Capitolo II: k******e

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Capitolo II kamikazeMilano, via del Lauro. Giorni nostri. Residenza del banchiere Raoul Sforza L’espressione arcigna del padrone di casa opprimeva a tal punto il suo interlocutore che quest’ultimo faticava a reggerne lo sguardo per più di qualche secondo. Per non parlare del suo modo di fare, raggelante e imprevedibile allo stesso tempo. Se l’avesse dovuto paragonare ad un animale non avrebbe esitato ad accostarlo ad un serpente. Era questa l’impressione che gli dava quel banchiere che nel giro di poco tempo si era letteralmente impossessato della sua vita, rendendola un inferno. Dal canto suo, Raoul Sforza era pienamente consapevole di esercitare il proprio potere e la propria forza di persuasione, grazie al disagio e al senso di inadeguatezza che era in grado di suscitare negli altri. L’appellativo di “banchiere nero”, con cui in taluni ambienti milanesi lo si indicava, non si riferiva solo ai suoi foschi trascorsi politici giovanili, ma anche al suo carattere cupo e tenebroso. Benché sprofondato pigramente nella sua poltrona, in atteggiamento palesemente rilassato, agli occhi di Enrico Villa, attuale sindaco di Milano, Sforza appariva minaccioso e incombente come una disgrazia pronta ad abbattersi, un male al quale non ci si può sottrarre. Quell’incontro non era il primo e non sarebbe stato l’ultimo. Villa il “Bomber”, com’era soprannominato il leader del partito sovranista Libertà di Popolo, mai avrebbe immaginato che una volta eletto non avrebbe fatto neppure in tempo a godersi i fasti dell’inattesa vittoria. Nel giro di pochi giorni si era ritrovato sindaco della città più importante d’Italia e, allo stesso tempo, a vivere l’incubo del ricatto. Sforza teneva in pugno Villa e non faceva mistero della soddisfazione che provava nel manovrarlo a suo piacimento, come un burattino. Per una serie di “fortuite coincidenze”, come le aveva definite lo stesso banchiere, qualche settimana prima era entrato in possesso di documenti che attestavano tutta una serie di finanziamenti illeciti al partito di Villa; se il banchiere li avesse resi pubblici, essi avrebbero dato origine ad un terremoto politico su scala nazionale. Si sarebbe trattato di uno dei più grandi scandali avvenuti in Italia dal secondo dopoguerra. Villa ed il suo movimento ne sarebbero usciti distrutti. In un primo tempo l’idea di vedere il neosindaco cadere in rovina lo aveva solleticato, non tanto perché non condivideva alcune idee del “Bomber”, quanto per il disprezzo che nutriva nei confronti di uomini come lui. Villa era il perfetto rappresentante dell’odierna casta politica, i cui principali tratti distintivi erano arroganza e sete di potere. Nei confronti degli uomini e delle donne che ne facevano parte, il banchiere nutriva un’avversione fisica ed intellettuale che sfociava nel ribrezzo e nel desiderio di distruzione. Agli occhi di Raoul appariva poi ancora più grave il fatto che Villa, secondo una prassi tipica dei professionisti della politica, non aveva neppure un briciolo di fede nelle idee che propugnava, ma le utilizzava con il solo scopo di catalizzare i bisogni viscerali del popolino per fini elettorali. Una volta raggiunto l’ambito scranno, si sarebbe dimostrato disponibile ad ogni forma di compromesso, se non addirittura a rinnegare le sue idee, esibendosi in camaleontiche alleanze e in audaci voltafaccia pur di rimanere in carica. Questa mancanza di etica, di fedeltà alla parola data, destava nel banchiere i peggiori istinti sadici. Ecco perché Raoul provava un intimo e profondo piacere nell’averlo ora al suo cospetto, pallido come uno straccio, ombra del Villa che era solito arringare i suoi elettori come un moderno Masaniello o un infervorato tribuno della plebe. Villa il “Bomber”, sempre abbronzato e sorridente come un attore di una fiction, sicuro di se stesso, che aveva fatto della strafottenza la sua bandiera, appariva invecchiato precocemente, addirittura ricurvo nella postura. Perfino nelle più recenti apparizioni in pubblico sembrava aver perso quell’inconfondibile verve e quella carica che infiammavano gli animi dei suoi elettori. «Suvvia, Villa, si tolga di dosso quell’espressione da cane bastonato. Oltre a indispormi, la trovo fuori luogo. Io le sto offrendo l’opportunità di entrare nella storia, di compiere una rivoluzione, e lei non dimostra il benché minimo entusiasmo» sbuffò il padrone di casa, «anzi, per dirla tutta, trovo il suo atteggiamento sostanzialmente offensivo e privo di riguardo. Se non fosse che credo fermamente nelle sue capacità e nel nostro progetto, avrei già provveduto a liquidarla.» Seguirono alcuni istanti di silenzio. «Le farebbe bene bere qualcosa di forte» aggiunse il banchiere scattando in piedi e raggiungendo il mobile bar in stile déco dal quale prese una bottiglia di whisky torbato, un Ardbeg con vent’anni di invecchiamento. Riempì generosamente un bicchiere di cristallo basso e largo. Lo porse al suo ospite. Villa fece per dire qualcosa, ma il banchiere lo anticipò. «Anche se sono solo le undici del mattino, beva. La consideri una medicina per farsi passare il terrore che le leggo in faccia. A volte l’alcol snebbia i pensieri e rende le persone migliori. Addirittura, può diventare un utile alleato quando ci sono da sciogliere certe inutili paure... augurandomi che lei non sia l’eccezione che conferma la regola» commentò sarcastico mentre si accomodava nuovamente di fronte al suo ospite. Raoul nel frattempo prese un fiammifero Minerva da una scatola che teneva in tasca e incendiò un Habanos Cohiba. Fumava solo quel tipo di sigari cubani, provenienti dalla regione di Vuelta Abajo. Villa osservò per qualche istante il contenuto del bicchiere, disgustato dall’odore intenso di torba che il distillato emanava. Riluttante, portò il bicchiere alle labbra e le inumidì solo per compiacere Sforza. Per qualche minuto Raoul si dimostrò del tutto incurante della presenza del suo ospite. Era concentrato a godersi le profonde boccate di fragrante tabacco, come se non esistesse altro in quel momento. Lo fumava con una voluttà quasi erotica. Era come se stesse facendo l’amore con l’aroma avvolgente e non ne faceva mistero. Villa si adeguò a quella situazione per lui umiliante. Non era nelle condizioni di potersi imporre e reclamare attenzione, ma poteva solo subire passivamente. Durante gli incontri avuti fino a quel momento con il banchiere aveva imparato a non stupirsi di quegli atteggiamenti scostanti e bizzarri, e vi si era adeguato. Fu Sforza a rompere improvvisamente quel silenzio sempre più opprimente per Villa. «Fino ad oggi abbiamo sostanzialmente giocato, sondato quel terreno sul quale andremo a breve a confrontarci. Dall’insediamento della sua giunta, grazie ai miei suggerimenti, lei ha trovato come far parlare di sé in modo nuovo e dirompente. Sono bastate poche, ma efficaci battute, che il “Villa sovranista” non avrebbe mai proferito in passato, per farla volare alto. E questo è solo un assaggio. In due giorni lei ha ottenuto una visibilità che l’attuale Presidente del Consiglio avrebbe desiderato per lui. Le confido che quando» sottolineò ironico il banchiere, «lei si è detto favorevole all’arruolamento di una massiccia componente extracomunitaria nel corpo di Polizia Locale di Milano, mi sono divertito. Ho colto un autentico panico sui volti dei suoi fedelissimi in consiglio comunale. Per non parlare delle reazioni dell’opposizione: il senso di disorientamento e sconcerto è stato totale. Un colpo da maestro, non a caso suggeritole dal sottoscritto. Togliere terreno al nemico, spiazzarlo, cavalcando le sue stesse idee. Naturalmente quella dei ghisa africani è sembrata una boutade, magari per alcuni una guasconata, ma per giorni non si è parlato d’altro. Certamente tra un po’ ne riparleremo in altri termini». «Quelle parole mi sono costate care... All’interno del partito c’è stata un’ondata di malcontento. Pensano che io mi sia ammattito» si lagnò Villa ripensando alle telefonate di fuoco ricevute dai suoi fedelissimi che non sapevano come commentare la notizia. La stampa si era scatenata, i giornalisti cercavano di estorcere ogni tipo di indiscrezione agli esponenti del partito di Villa per capire che cosa avesse in mente il loro segretario nonché neosindaco di Milano. Raoul scosse la testa. Guardò Villa con la stessa espressione di chi è costretto a doversi ripetere più volte per chiarire un concetto oggettivamente semplice e che è già stato spiegato in precedenza. «Villa, lei non ha ancora compreso appieno la portata del progetto che ho deciso di condividere con lei» rimarcò il banchiere, facendo appello a tutta la sua pazienza. «Qui non si tratta di preoccuparsi dei malumori di partito, dei piagnistei dei parassiti che la circondano e che ambiscono a farla fuori al primo passo falso. Non devo essere io a ricordarle che i suoi maggiori nemici, quelli che vogliono la sua testa, si annidano proprio tra le sue schiere» disse il banchiere scandendo le parole. Poi aggiunse: «Sarà solo merito del sottoscritto e delle linee guida che le impartirò se, nel giro di poco tempo, lei non dovrà più preoccuparsi di loro e dei miseri complotti ai quali lei stesso è ricorso fino all’altro giorno nella sua ascesa alla guida del partito. L’appoggio incondizionato degli elettori, derivante da scelte ardite e coraggiose, la metterà al riparo dalle logiche che lei stesso applicava nella sua scalata ai vertici. Lei farà ciò che nessuno prima ha osato fare in politica, cioè mantenere gli impegni elettorali» sentenziò Raoul, consapevole di toccare un nervo scoperto. Tener fede alla parola data non faceva parte del Dna di personaggi come Villa. Poco male. Con le buone, o meglio con le cattive, avrebbe operato una sorta di mutazione genetica su quell’uomo che continuava a guardarlo con aria contrita e sofferente. «Non si preoccupi, Villa. Gli impegni sono quelli che lei già conosce perfettamente e che ha preso in campagna elettorale. Poi ne aggiungeremo altri, strada facendo, rendendo la sua agenda di sindaco a dir poco memorabile. Per natura credo nella programmazione, ma ciò che da sempre mi affascina è lo spirito di adattamento. Chi si adatta è destinato a sopravvivere e a vincere. Lei farà in modo di far adattare gli altri alle sue scelte, piegherà le loro volontà alla sua, specie di fronte a decisioni scioccanti. Ne ho già in mente alcune che mi regaleranno grandi soddisfazioni, ma è inutile che gliele anticipi ora... Ciò che conta è che abbiamo una prospettiva di cinque anni per cambiare radicalmente il volto a Milano. Questa idea non la elettrizza?». «Lei vuole vedermi morto» mormorò il primo cittadino cercando e forse trovando nel bicchiere di distillato quasi un senso di conforto che mai si sarebbe immaginato. «Tutt’altro. Se lei morisse il mio progetto decadrebbe. Ho tutto l’interesse perché lei rimanga in salute e nessuno le torca un capello» lo rassicurò Sforza producendosi in un ghigno poco rassicurante. L’espressione malevola del banchiere, i suoi occhi profondi che sembravano capaci di cogliere i pensieri altrui tanto erano penetranti, non facevano che amplificare il disagio di Villa. «Nel momento in cui dovessi non rispettare gli accordi presi con i Surace, sarei un uomo morto. Lei non lo capisce. Ci sono in gioco interessi enormi, il futuro di Milano, la sua espansione urbana. Se voltassi loro le spalle, firmerei la mia condanna a morte» proruppe il sindaco angosciato. Il banchiere dovette reprimere un moto di stizza verso quelle che riteneva futili rimostranze avanzate da un uomo senza spina dorsale. Era ben consapevole a cosa Villa si riferisse. Le prove di quel patto criminale le teneva al sicuro Raoul. «È un dato di fatto che lei ha preso accordi con persone prive di ogni remora morale. Non vedo quale sia il problema nell’adeguarsi al tenore dei suoi interlocutori e a surclassarlo. Villa che mette K.O. una delle più potenti famiglie della ’ndrangheta. Una mossa in apparenza impossibile per un omuncolo come lei, abituato a sollazzarsi sullo yacht del suocero con la propria compagna. Eppure, questa sua condizione di evidente e reale inferiorità verso un’organizzazione così articolata e potente la mette in una posizione di assoluto vantaggio. Loro danno per scontato che lei, come tutti i politici che si rispettino, si attenga ai patti. L’hanno favorita in campagna elettorale investendo sulla sua persona e sul suo movimento. Ora che lei ha ottenuto ciò che voleva, non ha alcun motivo per voltare loro le spalle. Una mossa simile non rientrerebbe in alcuna logica, se non suicida. I Surace dormono sonni tranquilli; non sono neppure sfiorati dall’idea che Villa possa non solo non favorirli, ma addirittura dichiarare loro guerra» proseguì il banchiere, sperando che il suo interlocutore condividesse la sua strategia. «Dalla nostra abbiamo il fattore sorpresa. Nel momento in cui si ergerà a paladino della legalità non solo a parole, ma con i fatti, si metterà sotto i riflettori dell’intera nazione. A quel punto nessuno oserà toccarla perché sarà diventato una sorta di mina vagante, un simbolo della legalità, che nessuno si sognerebbe mai di fermare. Ne conviene?». Villa scosse la testa, rivolgendo al banchiere uno sguardo quasi implorante. «Mi ucciderebbero. Magari non subito, ma prima o poi si vendicherebbero. Secondo lei dovrei vivere nel terrore aspettando che mi facciano fuori da un momento all’altro? Pensa che non abbiano le capacità per fare un’azione simile?». Sforza scosse la testa infastidito. «Villa, se c’è una cosa che ho imparato nella vita è di non sottovalutare mai nessuno. I suoi alleati dispongono di tutte le capacità operative per eliminarla fisicamente, ma si spingerebbero su di un terreno rischioso. Queste persone, al di là della pratica della violenza che fa parte del loro essere, mirano solo al denaro. Già in passato la malavita nel nostro paese ha alzato la voce con bombe e autobombe, ma l’effetto è stato solo momentaneo. Cercheranno di contrastarla con gli stessi mezzi che il sistema mette loro a disposizione, cercando di contenere il più possibile il danno economico che lei potrebbe loro arrecare. Cercheranno appoggi in altri ambienti politici, si affanneranno a screditarla, a renderle la vita difficile, ma non la uccideranno. Almeno non nell’immediato. Ciò potrebbe verificarsi in un secondo tempo per una questione di pura vendetta, ma faremo in modo di renderli del tutto inoffensivi prima che possano eventualmente mettere in pratica questa loro esigenza». «E come pensa di poterlo fare?». «Con l’aiuto della magistratura, da lei peraltro tanto disprezzata nei suoi comizi. Non che io abbia stima di essa, tutt’altro. Faremo in modo di sfruttarla a nostro favore. Ci sono dei “bravi” magistrati» sottolineò sarcastico il banchiere «con i quali intrattengo un rapporto di sincera cooperazione, esattamente come tra lei ed il sottoscritto. Sono certo che sarebbero molto interessati a dar vita a processi decennali a carico dei Surace, naturalmente chiudendo un occhio sui finanziamenti illeciti giunti al suo partito. Comunque, è inutile ora anticipare scenari che andremo ad affrontare successivamente. Ora dobbiamo agire in fretta, non perderci in troppe elucubrazioni. Dopo che un’azione si è pianificata, va attuata con assoluta e cieca determinazione. Costi quel che costi» concluse il banchiere con aria vagamente spiritata. Sforza fece per ricorrere all’esempio dei k******e giapponesi, ma si interruppe. Vedendo lo stato di prostrazione in cui versava Villa gli parve controproducente. L’equilibrio psichico del sindaco era già sufficientemente minato per evocargli immagini che al posto di infondergli coraggio lo avrebbero fatto sprofondare nella cieca disperazione. «La prossima settimana la sua giunta non approverà quel progetto per il quale i terreni, che stanno così a cuore ai suoi finanziatori occulti, diventerebbero oro. I Surace attualmente risultano indagati per una presunta bonifica mai avvenuta, cosa che li sta tenendo un po’ occupati. Le mie fonti mi suggeriscono che ne usciranno pressoché indenni, ma ci vuole del tempo. La macchina della giustizia il più delle volte è agile e veloce come un elefante morente. Noi ne approfitteremo. Lei proporrà, di concerto con la maggioranza, la creazione di un nuovo Parco Agricolo, un’oasi protetta sulla quale non si potrà edificare un solo metro cubo di cemento. Un progetto di largo respiro per la cittadinanza. L’opposizione non potrà che trovarsi favorevole di fronte ad una simile scelta, ma soprattutto lei, Villa, si conquisterà tutti i milanesi, specie quelli che non l’hanno votata. Regalerà loro un parco come si deve. Al tempo stesso denuncerà il pericolo della speculazione edilizia da parte della ’ndrangheta, alla quale dichiarerà una guerra senza esclusione di colpi» stabilì Raoul in tono entusiasta. Villa lo guardava senza riuscire a proferire parola. Faticava a cogliere i possibili scenari che si sarebbero delineati dopo le decisioni prospettategli dal banchiere. Provò ad obiettare, ma senza troppa convinzione. «Sono sicuro che i Surace mi rovinerebbero comunque. Dichiarerebbero di aver finanziato il mio partito e mi trascinerebbero nella loro disfatta». Di fronte a quell’osservazione, Sforza si mostrò meno infastidito del solito. Villa si stava lentamente rassegnando al suo nuovo ruolo, anche se la paura delle conseguenze gli impediva di essere lucido. «La sua osservazione ha un senso, ma non tiene conto di alcuni fattori. I soggetti in questione rifuggono nel modo più assoluto i riflettori, ma vivono perennemente nell’ombra, come il sottoscritto. In genere sono gli imbecilli o coloro che sono mossi da un ego smisurato ad amare la notorietà e ad ambirvi» gli fece notare Raoul. Le sue ultime parole si riferivano, seppur non esplicitamente, anche al suo interlocutore. Non lo riteneva del tutto un imbecille, ma di sicuro un egocentrico patologico. Proseguì: «La loro natura sanguinaria e vendicativa è lungi dal portarli a collaborare con la giustizia e a svelare per intero i loro intrighi. Meglio affrontare un po’ di carcere con la prospettiva di uscirne per poi riorganizzarsi e trovare nuovi referenti politici, naturalmente dopo aver eliminato lei. Ma se il mio ragionamento non le sembra abbastanza convincente, tenga presente che io arrivo dove desidero e posso fare in modo che, come le ho già detto, questo aspetto dei finanziamenti che tanto la preoccupa venga dimenticato anche dai magistrati stessi» fece Raoul. «Le suggerisco vivamente di godersi questo periodo della sua vita e di affrontarlo da autentico condottiero. Si sforzi di riacquistare la verve e il carisma che aveva in campagna elettorale quando riempiva le piazze e arringava la folla in maniche di camicia e occhiali da sole» lo sferzò sarcastico, aggiungendo: «Quest’atteggiamento da menagramo con un piede nella fossa che si ostina a mantenere non è per nulla congeniale all’azione. Se ne sbarazzi». Il banchiere detestava ogni tipo di condotta che denotasse debolezza fisica o mentale, specie in un uomo. Non faceva mistero con nessuno di quanto trovasse ripugnante la pratica del piagnisteo, specie se in pubblico. Villa, non sapendo più cosa dire, si concesse un lungo e disperato sorso di whisky. Vinse il disgusto iniziale e bevve. Sforza lo osservò compiaciuto. Poi guardò l’orologio. Il colloquio era terminato. Il sindaco ora sapeva esattamente che cosa avrebbe dovuto fare. Non c’era altro da aggiungere o altro su cui ragionare. Essendo a stomaco vuoto, avvertì una sensazione di torpore e di illusoria leggerezza che andò ad alleviare, seppur di poco, il fardello che lo opprimeva. Sforza se ne rese conto. «Prima che lei vada, Villa, si ricordi che io le sto dando la possibilità di entrare nella storia. Se non ci fossimo mai incontrati lei a quest’ora sarebbe a scaldare la sua poltrona di primo cittadino, senza una vera prospettiva, preoccupato solo a preservare la sua immagine e il suo indice di gradimento sui social» gli rammentò Raoul calandosi nel ruolo del buon samaritano. Il sindaco fece una smorfia che assomigliava ad un sorriso. «Non mi resta che augurarle una buona giornata» lo congedò Sforza, desideroso di rimanere solo.
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