Capitolo III: Una lettera dal passato

2980 Words
Capitolo III Una lettera dal passatoVilla prese atto che l’incontro era terminato. Non gli rimase che alzarsi dal divano e dirigersi, a passi incerti, verso la porta. Ad attenderlo c’era Lia, la storica governante di casa Sforza. Il banchiere l’aveva chiamata suonando un piccolo campanello d’argento che teneva sempre a portata di mano. La donna porse al sindaco il suo soprabito, con indifferenza. Sotto il suo sguardo impassibile, Villa si congedò con un cenno del capo. Lanciò un’ultima occhiata al padrone di casa, che lo ignorò. Raggiunse il maestoso scalone del palazzo che conduceva nel loggiato sottostante e ne discese i gradini tenendosi saldamente al corrimano per non perdere l’equilibrio. Non reggeva l’alcol. Percorse lentamente la scalinata, sotto lo sguardo severo degli imperatori romani i cui busti marmorei si affacciavano dalle nicchie poste a intervalli regolari nel muro. Pensò che il banchiere avesse la medesima espressione arcigna e a tratti disumana di quelle statue. Giunto nell’androne, prima di varcare il portone fece alcuni respiri profondi. Non vedeva l’ora di andarsene dalla casa, di mettere una distanza fisica fra lui e quel luogo. In strada, poco distante, lo attendeva l’auto blu, munita di autista, con la quale era giunto un’ora prima. Anche se l’abitazione del banchiere distava da Palazzo Marino una manciata di minuti a piedi, Villa optava sempre per l’auto. Non voleva che qualcuno, anche solo casualmente, potesse notare quella frequentazione con Sforza. Era stato quest’ultimo a raccomandarsi di adottare la massima discrezione. Quel giorno era stata la prima volta che il banchiere lo aveva convocato a casa in un orario diurno. In genere prediligeva la tarda serata per vederlo. Raggiunse velocemente l’auto, parcheggiata nella vicina via Cusani, parandosi dietro agli inseparabili Ray-Ban e tenendo alzato il bavero del trench blu. Non voleva essere riconosciuto, tantomeno era dell’umore adatto per elargire saluti e sorrisi o, peggio, per farsi fotografare. Ripensò alla campagna elettorale appena trascorsa, a quando ancora si prestava metodicamente a venire immortalato, dopo ogni comizio, accanto ai militanti che glielo chiedevano. Bagni di folla, abbracci, baci e foto facevano parte della quotidianità di Villa. Nei mesi che avevano preceduto la sua elezione aveva viaggiato sempre con al seguito un fotografo, incaricato di ritrarlo in qualsiasi momento: quando entrava in un bar per una semplice colazione, oppure mentre passeggiava tra la gente nei mercati rionali o ancora durante qualche inaugurazione. Tutto quel materiale confluiva sui social, puro carburante per alimentare la macchina elettorale intorno alla sua persona. Villa seguiva le orme di Benito Mussolini, rielaborando in chiave moderna il culto della sua persona: non c’erano foto mentre partecipava alla battaglia del grano, ma non mancavano quelle in cui si prodigava a pubblicizzare prodotti enogastronomici rigorosamente italiani. E tra una spremuta di arance di Sicilia, una piadina romagnola con squacquerone e prosciutto crudo del Consorzio di Parma o una pizza napoletana, Villa si faceva rappresentante del sovranismo nazionale. Dopo il colloquio con il banchiere, piuttosto che farsi fotografare come aveva sempre fatto avrebbe preferito sprofondare nell’anonimato, ritirarsi per sempre dalla vita pubblica e scomparire. E ogni volta si chiedeva, pur senza riuscire a darsi una risposta, quale futuro lo attendeva. La sola certezza rimastagli era quella di non essere riuscito a godersi la sua inaspettata vittoria elettorale. Se fino a mesi prima avrebbe fatto di tutto per diventare sindaco di Milano, arrivando ad ogni tipo di compromesso, ora avrebbe fatto altrettanto per scomparire per sempre dai riflettori sotto i quali aveva costruito la propria immagine. Il ricatto con il quale Raoul lo teneva in pugno si era rivelato un’autentica beffa del destino. Da quando aveva fatto la conoscenza di Sforza, la sua esistenza si era trasformata in un tormento. Quello che gli era stato preannunciato come un incontro proficuo e interessante – perché era così che Sforza aveva avvicinato Villa la prima volta, con la scusa di voler sponsorizzare alcuni progetti per Milano – si era trasformato in una trappola. Da aspirante filantropo e sostenitore del sindaco, Sforza ne era divenuto l’aguzzino. Ed insieme a lui, nella sua stessa condizione, era stato messo Vittorio “Vittorino” Stucchi, amico e confidente nonché suo segretario personale. Insieme condividevano uguale sorte. Quando Villa si ritrovò sui sedili della berlina blu, chiese all’autista di riaccompagnarlo subito in Comune. Più che sedersi, il primo cittadino si accasciò, come uno che ha finito di percorrere una maratona. «Tutto bene, signor Sindaco?» gli domandò l’uomo avviando il motore. «Sì... Sì. Spicciati ora» gli rispose infastidito. *** Rimasto solo, Raoul sentì il bisogno di ascoltare della musica. Aveva sostenuto il colloquio con Villa mantenendo il suo tipico atteggiamento freddo e distaccato. Non faceva fatica a recitare la parte dell’uomo insensibile e spietato, perché con uomini come Villa lo era per natura. Piuttosto, aveva dovuto fare uno sforzo per non apparire distratto o, peggio, assente. Il progetto che Raoul aveva in mente e per il quale si serviva di Villa gli stava profondamente a cuore, ma una lettera, giuntagli qualche giorno prima, lo aveva costretto a spostare la sua attenzione su altro e a riconsiderare le proprie priorità. Una lettera del tutto inattesa. Se fosse dipeso da lui, dalla sua noncuranza per una certa quotidianità, sarebbe rimasta nella buca delle lettere per giorni, forse per settimane. Raoul non riceveva corrispondenza da nessuno. Quella che arrivava era legata alle utenze di casa o a questioni fiscali. E anche di quelle non si occupava. Aveva chi lo faceva per lui. Non gli interessava leggere neppure la corrispondenza che la sua stessa banca, la Sforza Mayer, gli inviava circa i suoi investimenti, conti e tutto il resto. Sapeva esattamente in quanto consisteva il suo ingente patrimonio personale e come era suddiviso. Non aveva bisogno di quei promemoria da correntisti. Non voleva ammetterlo, ma era rimasto profondamente turbato da quella busta anonima, leggermente stropicciata, che recava il suo nome e il suo indirizzo scritti a mano, in stampatello, con l’inchiostro blu. Al suo interno c’erano due fogli di quaderno a quadretti scritti fitti, con una grafia a tratti indecifrabile. In lui, dopo la lettura, si era innescato un sottile stato di angoscia che non provava da tempo. Una lettera che improvvisamente lo faceva sentire vulnerabile. Era questo l’aspetto della questione che lo toccava maggiormente: non essere riuscito a restare imperturbabile di fronte all’imprevisto come normalmente gli accadeva. Lui, che non si scomponeva per nulla o quasi, ora provava una tensione emotiva che aveva pressoché dimenticato. Il nome del mittente giungeva da un passato lontano e doloroso, dopo decenni di silenzio. Nel leggere la missiva si era rivisto in quella sera dell’estate del 1981, mentre sprofondava nel dolore per la perdita di Anna e del figlio che lei portava in grembo. Loro figlio. La convinzione che l’incidente stradale, causato da un colpo di sonno della giovane donna, non fosse una fatalità aveva perseguitato Raoul per gli anni successivi. Dai ricordi indelebili dell’estate che aveva cambiato per sempre la sua vita emerse la figura di quel carabiniere, amico del padre di Anna, che aveva fatto di tutto affinché Raoul si placasse, dandosi pace e accettando il destino. Si rivide in quella sera angosciosa, seduto nel giardino dell’albergo dove aspettava Anna, mentre le ore passavano e di lei non aveva notizie. Il timore che le fosse accaduto qualcosa si era affacciato lentamente nel ragazzo, accompagnandolo nelle ore successive fino al mattino, quando era stato raggiunto dalla notizia del tragico incidente. Era stato un maresciallo dei carabinieri, Carmine Russo, ad accompagnare Raoul in un deposito di auto per vedere lo scheletro dell’auto carbonizzata nella quale Anna aveva trovato la morte. E sempre lui, nei mesi successivi, poiché il ragazzo non si dava pace, gli aveva mostrato la perizia fatta su ciò che rimaneva dell’auto. Non era stata rilevata nessuna manomissione, nulla che facesse pensare ad altro che ad un incidente. La perizia era stata voluta dal padre stesso di Anna, straziato dal dolore per la perdita della figlia. Solo a quel punto Raoul si era rassegnato, anche se nel suo inconscio non aveva mai accettato la dinamica dei fatti. A distanza di più di trent’anni da quella tragica notte, altri due eventi erano giunti a scuotere intimamente l’esistenza del banchiere. Il primo risaliva a qualche mese prima, quando il destino gli aveva fatto incontrare Viola, figlia del noto commercialista milanese Paolo Fumagalli, ucciso in circostanze misteriose. Quando la ragazza si era presentata per la prima volta a casa di Raoul, quest’ultimo era trasalito, certo di trovarsi di fronte ad Anna o al suo fantasma. La somiglianza tra le due ragazze era sconvolgente. Il secondo evento era appunto l’arrivo della strana lettera, scritta e firmata dall’unico maresciallo Carmine Russo che il banchiere conoscesse, nella quale l’uomo aveva evocato quei fatti così lontani nel tempo. Voleva essere certo che il banchiere non li avesse dimenticati. A rendere inquietante quello scritto, zoppicante e sgrammaticato, era il desiderio del mittente di rivedere Raoul di persona. Desiderava parlargli della morte di Anna, mosso dal profondo bisogno di raccontargli ciò che non aveva potuto dire allora. Quelle righe avevano messo a dura prova il banchiere, avvezzo a padroneggiare i propri sentimenti, a celarli dentro di sé al riparo di una corazza. La lettera di Russo l’aveva attanagliato allo stomaco, come se qualcuno dall’interno glielo masticasse poco alla volta, strappandone dei lembi e togliendogli il fiato. Raoul aveva avvertito un dolore acuto, fisico, che lo atterriva e che non accennava a diminuire con il passare delle ore. Lui, abituato a decidere autonomamente con chi intrattenere rapporti o meno, chi incontrare e chi no, si sentiva costretto a subire un ricatto psicologico. Fino a quando non avesse incontrato di persona Russo, non avrebbe saputo la verità. Lui che era un maestro della coercizione, abituato a tenere in uno stato di sudditanza mentale una nutrita schiera di personaggi che ricoprivano ruoli chiave nella società, ora provava sulla sua pelle una sensazione di costrizione, di dipendenza dal volere altrui. Per un attimo pensò a Villa, ultimo in ordine di tempo ad essere rimasto invischiato nella sua fitta tela. Ora le parti sembravano essersi invertite. Il banchiere non era più il ragno della situazione, il paziente predatore, ma rischiava di diventare la vittima, la preda di qualcun altro. Non c’erano soluzioni alternative, scorciatoie o altre possibilità se non incontrare Russo, come egli stesso chiedeva. Benché fossero trascorsi decenni, Raoul non poteva ignorare la lettera e fingere con se stesso che appartenesse ad un passato troppo lontano per essere rivangato; l’unico modo per uscire da quello stato di prostrazione a lui sconosciuto era accettare l’invito. Nella lettera Russo si augurava che potessero incontrarsi il prima possibile. Aveva lasciato il suo indirizzo scritto in calce, senza alcun numero di telefono. Nel momento stesso in cui aveva letto la lettera, Raoul, dopo l’iniziale sgomento, aveva deciso di incontrare quell’uomo di cui si ricordava perfettamente, nonostante il tempo trascorso. Tutto il resto, nel giro di poche ore, era passato in secondo piano, Villa compreso. *** Era quasi mezzogiorno quando il banchiere si sedette a tavola. Nell’austera sala da pranzo arredata con una semplice credenza toscana e con un lungo tavolo fratino al centro, il pasto gli venne servito come sempre da Lia. I pranzi e le cene erano scanditi da regole precise, in una sorta di rito consolidato che si ripeteva puntualmente giorno dopo giorno. Si pranzava alle dodici in punto e si cenava alle sette. Il servizio di piatti era quello di Limoges con il bordo in oro zecchino, al quale venivano abbinate le posate d’argento di due servizi settecenteschi inglesi. Il menù prevedeva sempre piatti stagionali con materie prime di alta qualità, da accompagnarsi a etichette di vini di annate particolari. Nulla veniva lasciato al caso. Il banchiere si sedette a capotavola. Da una delle playlist del cellulare selezionò la musica che ritenne più adatta per accompagnare il pasto. Le note del brano Eyes Without a Face di Billy Idol lo riportarono indietro negli anni, esattamente come la lettera che aveva ricevuto. In questo caso, al 1983. Lia gli servì una tartàre di manzo, condita con quattro tuorli d’uovo, limone, senape e salsa Worcestershire. Accompagnò il piatto con un calice di Fasti, un vino rosso corposo come piaceva a lui, prodotto dalla cantina Ponziani che sorgeva sui colli di Orvieto. Raoul pranzava quasi sempre in solitudine. In questi momenti sembrava concentrato unicamente sul pasto e sulla sua degustazione. Non cercava e non desiderava altre distrazioni, all’infuori della musica che era una costante della sua giornata. Dalle finestre che si affacciavano sulla sottostante via del Lauro filtrava una luce soffusa, ulteriormente smorzata dai lunghi tendaggi. Terminò il pasto con due tazze di caffè nero; Lia glielo servì in tavola direttamente dalla moka. Dopo l’ennesima rapida occhiata all’orologio, si riaccese il sigaro che aveva iniziato a fumare poco prima, durante l’incontro con Villa. Si concesse ancora qualche istante, assorbito dai suoi pensieri. Osservò le due tavole quattrocentesche dell’artista rinascimentale Carlo Crivelli appese alle pareti. Si trattava di due opere d’arte di grandissimo valore che facevano parte della vasta collezione di pittura antica ereditata dal nonno. Ne amava una in particolare, quella che ritraeva Cristo Redentore attorniato da schiere di angeli alle sue spalle. La figura del figlio di Dio dominava tutta la verticalità della tavola lignea. Lo aveva sempre colpito l’espressione fiera e per nulla mite di Cristo. L’artista lo aveva dipinto con tratti che lo rendevano più simile ad un condottiero che non a colui che viene e rimette i peccati del mondo. Pur non professandosi cristiano, amava quell’opera e la sensazione di forza e di vittoria che da essa emanava. Gli occhi di Gesù avevano la stessa durezza e la profondità dello sguardo di un soldato di lungo corso, antico o moderno che fosse, di un uomo d’armi, sopravvissuto a decine di battaglie. Per Raoul quello era il Cristo combattente, non certo quello che moriva sulla croce per salvare l’umanità. Terminato il caffè, si diresse alla credenza. Da una nicchia laterale, mascherata da un pannello ligneo rimovibile, prese una Ruger LCRx 357 Magnum. Si trattava di un revolver tanto compatto nelle dimensioni quanto potente nel calibro. L’avrebbe portato con sé a titolo puramente precauzionale, preferendolo all’inseparabile Luger P08 di cui teneva un esemplare carico e silenziato sempre in quel mobile, in un’altra nicchia. Poco prima delle quattordici, Raoul partì. Ad attenderlo nel cortile c’era Amedeo, il suo autista nonché factotum. L’uomo lo salutò con deferenza mentre gli apriva la portiera della Land Rover Discovery 5 color grigio piombo. Sforza, un po’ seccato da quel gesto che giudicava superfluo, si sistemò sui sedili posteriori e lo invitò a partire. Il portone del palazzo si spalancò permettendo al SUV di uscire. Il banchiere comunicò ad Amedeo l’indirizzo da impostare sul navigatore. Al momento non si trovò alcuna corrispondenza. Trattandosi di un paese piccolo, suddiviso in diverse frazioni, la cosa era plausibile. Amedeo impostò come destinazione il centro stesso del paese. Una volta giunti sul luogo avrebbero poi cercato la via. Raoul contava di fare rientro in serata. Non era tipo da intrattenersi a lungo con le persone o dilungarsi. Era determinato a vedere Russo e a sentire che cosa mai volesse raccontargli dopo tutti quegli anni. Dentro di sé, era come se già intuisse ciò che da lì a poco avrebbe appreso. Questa situazione di incertezza lo metteva a disagio e gli faceva montare un senso di rabbia che non poteva sfogare in alcun modo. Durante il viaggio avrebbe avuto il tempo per ripensare a quella lettera. Che cosa mai poteva aver spinto quell’uomo a scrivergli? A scatenare in lui il bisogno di cercarlo per rivangare fatti consegnati al passato anche se mai dimenticati? Certamente Russo non lo aveva cercato dopo tutto quel tempo per confermargli la versione dei fatti fornitagli all’epoca. Dover tornare a fare i conti con quel periodo doloroso e straziante non gli piaceva per niente. Da allora, non c’era stato giorno in vita sua in cui non avesse pensato ad Anna e al loro figlio mai nato. Quante volte aveva cercato di immaginare, di dare un volto a quella creatura a cui era stato impedito di nascere, di avere una vita... E ogni volta che lo faceva provava un odio profondo, lo stesso che negli anni a seguire lo aveva ispirato nelle sue azioni. Odio e disprezzo per il prossimo, per l’umanità in genere. Ecco perché da qualche tempo il banchiere si era votato al Caos, inteso come ricerca e messa in atto di un processo di disintegrazione dell’attuale sistema sociale e politico. Attraverso l’enorme potere finanziario di cui il banchiere disponeva, accarezzava l’idea di un cambiamento radicale. Si considerava al pari di un meccanismo, un ingranaggio del sistema stesso che improvvisamente prende coscienza e decide di distruggere ciò di cui fa parte. Questo suo percorso messo in atto nasceva dalla certezza di trovarsi a vivere in un’epoca prossima al termine, detta anche quarta età, “Età Oscura” o meglio Kali-Yuga. Questo concetto derivava dalla dottrina indù secondo la quale la durata di un ciclo dell’umanità terrestre, che prende il nome di manvantara, si divide a sua volta in quattro età, che, come insegnava René Guénon «…segnano altrettante fasi di un oscuramento progressivo della spiritualità primordiale. Si tratta degli stessi periodi che, da parte loro, le tradizioni dell’antichità occidentale designarono come le età dell’oro, dell’argento, del bronzo e del ferro. Noi ci troviamo presentemente nella quarta età, nel Kali-Yuga o “Età Oscura”, e noi vi siamo, si dice, già da più di seimila anni, cioè da una data decisamente anteriore a tutte quelle conosciute dalla storia “classica”». Se dunque il presente era Kali-Yuga, Raoul aveva deciso di surfarlo, al pari di una grande quanto devastante onda, di cavalcarla rimanendo in piedi, se non addirittura di favorirla. Alla fine di tutto, dopo la distruzione che essa avrebbe portato, Raoul confidava di assistere alla nascita di un nuovo mondo, al ritorno di un uomo nuovo e antico allo stesso tempo.
Free reading for new users
Scan code to download app
Facebookexpand_more
  • author-avatar
    Writer
  • chap_listContents
  • likeADD