2. Il vecchio Jolyon all’OperaIl giorno dopo, verso le cinque, il vecchio Jolyon solo solo, seduto a un tavolinetto sul quale era posata una tazza di tè, fumava il suo sigaro: si sentiva stanco, e senza volerlo s’addormentò. Sui suoi capelli si era fermata una mosca: il silenzio assonnato dell’ora era rotto solo dal respiro pesante del vecchio, il cui labbro superiore, sotto i bianchi baffi, si alzava a ogni soffio. La sua mano, tramata dalle rughe e dalle vene, aveva lasciato cadere il sigaro che si consumava lentamente. Il piccolo gabinetto scuro, con i vetri opachi alle finestre che sopprimevano ogni veduta esterna, era ornato da velluti di un verde carico e da un mogano lavorato in modo pesante, del quale il vecchio Jolyon soleva dire: «Forse qualche giorno se ne potrà avere un buon profitto, non me ne stupirei proprio». Gli dava piacere il pensiero che in avvenire avrebbe ancora potuto rivendere con utile la casa che aveva comprato.
In quell’atmosfera ricca e bruna, la speciale atmosfera delle camere interne della casa di ogni Forsyte, l’effetto alla Rembrandt dalla sua gran testa incorniciata dai capelli bianchi, contro il cuscino e l’alta spalliera della sedia, veniva compromesso dai baffi che davano alla sua fisionomia un che di militaresco. Un antico orologio a pendolo, comprato prima del matrimonio e che da quell’epoca non lo aveva mai lasciato, scandiva gelosamente col suo tic-tac i secondi che fuggivano per sempre dal vecchio padrone.
Quella stanza non gli era mai piaciuta; vi entrava appena una volta l’anno, salvo le volte che vi ricercava dei sigari nel mobiletto giapponese dell’angolo. E adesso la stanza si prendeva la rivincita: le tempie del vecchio, curve a somiglianza di un tetto sopra le gote incavate, gli zigomi, il mento, tutti i lineamenti divenivano aguzzi nel sonno, e il suo volto confessava così la vecchiaia.
A un tratto si svegliò. June era partita! James aveva ben detto che egli si sarebbe sentito solo. James era sempre stato un pover’uomo e nient’altro. Ricordò con soddisfazione che aveva dato lo sgambetto a James, a proposito della casa. Ben fatto. James avrebbe dovuto semplicemente non ostinarsi nel prezzo che si era messo in mente: non pensava che al denaro! Tuttavia lui, Jolyon, non aveva forse pagato un po’ troppo? La casa aveva bisogno di molte riparazioni… Pensava anche che gli sarebbe occorso tutto il suo denaro prima di farla finita con l’affare di June. Non avrebbe mai dovuto permettere quel fidanzamento. June aveva incontrato Bosinney dai Baynes, Baynes e Bildeboy, gli architetti. Baynes, quel vecchio sofisticone che lui conosceva, doveva essere uno zio acquisito del giovane. Da quel giorno lei era sempre corsa dietro al suo Bosinney, e quando June si metteva in testa un’idea non c’era niente che potesse fermarla. Passava il tempo a incapricciarsi di ogni disgraziato che incontrava. Quel giovane non aveva un soldo, dunque bisognava sposarlo; un uomo con la testa tra le nuvole, incapace di regolarsi, solo adatto a mettersi in difficoltà senza fine.
Un giorno June era venuta da lui per dargli a bruciapelo la notizia e aveva aggiunto, come se potesse essere una consolazione:
«È meraviglioso! Spesso ha vissuto di cioccolato per tutta una settimana».
«E vuole che anche tu viva di cioccolato?»
«Oh, no! Adesso ha fortuna».
Il vecchio Jolyon aveva levato il sigaro da sotto i baffi bianchi tinti di caffè sull’orlo, e s’era messo a guardarla, quella piccola che gli stava tanto a cuore. Egli non sapeva più di lei sul conto della “fortuna”. Ma June, allacciando con le mani le ginocchia del nonno, si strofinava col mento contro di lui, col lieve rumore di un gatto che faccia le fusa. Allora, prorompendo e scuotendo nervosamente la cenere, le aveva detto:
«Voi siete tutte uguali; bisogna che facciate sempre di testa vostra. Se vuoi il tuo male, tanto peggio! Io me ne lavo le mani».
E se ne era lavato le mani, solo esigendo che il matrimonio non si celebrasse prima che Bosinney avesse raggiunto almeno un guadagno di quattrocento sterline l’anno.
«Io non potrò darvi molto», aveva detto con una formula non nuova per June. «Forse quel signore provvederà al cioccolato?»
Da quando era cominciata questa storia vedeva pochissimo la nipote. Cattivo affare! In quanto a sé, non aveva la minima intenzione di darle una dote grossa per permettere a un giovane che gli era sconosciuto di vivere in un felice ozio. Aveva già visto affari simili e sapeva per esperienza che non ne usciva niente di buono; ma il peggio era che non si poteva sperare di smuovere June, testarda come un mulo fin da bambina. Come sarebbe finito tutto ciò? Avrebbero ben dovuto cavarsela coi loro mezzi.
Certo egli non cederebbe prima di aver veduto il giovane Bosinney in possesso di entrate proprie. Che June avrebbe avuto dei fastidi con quell’animale, era chiaro come il giorno, con quella mancanza assoluta del senso del denaro… e anche quella fretta di correre nel Galles per conoscere le zie del giovanotto… Ebbene, era persuaso che quelle zie fossero vecchie streghe.
Senza muoversi, il vecchio Jolyon guardava fissamente il muro; si sarebbe potuto crederlo addormentato, se i suoi grandi occhi non fossero stati così aperti… Che idea balorda, per esempio, quella di pensare che quell’orsacchiotto di Soames potrebbe dare consigli a lui! Era sempre stato un orso, Soames, col suo naso rialzato. E adesso stava per atteggiarsi a proprietario, con una casa di campagna! Proprietario! Humph! Come suo padre, sempre dietro a fiutare i buoni affari, un freddo calcolatore, un furbaccio! Il vecchio Jolyon si alzò e, aprendo il mobiletto giapponese, pose mano a una nuova provvista di sigari, per rifornire con metodo il suo astuccio. Non erano cattivi, per quello che costavano, ma adesso non c’erano più buoni sigari, niente che potesse reggere al paragone con quei vecchi sopraffini di Hansen e Bridgen. Quelli erano sigari!
Questa idea, come un profumo respirato a un tratto, lo riportava alle meravigliose notti di Richmond, quando, dopo il pranzo, sulla terrazza dello “Scettro e Corona” si trovava a fumare con Nicholas Treffry, Tracquair, Jack Herring, Anthony Thornworthy. Come erano buoni allora quei sigari! Povero vecchio Nick! Morto, e Jack Herring morto e Tracquair morto. E Thornworthy aveva una salute pericolante; era da prevedersi: un mangiatore di quella sorta! Di tutti gli amici di quel tempo, a pensarci, restava lui solo – con Swithin, beninteso – ma Swithin era diventato così mostruosamente grosso che non poteva essere preso in considerazione. Difficile credere che tutto questo fosse tanto lontano! Egli si sentiva ancora giovane!
Di tutti i pensieri rimuginati contando i sigari, questo era il più doloroso e il più amaro; malgrado i capelli bianchi e la solitudine, gli era rimasta una acerba giovinezza nel cuore. E quei pomeriggi di domenica a Hampstead Heath, durante i quali per sgranchirsi le gambe faceva col piccolo Jolyon la marcia da Spaniard Road fino a Highgate e a Childs Hill, ritornando attraverso la landa, e pranzava poi al Jack Straw’s Castle: come erano deliziosi i suoi sigari allora! E che bei tempi! Tempi simili non sarebbero tornati più.
Quando June era un batuffolino di cinque anni che sgambettava e incespicava, e ogni due domeniche egli la portava al giardino zoologico senza quelle due buone persone della mamma e della nonna, e dalla sponda della fossa degli orsi allungava a quei favoriti di June delle focacce sulla punta dell’ombrello, come erano squisiti allora i sigari!
I sigari! Dunque aveva resistito al tempo anche la sua finezza di conoscitore, quella finezza di gusto proverbiale nel 1850, per la quale si diceva: «Forsyte: primo buongustaio di Londra!». Una tal qualità in un certo senso aveva fatto la sua fortuna, la fortuna dei celebri importatori di tè Forsyte e Treffry, i cui prodotti superavano tutte le altre marche per uno specialissimo aroma romantico, una specie di vaghezza di origine delicata e misteriosa. Nei loro uffici della City qualche cosa respirava il segreto e lo spirito d’iniziativa, e si compensava a traffici speciali per mezzo di speciali battelli con dei cinesi speciali. Come aveva lavorato a quell’affare! Allora gli uomini lavoravano sul serio: non erano come i giovani di adesso, ignari del vero significato di questo verbo. Egli era entrato nei minimi particolari, si era tenuto al corrente di tutto, passando spesso a lavoro le intere notti; e aveva sempre scelto da sé i propri agenti. Di questo specialmente si vantava; il suo colpo d’occhio, diceva, aveva costituito il segreto del successo, e l’esercitare autoritariamente il potere di scelta era stata la sola cosa gradevole di quella sua fatica che veramente rimaneva al disotto delle sue capacità. Anche adesso che l’impresa era stata assunta da una società e intristiva, provava un’amara tristezza ricordando il passato. Oh! avrebbe potuto far meglio!
D’altra parte, sarebbe riuscito benissimo anche nel foro; e aveva quasi pensato a presentarsi candidato al Parlamento! Quante volte Nicholas Treffry gli aveva detto: «Voi potreste fare qualsiasi grande cosa, se non fosse per la vostra dannata prudenza».
Buon vecchio Nick: gran bravo ragazzo, ma un rompicollo. Il celebre Treffry! Ecco uno che prudenza non ne aveva mai avuta! Ora era morto. Il vecchio Jolyon contava con mano ferma i sigari e gli venne spontaneo domandare a se stesso se non avesse per caso regolato con troppa prudenza la propria vita.
Mise il portasigari nella tasca interna della giacca, si riabbottonò e salì le lunghe scale che conducevano alla sua stanza, appoggiandosi pesantemente su ogni passo e tenendosi forte alla ringhiera. La casa era troppo grande. Dopo il matrimonio di June, se questa sposava veramente il suo giovanotto, come bisognava supporre, avrebbe affittato il suo palazzo e preso un appartamento. Perché tenere senza far nulla una mezza dozzina di domestici che costano un occhio della testa?
Il maggiordomo venne al richiamo del campanello: era un uomo dal mento largo, ornato di barba, dal passo felpato, e possedeva una speciale facoltà di tacere. Il vecchio Jolyon gli ordinò di preparargli l’abito da sera: sarebbe andato a pranzare al club.
«A che ora è rientrata la vettura dopo aver condotto la signorina June alla stazione? Alle due? Ebbene, fatemela trovare pronta per le sei e mezzo».
Il club, nel quale il vecchio Jolyon entrò alle sette suonate, era una di quelle istituzioni politiche dell’alta borghesia che hanno conosciuto giorni migliori. Malgrado i maligni discorsi del pubblico, e forse in ragione di essi, il club manifestava una vitalità sconcertante. La gente si era affannata a ripetere che quel circolo dell’Unione, che veniva appunto chiamato “la Disunione”, era moribondo. Anche il vecchio Jolyon lo diceva, ma trascurava il fatto in modo veramente irritante per ogni clubman ben costituito.
«Perché continui a starci?», gli domandava spesso Swithin, molto seccato. «Perché non entri al Poliglotta? Non si trova in tutta Londra un vino come il nostro Heidsieck, a meno di venti scellini la bottiglia». E aggiungeva, abbassando la voce: «Non ne restano che cinquemila dozzine; io ne bevo tutte le sere che Dio manda in terra».
«Ci penserò», rispondeva il vecchio Jolyon. E quando ci pensava c’era sempre la questione delle cinquanta ghinee d’entrata e dei quattro o cinque anni di probabile attesa. Così continuava a pensarci.
Troppo vecchio per essere liberale, aveva abbandonato le opinioni del suo club (lo si era anche sentito trattare queste opinioni come “pessime”): ma gli piaceva restare membro di un club i cui principi erano diametralmente opposti ai suoi. Del resto, aveva sempre provato un certo disdegno per quell’istituto nel quale era entrato tanti anni prima, dopo essere stato bocciato al Pot-Pourri perché era “nel commercio”. Come se con ciò non li valesse quanti erano! Naturalmente provò una specie di disprezzo per il club che lo accolse. Quella gente non era gran cosa: i più, impiegati nella City, agenti di cambio, procuratori, periti e altre cose del genere. Come molti fra gli uomini di volontà ma mediocremente originali, il vecchio Jolyon teneva in poco conto la classe alla quale apparteneva.