June scambiò una stretta di mano con ognuno dei suoi tre vecchi zii e si voltò verso la zia Ann. Sulla fisionomia di questa si era dipinta un’espressione dolcissima: baciò sulle gote la giovinetta con tremante fervore.
«Ebbene, piccola!», disse. «Te ne vai dunque per tutto un mese?».
La giovinetta si allontanò e la zia Ann l’accompagnò con lo sguardo. I suoi occhi tondi, di un grigio d’acciaio, sui quali cominciava a stendersi una macchia simile a una palpebra d’uccello, seguivano penosamente attraverso i gruppi in moto – poiché già cominciavano i commiati – la figura sottile della nipote. Nel tempo stesso congiungeva le mani e, premendo le une sulle altre le estremità delle dita, sembrava ricaricare così la propria volontà contro il grande inevitabile distacco.
“Sì”, pensava, “tutti sono stati molto buoni. Quanta gente è venuta a felicitarsi con lei! Deve essere ben felice!”. Nella ressa che si accalcava davanti alla porta – la folla ben vestita che rappresentava famiglie di avvocati, di dottori, di uomini di finanza, insomma tutto ciò che eccelleva nelle numerose carriere della grande borghesia – i Forsyte non erano che il venti per cento; ma alla zia Ann sembravano tutti dei Forsyte, e d’altra parte non c’era grande differenza fra gli uni e gli altri; ella non vedeva che quelli della sua carne e del suo sangue. Quella famiglia era il suo universo, il solo forse che mai avesse conosciuto: tutti i loro piccoli segreti, le malattie, i fidanzamenti, i matrimoni, i loro progressi e i loro guadagni: tutto questo formava la proprietà della zia Ann e anche la sua gioia e la sua vita; e al di là di questo non c’era per lei che un’oscura e indistinta nebbia di avvenimenti e di persone senza effettiva realtà. Questo universo ella avrebbe dovuto abbandonare, il giorno in cui fosse venuta la sua volta di morire; ciò le dava l’importanza, quella segreta importanza in cospetto di noi stessi, senza la quale nessuno di noi può sopportare la vita. A questo si aggrappava con un’apprensione e con un’avidità che ogni giorno crescevano. Se piano piano la vita le sfuggiva, almeno questo potrebbe conservarlo fino alla fine.
Pensava al padre di June, al giovane Jolyon che era fuggito con una straniera. Ah, che colpo per Jolyon e per tutti loro! Un giovane che prometteva tanto! Che colpo davvero, sebbene non ci fosse stato pubblico scandalo: fortunatamente la moglie di Jolyon non aveva domandato il divorzio. Era passato molto tempo! E quando la madre di June era morta, erano allora otto anni, Jolyon aveva sposato quella donna e aveva avuto due figli, a quanto si diceva. Comunque, egli aveva perduto il diritto di essere lì; e per colpa sua Ann non poteva riposarsi nella pienezza del proprio orgoglio familiare; egli le aveva tolto la legittima gioia di vederlo e di baciarlo, proprio lui che la rendeva un tempo così superba, giovane che prometteva tanto! Tale pensiero s’inaspriva per tutta l’amarezza di un’offesa patita a lungo nel vecchio cuore tenace; e alcune lacrime le inumidirono gli occhi. Le asciugò furtivamente con un fazzoletto di finissimo lino.
«Ebbene, zia Ann!», disse una voce dietro di lei.
Soames Forsyte, faccia tutta glabra, guance piatte, spalle piatte, vita piatta, e tuttavia con qualcosa di sfuggente e segreto in tutta la persona, abbassava sulla zia Ann uno sguardo obliquo, come se tentasse di vedere attraverso il suo stesso naso.
«Che cosa pensate di questo matrimonio?»
Gli occhi della zia Ann si posavano su di lui con orgoglio. Il più grande dei suoi nipoti, poiché il giovane Jolyon aveva lasciato il cerchio della famiglia, era divenuto ora il suo preferito: indovinava in lui un sicuro depositario dello spirito familiare del quale presto avrebbe dovuto abbandonare la tutela.
«Il giovane ha trovato fortuna», rispose. «Del resto ha una bella figura. Mi domando se è proprio il fidanzato che conveniva alla cara June».
Soames palpava lo sporto di un lampadario dorato.
«Lo addomesticherà», disse, e furtivamente si bagnò un dito per passarlo sul rigonfio del lampadario. «Vera doratura antica. Adesso non se ne trovano più. Ci si farebbe del denaro, all’incanto, da Jobson».
Metteva nelle sue parole una certa anima, come se le credesse adatte a riconfortare la vecchia zia. Di rado si mostrava tanto incline alle confidenze.
«Non mi dispiacerebbe averlo per me, questo lampadario», aggiunse, «la doratura vecchia la si vende per quanto si vuole».
«Tu t’intendi molto di queste cose», disse la zia Ann. «E come sta la cara Irene?»
Il sorriso di Soames si spense.
«Non c’è male. Si lamenta di non poter dormire. Ma in ogni caso dorme sempre meglio di me».
E guardò sua moglie, che parlava con Bosinney accanto alla porta.
La zia Ann sospirò e disse:
«Forse per lei non sarà male aver meno contatti con June. Quella cara June ha un carattere così assolutista!».
Soames diventò rosso; in quei momenti il sangue gli attraversava rapidamente le guance piatte e fissandosi fra le sopracciglia restava lì, come ad attestare i suoi pensieri tormentosi.
«Non so davvero che cosa l’attiri in quella pazzerella», lasciò a un tratto prorompere; ma, accorgendosi di non essere più solo con la zia, si voltò e riprese a esaminare il lampadario.
«Mi si dice che Jolyon ha anche recentemente comprato una casa», diceva lì vicino la voce di suo padre. «Bisogna proprio che abbia denaro, bisogna che ne abbia da non saper che farne. Sembra che sia una casa in Montpellier Square; vicinissima all’abitazione di Soames. E io non ne sapevo niente. Irene non mi dice mai niente!»
«Posizione eccellente, a due minuti da casa mia», riprese la voce di Swithin, «e da casa mia, in carrozza, io arrivo al club in otto minuti».
Non c’è da stupirsi che la posizione delle loro case fosse per i Forsyte di vitale importanza; in fondo si riassume lì tutta la filosofia del loro successo.
Da un ceppo di fittavoli, il padre loro era venuto dal Dorsetshire verso il principio del secolo. Muratore di mestiere, s’era poi elevato a imprenditore. Verso la fine dei suoi giorni si stabilì a Londra, dove, dopo aver fino all’ultimo costruito, venne sepolto nel cimitero di Highgate: e lasciava più di trentamila sterline da dividere fra i suoi dieci figli. Il vecchio Jolyon diceva di lui: «Un uomo rude dalla pelle dura: poca raffinatezza». Infatti la seconda generazione dei Forsyte sentiva che quell’uomo non faceva loro troppo onore. Il solo “tratto aristocratico” che si potesse scoprirgli era l’abitudine di bere madera. La zia Hester, che faceva testo nella storia della famiglia, lo descriveva così:
«Io non ricordo che facesse mai qualche cosa; al tempo mio, almeno, non faceva più nulla. Era… euh!… proprietario… proprietario di case, cara mia. Aveva i capelli press’a poco del colore di quelli del tuo Swithin, le spalle piuttosto quadrate. Se era alto? Euh… non molto alto. (Era di un metro e sessantacinque, con la faccia bitorzoluta.) Aveva un colorito vivace; mi ricordo che beveva spesso madera; ma domandane alla zia Ann. Che cosa faceva nostro padre? Euh!… si occupava di terreni nel Dorsetshire, là sulla costa…».
James una volta aveva voluto rendersi conto de visu di ciò che fossero quei luoghi della loro origine. Aveva trovato due vecchie masserie, una strada carreggiabile, con le rotaie affondate nella terra rossastra, che conduceva a un mulino vicino alla spiaggia; una chiesetta grigia i cui muri esterni erano puntellati; una cappella ancor più piccola e più grigia. Il fiume che dava movimento al mulino si ramificava in una dozzina di ruscelletti bianchi di schiuma, e intorno a questo estuario si aggiravano alcuni maiali in cerca di mangime. Un po’ di nebbia fluttuava sul paesaggio. Probabilmente, in quel buco, di domenica, durante lunghe centinaia di anni, i primitivi Forsyte non avevano domandato di meglio che passeggiare con i piedi nel fango e con la faccia rivolta verso il mare.
«Non c’è molto da trarre da là», disse James. «Una piccola terra; e ciò è vecchio come il tempo!»
Questa vecchiezza era una consolazione.
Il vecchio Jolyon, nel quale qualche volta prorompeva un’invincibile sincerità, diceva dei suoi avi:
«Erano degli yeomen1, piccolissima gente, suppongo».
Tuttavia ripeteva la parola yeomen come se ci trovasse qualche conforto.
Questi Forsyte avevano così ben condotto la loro barca che attualmente godevano tutti, come si suol dire, di “una certa posizione”. Possedevano delle azioni in ogni sorta d’imprese, ma non ancora – eccetto Timothy – in titoli di Stato, poiché sopra ogni cosa avevano in orrore il collocamento al tre per cento. Per di più facevano collezione di quadri e volentieri sovvenzionavano quegli istituti di beneficenza che avrebbero potuto essere utili ai loro domestici in caso di malattia. Avevano ereditato dal padre muratore una speciale abilità nel maneggiare i mattoni e la calcina. Originariamente forse erano appartenuti a qualche setta religiosa, in semplicità di spirito; ma adesso, seguendo il corso regolare delle cose, erano membri della Chiesa anglicana e mandavano regolarissimamente le mogli e i figli alle chiese alla moda della capitale. Un dubbio sulla sincerità della loro fede li avrebbe accorati e sorpresi; qualcuno di essi, anche, pagava per avere nella chiesa un banco riservato, esprimendo così nel più pratico dei modi la sua simpatia per l’insegnamento di Cristo.
Le loro abitazioni erano disposte a spazi regolari intorno al parco. A Stanhope Gate c’era il vecchio Jolyon; a Park Lane i James; Swithin abitava a Hyde Park Mansions, nel solitario splendore di un appartamento decorato in azzurro e in color d’arancio – lui non si era mai sposato, ah questo poi no! I Soames avevano il nido vicino a Knightsbridge; i Roger si erano stabiliti in Prince’s Gardens. (Roger era quel Forsyte eccezionale che aveva concepito, e realizzato, di avviare i suoi quattro figli a una nuova professione.)
«Comprate e amministrate case: non c’è migliore affare di questo», diceva volentieri. «Io non ho fatto altro!»
C’era ancora la famiglia Hayman. La signora Hayman era la sola madre di famiglia fra le sorelle Forsyte, in una casa in cima a Campden Hill, una casa fuor di misura, simile a una giraffa, tanto che bisognava fiaccarsi il collo per vederne la sommità. Poi la famiglia di Nicholas che abitava a Ladbroke Grove, una casa spaziosa, e infine l’ultimo, ma non il minore, Timothy, che risiedeva in Bayswater Road dove vivevano anche, sotto la sua protezione, Ann, Juley e Hester.
Intanto James, dopo aver a lungo meditato, domandava ora a suo fratello e al suo ospite quanto quest’ultimo avesse pagato la nuova casa di Montpellier Square. Anche lui aveva messo l’occhio da due anni sopra una casa che si trovava da quelle parti, ma gliene chiedevano un prezzo talmente esagerato!
Il vecchio Jolyon raccontò i particolari del suo acquisto. «Un contratto d’affitto a rate di ventidue anni!», ripeté James. «È proprio la casa che avevo adocchiato: e tu l’hai pagata troppo!» Il vecchio Jolyon aggrottò le sopracciglia.
«Non che io sia invidioso», continuò in fretta James. «A quel prezzo la casa non mi sarebbe convenuta. Soames la conosce. Ebbene, egli ti dirà che l’hai pagata troppo cara; e la sua opinione non è senza valore».
«Della sua opinione non me ne importa un fico secco», disse il vecchio Jolyon.
«Come ti pare», borbottò James; «ma è un’opinione seria. Arrivederci. Noi andiamo in vettura a Hurlingham. Sento dire che June parte per il Galles; tu sarai un po’ solo domani. Che intenzioni hai? Dovresti venire a pranzo da noi!».
Il vecchio Jolyon rifiutò; accompagnò James discendendo fino alla porta d’ingresso e li guardò salire in vettura. Aveva già dimenticato il suo spleen e nei suoi occhi passava un sorriso malizioso, vedendo in fondo alla vettura la signora James grossa e maestosa coi capelli castani, alla sua sinistra Irene, e sul davanti i due mariti – il padre e il figlio – curvati come se attendessero qualche cosa. Dondolanti sui cuscini elastici, silenziosi, sbalzati a ogni movimento del veicolo, così il vecchio Jolyon li guardò allontanarsi in un raggio di sole.
Durante la corsa la signora James ruppe il silenzio:
«Avete mai visto una collezione di gente tanto provinciale?».
Soames la guardò da sotto le palpebre, approvò con la testa e vide Irene che gli mandava uno dei suoi sguardi insondabili e oscuri. È molto probabile che ogni ramo della famiglia Forsyte abbia fatto la stessa osservazione ritornando dal ricevimento del vecchio Jolyon.
Il quarto e il quinto fratello, Nicholas e Roger, che erano partiti con gli ultimi invitati, costeggiarono insieme Hyde Park per giungere a una stazione della metropolitana. Come tutti gli altri Forsyte, a partire da una certa età, ognuno dei due aveva la sua vettura e non prendeva mai una carrozza pubblica.
La giornata era bella; gli alberi del parco mettevano fuori tutto il superbo fogliame di mezzo giugno; ma i due fratelli non sembravano fare attenzione a questi fenomeni esteriori che tuttavia contribuivano a rendere allegra la loro passeggiata e la loro conversazione.
«Sì», diceva Roger, «è graziosa la moglie di Soames. Si dice che la famiglia non sia in pace».
Roger aveva la fronte alta e la pelle più bianca che ogni altro Forsyte. I suoi occhi, di un grigio chiaro, misuravano, passando, le facciate delle case che di tanto in tanto egli prendeva di mira con l’ombrello per fare una valutazione delle diverse altezze.
«Lei non aveva denaro», rispose Nicholas.
Questi aveva sposato una donna dal ricco patrimonio, nell’età aurea in cui non esisteva ancora la legge sui beni delle donne maritate, e in cui conseguentemente egli aveva potuto usare la dote di sua moglie e nel modo più profittevole.
«Che cosa era suo padre?»
«Un professore, mi è stato detto. Si chiamava Heron». Roger scosse la testa.
«Niente denaro là dentro», disse.
«Si dice che suo nonno materno trafficasse in cementi». Il volto di Roger si rischiarò.
«Ma ha fallito», continuò Nicholas.
«Ah!», gridò Roger. «Soames avrà dei dispiaceri con lei; tu mi capisci, avrà dei dispiaceri. Quella donna ha un’aria straniera».
Nicholas si leccò le labbra.
«È una bella donna», disse, allontanando da sé con la mano uno spazzino.
«Com’è avvenuto quel matrimonio?», domandò Roger dopo un momento. «Lei è molto elegante e deve anche costargli molto».
«Ann mi dice che Soames è stato pazzo per lei e che lei lo ha rifiutato cinque volte. Su questo argomento James diventa subito nervoso, lo vedo benissimo».
«Ah!», riprese Roger, «io compiango James; ha già avuto dei fastidi con Dartie».
Il suo colorito fresco si era ancor più animato passeggiando; sempre più spesso si metteva l’ombrello all’altezza dell’occhio. E anche sulla faccia di Nicholas si dipingeva un’espressione gradevole.
«Troppo pallida, per il mio gusto», egli disse, «ma ha un corpo superbo».
Roger non rispose.
«Trovo che ha un’aria distinta», disse poi. (Nel vocabolario dei Forsyte questa era la lode suprema.) «Quel giovane Bosinney non si farà mai una posizione; da Burkitt si dice che è uno di quei sognatori del genere artista. Pensa di migliorare l’architettura in Inghilterra. Ma con questo non guadagnerà affatto denaro! Mi piacerebbe sapere che cosa ne pensa Timothy».
Erano arrivati alla stazione.
«Che classe prendi? Io vado in seconda».
«Io no», disse Nicholas. «Non si sa mai quello che ci si possa buscare in seconda».
Prese un biglietto di prima per Notting Hill Gate, Roger un biglietto di seconda per South Kensington. Un minuto dopo, arrivato il treno, i due fratelli si separarono per entrare nei rispettivi scompartimenti; e ognuno dei due si sentiva offeso dal fatto che l’altro non avesse modificato le sue abitudini per restare più a lungo con lui. Roger pensava: “Sempre testardo, Nick!”. E Nicholas diceva dentro di sé: “Sempre sgarbato quel Roger!”.
1 Piccoli proprietari di campagna.