte, per quella sera, e non c’è niente come la violenza fisica per convincerti a comportarti da perdente. E avevo paura, così paura che se non mi avessero trascinata loro non sarei mai riuscita a camminare.
Mi portarono fino a un SUV nero e mi fecero salire dietro, tra i due russi. Lo spilungone si mise alla guida e Bronislav si sedette accanto a lui.
«Ci fermiamo per farcela, vero, Broña? Prima di portarla al condominio, intendo» disse lo spilungone. Sembrava eccitato, su di giri, pronto all’azione. I due russi che avevo accanto, al contrario, erano indifferenti. Continuavano a tenermi per le braccia, mentre io piangevo sottovoce, cercando di non andare completamente nel panico. Indossavo un paio di pantaloni della tuta, delle ciabatte infradito e una t-shirt che, ora me ne rendevo conto, aveva la parte anteriore tutta sporca di vomito. E l’odore... l’odore non era buono.
«Ehi, Broña, davvero, ho il cazzo come un siluro. Ci fermiamo e ce la facciamo, eh?» continuò a insistere lo spilungone.
«E stai buono, Jiz» rispose il russo.
«Che cazzo, sul serio? Davvero, amico mio... dovresti sentire quanto ce l’ho duro...»
«Fatti una sega. Questa qua la portiamo dove dobbiamo e fine del discorso».
Lo spilungone, Jiz, non sembrava volesse darsi per vinto, ma l’altro interruppe ogni ulteriore protesta sul nascere, ordinandogli di guidare e di tapparsi la bocca. Poi si voltò verso di me e mi lanciò un’occhiata scettica. «Come ti chiami?».
Per un istante pensai di non rispondere, ma non avrebbe avuto senso. «L-Lydia» dissi. Scoprii che parlare mi faceva male e che la mia mascella aveva qualcosa che non andava.
«Ascolta, Lydia. Ora ti portiamo in un posto. Non dar retta a Jiz. Non ci saranno problemi, vedrai. Resti lì finché Tommy non paga, poi ti lasciamo andare. Non vuoi darci problemi, vero?».
Scossi la testa, continuando a piangere.
Guidarono per le strade di Hackney fino a costeggiare una recinzione di lamiera. Il SUV si fermò davanti a un cancello e Bronislav scese per aprirlo. Jiz si voltò verso il sedile posteriore con un soggigno in faccia. «Toglietele quella maglietta, okay? fa schifo» ordinò.
I due risero e mi fecero sollevare le braccia, per poi strattonarmi via la t-shirt. Nel farlo mi sporcai la faccia e i capelli di vomito, ma quando me l’ebbero tolta la usarono per ripulirmi almeno la faccia. Stavo ancora piangendo, ma a quel punto la mia disperazione aumentò ancora, visto che non indossavo il reggiseno.
«Oh, porco cazzo» fece Jiz, allungando una mano e palpandomi una tetta. Mi rivolse un sorriso viscido. «Non ascoltare Broña, stellina. Puoi scommerterci, che da domattina avrai assaggiato il mio cazzo».
Bronislav rientrò proprio in quel momento. Vide che ero mezza nuda e che Jiz mi stava palpando una tetta, mentre i due russi mi tenevano ferma e io cercavo di sottrarmi, ma la cosa sembrò essergli indifferente.
«Dai, riparti, gryazniy moniak» si limitò a dire, dopo qualche secondo.
Jiz sbuffò e si voltò di nuovo verso la strada. Entrò nel cancello nella recinzione. Cercai di capire dove fossimo, ma non in modo efficiente e furbo. No, ero troppo terrorizzata e disgustata. Il carceriere alla mia destra, che fino a quel momento era sembrato disinteressato, mi palpò una tetta a sua volta, mentre con l’altra mano continuava a tenermi il braccio. Disse qualcosa in russo al suo amico e quello sorrise. Un sorriso piccolo e freddo, che mi spaventò ancora di più.
Il SUV proseguì su una stradina asfaltata da poco, fino alla massa scura di un condominio. Capii che era un edificio ancora in costruzione o appena ultimato. Jiz parcheggiò davanti al portone e spense il motore.
Venni trascinata fuori così com’ero. L’aria fredda della sera mi fece venire la pelle d’oca. E quei due continuavano a stringermi le braccia e a sospingermi. Mentre mi portavano verso il portone inciampai e persi una ciabatta.
All’interno Bronislav accese la luce dell’atrio. Come supponevo era un palazzo nuovo, ancora privo di alcune finiture, con il pavimento sporco di polvere di cemento.
Venni strattonata lungo un corridoio e fino a una porta blindata. Mentre Bronislav sceglieva le chiavi da un grosso mazzo e mentre quei due continuavano a tenermi saldamente per le braccia, Jiz mi si piazzò dietro e prese a strofinarmi il bacino contro il sedere e a stringermi le tette.
«P-per favore...» singhiozzai.
«Tesoro, non hai capito che così mi attizzi?» fece lui. Mi tirò giù i pantaloni e gli slip, abbassandomeli sotto al sedere.
«Jiz vuole proprio farsela» ridacchiò uno dei due russi. Io cercai di tenere le gambe strette e di sottrarmi alle mani del loro “collega”, ma quei due mi bloccarono. Jiz riuscì a palparmi anche tra le cosce e a strofinarsi tutto contro il mio sedere nudo.
Bronislav sembrava essersi stancato di riprenderlo, come se in fondo che mi violentasse oppure no non fosse importante. Aprì la porta e io venni spinta dentro. In seguito avrei scoperto che era un appartamento ultimato, ancora vuoto, con solo i sanitari base nel bagno. Ma in quel momento, dopo il forte spintone, incespicai e caddi in avanti, perdendo anche la seconda infradito. Riuscii per un pelo a ripararmi la faccia e poi restai lì, singhiozzante, con la fronte sulla moquette e le gambe legate dai miei stessi pantaloni e slip.
«Guardala lì. Ha la passera tutta bagnata» disse Jiz. Rise. «E rapata. Be’, ora me la faccio».
Mi sentii sollevare per le ascelle e non opposi resistenza. Mi limitai a farmi trascinare come un peso morto, con la testa china e i capelli che sfioravano il pavimento.
Pochi metri dopo, tuttavia, Jiz mi mollò.
Sentii una voce nuova che parlava in russo. Poi la voce di Bronislav, che chiamava, sempre in russo. Sollevai la faccia dal pavimento giusto in tempo per veder entrare nell’atrio un nuovo tizio.
Dato che aveva parlato in russo doveva essere russo anche lui. Rispetto agli altri era chiaramente un altro modello, però: completo senza cravatta, taglio di capelli classico e un grosso orologio di metallo al polso.
Abbassò lo sguardo su di me e poi chiese qualcos’altro a Bronislav in russo. Sembrava seccato e man mano che la conversazione continuava il suo cattivo umore peggiorava.
Aveva i lineamenti duri della geste dell’est, con i capelli scuri e gli occhi chiari. Era alto e aveva le spalle larghe, ma forse giudicavo male, visto che ero stesa per terra.
Quei due continuarono a parlare per qualche minuto, finché il nuovo tizio non cambiò interlocutore e non passò all’inglese. Un inglese praticamente perfetto, tranne un lievissimo accento. «Quindi te la vuoi fare, eh, Jiz?».
«Ehm... in effetti, signore. Ma se ha qualcosa in contrario...» sentii la voce dell’altro, dietro di me.
Il tizio, il “capo”, gli rivolse un sorriso melenso. «Ma no, ma no. Fai pure tutti i tuoi porci comodi, vecchio mio. Forza».
Sentii che venivo di nuovo sollevata per le ascelle. «Per favore!» gridai. «Per favore, aiutami!».
Il capo mi ignorò. Però scosse appena la testa, divertito. «No, Jiz. Qua. Se vuoi fartela, vogliamo divertirci anche noi a guardarti».
Jiz mi mollò.
Non so che cosa pensasse, ma balbettò qualcosa come: «Ma, signore... davvero?».
«Ma certo. Subito. Forza, tiratelo fuori, vecchio mio. O pensi di fare brutta figura?». Il sorriso sul viso dell’altro si intensificò. Agghiacciante. «Ce l’hai troppo piccolo?» insinuò, dolcemente.
«Ehm, no» borbottò lui.
Sentii il rumore di una zip che si abbassava e cercai di raggomitolarmi su me stessa. Stava per iniziare. Tutti quegli uomini l’avrebbero guardato mentre mi stuprava, come se fosse una specie di spettacolo.
Singhiozzai più forte, terrorizzata, consapevole di essere praticamente nuda e del tutto impotente.
Poi sentii un colpo e un gemito. E ancora, mentre qualcuno rideva.
Osai alzare la testa e scostarmi i capelli dagli occhi. Jiz era piegato in due sul pavimento e si teneva le mani tra le gambe come a proteggersi. Gli altri sembravano divertiti.
Il tizio in completo gli mollò un altro calcio mentre era per terra, prendendo quasi la rincorsa. Jiz gridò, questa volta.
Poi il capo disse qualcos’altro in russo e Bronislav rispose facendo un cenno con la testa, e i due tizi che avevano intrappolato me fino a due minuti prima sollevarono Jiz e lo trascinarono via.
Il capo si chinò su di me e mi tirò su con un grugnito. Ma io non ero assolutamente in grado di restare in piedi: barcollai e stavo per cadere di nuovo. Lui mi sorresse per un gomito. Diede un ordine in russo e Bronislav sospirò. Si avvicinò a sua volta e mi tirò su pantaloni e slip. Disse qualcosa, il capo rispose in tono irritato.
«G-grazie» balbettai, anche se non ero sicura di avere motivo di ringraziarlo. In fondo sembrava avermi salvata più per punire Jiz che per aiutare me.
Lui indicò con la testa il corridoio dietro di sé. «Laggiù c’è un bagno. Fatti una doccia, se vuoi. Non ti disturberà nessuno».
«Grazie» ripetei, andando con passo malfermo da quella parte.
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Che non mi avrebbe disturbata nessuno non era proprio vero. Mi disturbò lui, circa quaranta minuti più tardi. Entrò nel bagno pieno di vapore senza degnarsi di bussare. Io ero rannicchiata sul piatto della doccia, più o meno in stato di shock.
Come ho già detto, quel posto era nuovissimo. Il box era di vetro ancora senza uno schizzo, ma non c’era shampoo né sapone. Io mi ero limitata a lasciarmi colpire dall’acqua tiepida, sciaquandomi come potevo. All’inizio tremavo, ma poi avevo smesso.
Quando il tizio in completo entrò nel bagno ero accucciata sul piatto della doccia e non stavo facendo proprio niente. Avevo anche smesso di piangere.
«Lydia?» disse lui, dall’esterno. Lo guardai attraverso il vetro. Ero nuda, ma ero anche acquattata in un modo che nascondeva più o meno tutto.
«Mi ha detto Broña che ti chiami Lydia, mh? Come in quel romanzo inglese. Io sono Sidor Jurevich Guryev. Potresti uscire, ora? Ti ho portato un accappatoio».
Avevo capito quello che aveva detto, ma una cosa era capire, un’altra muovermi. Muovermi, in quel momento, era assolutamente al di fuori delle mie possibilità. Anche rispondergli mi sembrava impossibile. Lo guardai e basta.
«Lydia?» mi chiamò di nuovo. «Mi hai sentito?».
Mi fissò per qualche secondo. L’acqua continuava a cadermi addosso, zuppandomi i capelli e scorrendomi sul corpo.
Lasciò l’accappatoio sul lavandino e si avvicinò al box doccia. Cercai di rannicchiarmi in un angolo.
«Non ti faccio niente» disse. «Ma devi uscire di lì».
Mi guardò, vide che non mi muovevo e aprì il box. Allungò un braccio per chiudere il getto dell’acqua, bagnandosi una manica. Poi si chinò per tirarmi su.
Mi sembrò completamente intollerabile. Mi divincolai, schizzando acqua ovunque e scivolando sulla ceramica del piatto. Schizzai fuori dalla doccia, o quanto meno ci provai. Sidor prima provò a bloccarmi, ma poi mi lasciò andare. A quel punto quasi ruzzolai fuori, scivolai di nuovo sul pavimento e caddi per terra, su un fianco. Guaii di dolore, cercando di rialzarmi.
«Adesso basta» disse lui. Mi rialzò per la terza volta quella sera, prendendomi per le braccia senza tante cerimonie. Quando fui in piedi riprese l’accappatoio e me lo mollò in mano. «Infilatelo» ordinò.
Iniziai a piangere e a tremare, di nuovo nel panico. Usai l’accappatoio più che altro come uno scudo, per coprirmi.
Lui mi fissò. Sembrava estenuato.
«Senti...» ricominciò, in tono ragionevole, «...capisco che tu sia sconvolta. Non voglio farti del male. Se ti infili quell’accappatoio possiamo cercare di risolvere questa faccenda. Ci sediamo e parliamo, va bene? Dai... mentre te lo metti mi volto, okay?».
Si voltò davvero e io mollai l’accappatoio e schizzai fuori dalla porta. Ovviamente volevo raggiungere l’esterno o roba del genere. Ora mi rendo conto che era una cosa idiota da fare, ma in quel momento la feci e basta, senza pensare.
Andai praticamente a sbattere contro Bronislav, che mi tirò un cazzotto nello stomaco così forte da farmi volare all’indietro. Atterrai di nuovo sul pavimento del bagno, in preda a un dolore devastante. Non riuscivo nemmeno più ad appallottolarmi su me stessa, la pancia mi faceva troppo male. In realtà mi faceva male dappertutto, ma il fulcro del mio dolore, in quel momento, era la pancia.
«Cazzo, Broña» borbottò Sidor, accucciandosi accanto a me.
Il suo scagnozzo rispose qualcosa in russo e Sidor scosse la testa, come se fosse rassegnato.
«No, in realtà avete sbagliato tutto» disse, in inglese, «ma ormai è successo, quindi è inutile recriminare. Lydia, adesso tu ti alzerai e ti infilerai quel cazzo di accappatoio. Ti asciugherai. Ti vestirai con gli abiti che ti daremo e farai quello che ti diremo di fare. Senza storie. Altrimenti ti ammazzo. La mia pazienza con le puttanelle isteriche è molto limitata – ed è già finita. Okay?».
Aveva parlato in tono pacato, quasi cortese, ma quello fu il momento in cui mi spaventai di più in assoluto. Il modo tranquillo in cui mi aveva spiegato che mi avrebbe ucciso mi aveva convinta completamente.
Cercai di alzarmi e ci riuscii al terzo tentativo. Mi sentivo pesta dentro e fuori, ma la paura di venire ammazzata mi aveva dato una specie di scossa e ora ero molto più lucida.
Tremando raccolsi l’accappatoio e lo usai per asciugarmi alla bell’e meglio. Presi gli abiti che mi passava Sidor e me li infilai uno per uno, metodica e concentrata come se stessi disinnescando una bomba. Prima un paio di slip minuscoli, poi un paio di pantaloni di una tuta, poi una canottiera di cotone nera, poi un maglione di filo troppo largo, bianco, infine delle scarpe da ginnastica grigie. Niente calze, niente reggiseno, ma ero vestita.
«Brava ragazza. Adesso vieni con noi. Abbiamo deciso che è meglio se non resti qua».
Uscimmo dall’appartamento vuoto e fui di nuovo fatta salire su un SUV, ma questa volta su uno più grande, grigio, della BMW. Sidor si mise al volante e io venni fatta sedere sul sedile del passeggero, mentre Bronislav saliva dietro.
Ci fu un’altra conversazione in russo. Sidor continuava a sembrare seccato, mentre Broña mi parve più sulla difensiva, anche se non so perché mi diede quest’impressione.
Dopo una ventina di minuti arrivammo a una villetta a due piani, con il giardino recintato e il tetto di ardesia. Una gran bella casa, da quel che riuscivo a vedere al buio.
Sidor lasciò il SUV nel garage su un lato, spense il motore e chiuse la porta basculante. Poi mi fece segno di seguirlo fino alla porta che dava sull’interno. La aprì con una chiave e disattivò l’allarme. Dopo che io e Bronislav fummo entrati lo attivò di nuovo.
«Sali» ordinò, indicandomi le scale. Salii.
Al primo piano c’era un corridoio dalla folta moquette e diverse porte chiare. Sidor ne aprì una e mi fece vedere una stanza da letto.
«Tu dormi qua. Come hai visto c’è l’allarme. Se provi a uscire da una porta o da una finestra quello comincia a suonare e io ti sparo prima che riesci ad arrivare al cancelletto. È chiaro?».
Annuii, di nuovo spaventata. Il fatto era che non avevo il minimo dubbio che mi avrebbe sparato davvero, se ci avessi provato.
«Bene. Voglio credere che tu abbia capito, questa volta, quindi puoi dormire da sola. Lì c’è un bagno con il sapone e tutto, se la doccia di prima non ti fosse bastata. Adesso dormi, domani parliamo».
Detto questo mi lasciò lì.Uscendo si portò via la chiave della mia stanza.