Ora l’episodio del cappello bastava da solo a giustificare il disagio della famiglia Forsyte. Non provare un tale disagio sarebbe stato un cattivo segno per una famiglia nella quale viveva, fortunatamente, quel culto delle apparenze che deve sempre contrassegnare l’alta borghesia… e sarebbe stato d’altra parte impossibile.
Il colpevole di tutto questo era in piedi vicino alla porta in fondo e parlava con June. Con i suoi capelli ondulati e in disordine sembrava avesse la sensazione di essere in un ambiente insolito; e sembrava anche si divertisse fra sé e sé. George disse piano al fratello Eustace:
«Dà l’impressione di uno che potrebbe benissimo levarsi di torno, quell’indomabile Masnadiero!».
Quest’uomo di singolarissima apparenza, come più tardi dirà la zia Juley, era di media statura, ma di costituzione robusta. Volto pallido e bruno, baffi scuri, zigomi sporgenti e guance affilate. La fronte correva come in pendio verso il sommo della testa, ma sopra gli occhi si rilevava ad arco dando così l’immagine di quelle fronti che si vedono nella gabbia dei leoni al giardino zoologico. Aveva pupille di un bruno liquido e dorato e lo sguardo era a volte tanto distratto da sconcertare. Il cocchiere del vecchio Jolyon, di ritorno dall’aver condotto June e Bosinney al teatro, aveva detto al maggiordomo: «Non so proprio cosa pensarne. Mi fa l’effetto di un leopardo non del tutto addomesticato».
Di tanto in tanto un Forsyte si avvicinava alla porta presso la quale i fidanzati parlavano, gironzolava lì attorno e sogguardava Bosinney.
June si protendeva un po’ in avanti come per respingere quella inutile curiosità. Era una piccola fragile creatura – «una fiamma di capelli e di energia» si era detto di lei – con intrepidi occhi azzurri, una mascella disegnata con fermezza, un colorito luminoso; quel viso e quel corpo sembravano troppo esigui per la corona di luce della sua gran treccia di rosso oro. Una donna alta, ammirevole di linee, che un membro della famiglia aveva un giorno paragonato a una dea pagana, stava in piedi lì vicino e guardava i fidanzati, sorridendo con qualche ombra di tristezza. Le sue mani guantate in grigio stavano incrociate l’una sull’altra, il volto grave e vezzoso era chinato da una parte e attirava a sé gli occhi di tutti gli uomini. Il corpo flessuoso aveva un’armonia così precisa e così leggera che sembrava muoversi col movimento stesso dell’aria. Il colore delle guance era pallido ma caldo; una vellutata dolcezza stava nei suoi occhi grandi e oscuri; ma le sue labbra, le sue labbra che facevano una domanda o davano una risposta con quel sorriso velato da un’ombra, erano quelle che trattenevano gli sguardi degli uomini; labbra sensitive, tenere e soavi dalle quali come da un fiore sembravano generarsi il calore e il profumo.
I fidanzati, che ella osservava, non sentivano la presenza di quella passiva deità. La notò per primo Bosinney e ne domandò il nome.
June condusse il fidanzato dalla bella donna.
«Irene è la mia amica inseparabile», disse. «Vi prego, tutti e due, di diventare buoni amici».
A tale ordine della giovinetta tutti e tre sorrisero; e mentre essi sorridevano, Soames Forsyte apparve silenziosamente accanto alla bella donna della quale era il marito e disse:
«Ah! Presentate anche me!».
Era raro trovarlo lontano da Irene durante una riunione, e anche quando le esigenze della conversazione lo allontanavano da lei, ancora la seguiva con lo sguardo e i suoi occhi avevano una strana espressione di vigilanza e di desiderio.
Alla finestra James, suo padre, esaminava sempre la marca del ninnolo di porcellana.
«Mi stupisce che Jolyon abbia permesso questo fidanzamento», diceva alla zia Ann. «Mi si dice che non hanno nessuna probabilità di sposarsi prima di molti anni. Questo giovane Bosinney», egli pronunciava il cognome come un dattilo, malgrado comunemente se ne pronunciasse il Bo corto, «non ha nulla. Quando Dartie ha sposato Winifred, io volli che egli intestasse tutto a sua moglie: fortunatamente! Poiché a quest’ora non avrebbe più un soldo!».
Accomodata nella sua poltrona di velluto, la zia Ann alzò la testa. Le coprivano la fronte alcuni ciuffi di capelli grigi che, immutabili da molte decine di anni, avevano abolito nella famiglia la sensazione del tempo. Non disse nulla, perché parlava raramente e trattava con ogni riguardo la sua vecchia voce; ma per James, che non aveva la coscienza a posto, il suo sguardo equivaleva a una risposta.
«In fede mia! È vero che Irene non aveva denari, ma io proprio non potevo far nulla. Soames si era talmente innamorato! Nel tempo che la corteggiava era molto dimagrito». Posando con malumore sul pianoforte la tazza di porcellana, lasciò vagare il suo sguardo fino al gruppo che si era formato vicino alla porta.
«Ho idea», disse a un tratto, «che la cosa non sia più così a mal partito».
La zia Ann non gli domandò di spiegare questa frase singolare: conosceva il suo pensiero. Irene, poiché non aveva denari, non sarebbe tanto sciocca da dimenticare i propri doveri… Poiché si diceva – si diceva! – che Irene aveva chiesto camere separate; ma, beninteso, Soames non aveva…
James le interruppe la meditazione:
«Dov’è dunque Timothy? Forse non è venuto con voi?». Un sorriso di tenerezza distese le labbra strette della zia Ann.
«No, Timothy ha pensato che non era prudente venire, con questa difterite che c’è dappertutto; è così facile per lui buscare dei malanni!»
James rispose:
«Ebbene, ecco uno che sa aver cura di sé. In quanto a me, non posso prendermi il lusso di curarmi tanto».
E non si sarebbe potuto dire se in questa osservazione ci fosse più ammirazione o più invidia o più sprezzo.
Timothy lo si vedeva di rado. Il beniamino della famiglia, editore di professione, aveva presagito qualche anno prima, in pieno periodo di abbondanza d’affari, la crisi che effettivamente non era ancora avvenuta ma che, secondo l’opinione di tutti, era inevitabile. Venduta la sua parte di una casa editrice che pubblicava principalmente libri edificanti, aveva collocato il considerevole profitto di tale operazione in titoli di Stato. Con ciò si era fatto un posto a parte nella famiglia, poiché ogni altro Forsyte voleva per il proprio denaro il quattro per cento; e questo isolamento, con azione lenta ma sicura, aveva atrofizzato l’energia di uno spirito troppo prudente. Quasi un mito era, così, divenuto Timothy; una specie d’incarnazione dello spirito di Sicurezza, sempre sullo sfondo dell’universo dei Forsyte.
James, battendo la tazza di porcellana, riprese:
«Questo non è del vero vecchio Worcester. Suppongo che Jolyon ti abbia detto qualcosa del giovane, non è vero? In quanto a me, tutto quello che so è che non lavora, non ha ricchezza, non ha una famiglia di cui valga la pena di parlare, ma dopo tutto io non so niente… nessuno mi dice mai niente».
La zia Ann scosse la testa. Un tremito passò sul vecchio volto dalle linee aquiline e dal mento quadrato, le sue dita simili a zampe di ragno si premevano e s’intrecciavano fra loro, come se con questo mezzo lei riuscisse misteriosamente a ricaricare la propria volontà.
Più vecchia (di molti anni) degli altri Forsyte, godeva fra essi di una particolare posizione. Opportunisti e individualisti tutti – senza esserlo, del resto, più che i loro vicini – i Forsyte tremavano davanti al volto incorruttibile di lei, e quando le buone occasioni di peccato contro lo spirito familiare diventavano troppo tentatrici, cercavano, nascondendosi, di sfuggirla.
E James continuava, attorcigliando le gambe lunghe e magre:
«Jolyon non ascolta nessuno. Non ha figli…».
Si fermò, ricordandosi che il figlio del vecchio Jolyon viveva ancora, il padre di June, il giovane Jolyon, che aveva venduto proprio a vil prezzo la sua vita ed era caduto dalla dignità della casta il giorno in cui aveva abbandonato moglie e figlia ed era fuggito con una governante straniera.
«Ebbene», riprese poi in fretta, «se il fare simili cose a lui dà piacere, suppongo che avrà le sue ragioni. Vediamo, che dote potrà darle? Una rendita di mille sterline, suppongo; non ha altre persone alle quali lasciare il suo denaro».
Qui, stese la mano per stringere quella di un ometto pulito e rasato, quasi interamente calvo, con un lungo e debole naso, labbra piene, occhi freddi e grigi sotto le sopracciglia rettangolari.
«Guarda un po’: Nick!», borbottò James. «Come stai?»
Nicholas Forsyte, con la sua rapidità di uccello e la sua aria di scolaro superlativamente saggio (aveva fatto una grande fortuna, con mezzi del tutto legittimi, nelle società delle quali era direttore), mise nel palmo freddo di James la punta delle sue dita ancor più fredde e subito le ritirò.
«Non sto bene», rispose con una smorfia. «Indisposto tutta la settimana; non dormo. E il mio dottore non sa spiegarmi il perché. È un ragazzo intelligente, altrimenti non l’avrei preso, ma non riesco a fargli dire altro che la cifra dei suoi onorari».
«I dottori!», disse James, entrando con vivacità nell’argomento. «Io ho proprio visto tutti i dottori di Londra, per l’uno o per l’altro di noi, nella casa. Non servono a niente, mai, qualunque cosa dicano. Ecco Swithin, ad esempio. A lui, che bene hanno fatto i dottori? Eccolo, è più grosso che mai, è quasi enorme; essi non sono riusciti a fargli perdere una libbra di peso. Guardalo!»
Swithin Forsyte, alto, largo, quadrato, col petto convesso come quello di un grosso piccione, nelle piume dei suoi panciotti strepitosi, si avvicinò pavoneggiandosi.
«Euh! Come va?», disse col suo tono più chic. «Come va?»
Ciascuno dei fratelli, guardando gli altri due, aveva un’espressione di molestia, poiché sapeva per esperienza che non gli sarebbe permesso di pretendersi più ammalato di loro.
«Stavamo appunto dicendo», rispose James, «che tu non dimagrisci».
Gli occhi tondi e pallidi di Swithin divennero sporgenti, nello sforzo che fece per capire.
«Che io non dimagrisco? Certo ho una buona costituzione», disse protendendo un poco la testa; «non sono mica un palo come te!».
Ma, nel timore di diminuire la bellezza della convessità del suo petto, si raddrizzò e rimase immobile; sopra ogni cosa egli teneva in pregio il portamento distinto.
La zia Ann volgeva dall’uno all’altro il suo vecchio sguardo, con espressione austera, ma indulgente. A loro volta i tre fratelli guardavano Ann. Ella cominciava ad apparire indebolita. Ma che donna sorprendente! Ottantasei anni suonati; poteva viverne ancora dieci, e non aveva mai goduto molta salute. Swithin e James, i gemelli, non avevano che settantacinque anni; Nicholas settanta, un ragazzo! Tutti erano di buona costituzione e la vista di zia Ann non poteva perciò che incoraggiarli. Naturalmente, di tutte le forme di proprietà, quella che a loro stava più a cuore era la propria rispettiva salute.
«In quanto a me, sto molto bene fisicamente», cominciò James, «ma sono i nervi che non vanno… Il minimo fastidio mi dà inquietudini mortali… Bisognerà che vada a Bath».
«Bath!», disse Nicholas. «Io ho provato Harrogate. Tutte questo non serve a nulla. Per me è necessaria l’aria del mare. Niente vale quanto Yarmouth. Almeno, quando son là dormo».
«Il mio fegato è in pessime condizioni», interruppe Swithin con voce lenta. «Sento uno spaventoso male qui». E portò la mano a destra.
«Mancanza di moto», borbottò James, con gli occhi fissi sulla tazza di porcellana; e aggiunse rapidamente: «Anch’io ho male là».
Swithin diventò rosso, tanto che sul suo vecchio viso passò l’espressione di una vaga rassomiglianza con un tacchino.
«Moto!», disse; «ma io ne faccio molto. Al club non salgo mai con l’ascensore».
«Non sapevo», barbugliò James in fretta. «Io non so niente su nessuno; nessuno mi dice mai niente».
Swithin lo fissò sgranando gli occhi e gli domandò:
«Cosa fai tu, quando senti un dolore da qualche parte?».
A questo, la fisionomia di James si rischiarò.
«In quanto a me», fece, cominciando, «io prendo una misura…».
«Come state, zio mio?»
Gli era davanti June con la mano tesa, e alzava verso lui, che era alto, la sua testolina risoluta.
Il lume della soddisfazione si spense sul volto di James.
«Come stai?», disse chinato su di lei con un’aria assorta. «Dunque tu parti domani per il Galles? Vai a vedere le zie del tuo giovinotto? Troverai molta pioggia laggiù. Questo non è vero vecchio Worcester» e batteva sulla tazza. «Il servizio che regalai a tua madre quando si è sposata era di Worcester vero».