Capitolo I: Il partigiano Mario-2

1991 Words
“Barba” fece un ghigno. Guardò meglio i tre. Dimostravano una trentina d’anni o poco più. «Agli americani, dici? Non c’è fretta. Adesso ci daranno una mano a portare le casse a destinazione. Poi vedremo se divertirci un po’ con loro...» fece lui, alludendo alla possibilità di torturarli. Uno dei tre, che capiva e parlava l’italiano, chiese che li consegnassero al comando americano. “Barba” scoppiò in una risata sguaiata. Mario, invece, non riusciva a trovare nulla di divertente in quella situazione. Voleva comportarsi da soldato, non da aguzzino. «Zitti. Fate quello che vi dico e non vi succederà niente» tagliò corto “Barba”. I tre non ebbero scelta. Afferrarono le casse, aiutati anche da due partigiani, e si misero in cammino. Imboccarono un sentiero che saliva nel bosco. “Barba” era in testa, fucile mitragliatore a tracolla, seguito dagli altri. Dopo una ventina di minuti giunsero ad una vecchia casa abbandonata. La famiglia che l’abitava era stata portata via dai tedeschi qualche mese prima con l’accusa di aver aiutato i partigiani. “Barba” fece sistemare le due casse nella stalla vuota, adagiandole sulla paglia rimasta, là dove un tempo c’erano tre mucche e qualche gallina. Anche gli animali erano stati portati via. “Barba” si accese una sigaretta e stabilì i compiti. Guardò Mario con uno strano sorriso. «Visto che ci tieni tanto a consegnare questi tre maiali agli americani, mi sta bene. Te ne starai qui a guardarli insieme a me. Sappi però che se tentano di fare i furbi li ammazzo» disse con aria sicura di sé. A Mario stava bene. «Voialtri andate al bosco della Tecosa. Riferite a “Donnola” e a “Libero” che ho due casse, ma che devono venire qui a prenderle. Siamo intesi?». Nessuno dei presenti si oppose alla richiesta. L’azione era terminata velocemente e senza alcuno spargimento di sangue. Ormai tutti avevano la certezza che la guerra era finita e che il tempo di deporre le armi era giunto. Fu così che il gruppo si mise rapidamente in marcia verso Bargagli. Mario e “Barba” avrebbero passato lì qualche ora prima che gli altri arrivassero. Fecero mettere i tedeschi seduti nella stalla; “Barba” legò loro mani e piedi con del filo spinato recuperato da una staccionata divelta. Mario avrebbe preferito usare delle corde, ma l’altro fu inflessibile. «Così staremo tranquilli» disse “Barba”. Nessuno dei tedeschi si lamentò. I due partigiani si misero sulla porta della stalla da dove potevano tenere d’occhio le casse e i tre prigionieri. Si sedettero uno di fronte all’altro, ai lati della porta; Mario appoggiò lo Sten al muro. «Ma davvero quei soldi non valgono più niente?» chiese il ragazzo. “Barba” non rispose. Gli lanciò uno sguardo torvo, come se la domanda fosse fuori luogo e lo avesse infastidito. Poi tornò a farsi prima indifferente e subito dopo addirittura ciarliero. «Di dove sei?» chiese a Mario, cambiando argomento. «Genova. Boccadasse, per l’esattezza» rispose il ragazzo. «Il posto con le case colorate che sembrano finte» commentò l’altro annuendo. Poi tirò fuori dal taschino della camicia color kaki un logoro pacchetto di sigarette inglesi. Ne accese una e l’allungò a Mario. «Fatti un tiro…» gli disse, accennando un sorriso. Mario, titubante, la prese. Aveva fumato solo qualche volta la pipa. Aspirò a fondo la prima boccata e tossì violentemente. Per alcuni secondi fu preda di una tosse incontrollabile che lo costrinse ad alzarsi in piedi. “Barba” scoppiò a ridere. «L’avevo capito che eri uno di città» commentò sarcastico. Mario gli ridiede la sigaretta. Per qualche tempo non parlarono. “Barba” sembrava assorbito dai suoi pensieri e dal fumo, poi tornò a rivolgergli la parola. «Perché ti stanno così a cuore quei tre lì?». «Non è che mi stanno a cuore. Però sono dei prigionieri e come tali vanno trattati. “Bisagno” ci ha insegnato che...». «Sei anche tu uno che pende dalle labbra di “Bisagno”? Che lo considera un eroe?» lo interruppe “Barba” con tono astioso. Mario si mise sulla difensiva. Aveva passato molto tempo al fianco di “Bisagno”, uno dei partigiani più coraggiosi in battaglia, nonché comandante della brigata Cichero alla quale il giovane era aggregato. «Bisagno ci ha insegnato a combattere con onore, a essere diversi da loro. Noi siamo soldati, non assassini» precisò Mario, infastidito dal tono irrispettoso di “Barba”. «Intanto “Bisagno” a quest’ora è a Genova a prendersi gli onori e noi siamo qui sulle montagne. La guerra non è finita. Ci sono ancora molti conti da regolare» ribatté “Barba”, guardandolo di sottecchi. Tra i due non sarebbe potuto correre buon sangue. Era chiaro che avevano modi opposti di vedere le cose. A Mario quel compagno non piaceva già da prima, per i suoi modi di fare sempre sopra le righe, per quella violenza verbale che ostentava con compiacimento. Mario era contento di aver dato una mano in quell’azione, ma capiva che, guerra a parte, non avrebbe mai avuto niente da spartire con gente come quella. In quei due anni aveva avuto modo d’imparare che non tutti erano come il suo comandante. Altre formazioni, seppur alleate nella causa comune contro i nazifascisti, avevano un modo di operare non sempre limpido. Ripensò alle voci che da mesi circolavano su certi personaggi che agivano proprio a Bargagli. Gente confluita da poco nella Resistenza, e dedita al mercato nero. Figuri che si tenevano ben lontani dagli scontri con le forze di occupazione, ma che lucravano sulla fame e sulla disperazione della povera gente. Delinquenti comuni approdati tra i partigiani per sopravvivere, privi di ogni ideale e mossi solo dal tornaconto personale. Si chiese se “Barba” fosse uno di loro, tanto più che veniva da Bargagli. Ripensò poi con orgoglio al codice, scritto da “Bisagno” stesso e chiamato Codice di Cichero, al quale ci si doveva attenere per rimanere a combattere tra le sue fila. Poche regole, semplici, ma fondamentali per dimostrarsi partigiani e non briganti: “In attività e nelle operazioni si eseguono gli ordini dei comandanti, ci sarà poi sempre un’assemblea per discuterne la condotta; il capo viene eletto dai compagni, è il primo nelle azioni più pericolose, l’ultimo nel ricevere il cibo e il vestiario, gli spetta il turno di guardia più faticoso; alla popolazione contadina si chiede, non si prende, e possibilmente si paga o si ricambia quel che si riceve; non si importunano le donne; non si bestemmia”. «Vedi questa casa?» riprese “Barba”, concentrato sulla sua sigaretta. «Quelli che ci abitavano erano una famiglia di contadini. Padre, madre, due bambini. Gente che ha sempre vissuto del poco che aveva. Durante l’autunno dell’anno scorso quelli che tu rispetti sono venuti qui. Italiani e tedeschi. Hanno portato via tutto. A quest’ora quelle persone saranno certamente morte da mesi, in qualche campo in Germania. E tu mi parli di prigionieri o altre belinate...». Mario non rispose. Non sapeva che cosa dire o forse non aveva voglia di discutere. “Barba” era uno di quelli per i quali non c’erano regole, non esisteva un codice d’onore, ma solo la sete di vendetta. Non riuscì a dargli del tutto torto. Ne comprese le ragioni, ma non poteva giustificarlo proprio in virtù di quei principi e ideali di libertà e di giustizia per cui avevano rischiato la vita. “Barba”, terminata la sigaretta, si alzò. «Vado a pisciare» disse, passando accanto a Mario. Lo superò e andò appena dietro la casa. Tornò dopo aver fatto il bisogno. Mario ne sentì i passi. Fece per chiedergli quanto tempo, secondo lui, ci sarebbe voluto perché arrivassero i suoi compagni dal bosco della Tecosa. Mario non vedeva l’ora di poter rientrare nella sua città finalmente liberata. Uno sparo raggiunse la testa del ragazzo, che si afflosciò su se stesso come un fantoccio inanimato. Le pietre del muro si tinsero del suo sangue. Schizzi ovunque, frammenti d’ossa e cervello. “Barba” gli sparò un altro colpo con la Beretta 34, questa volta alla schiena. Il ragazzo era già morto, ma a lui non importava. Rimase a guardare il sangue che fuoriusciva dal cranio, andando a formare una pozza scura e densa sull’erba verde che sapeva di primavera. Dall’interno della stalla i tre tedeschi avevano assistito alla scena. Nessuno di loro disse una parola. Guardavano “Barba” come se avessero già compreso il destino che li attendeva. L’uomo, a passi lenti, con ferocia, si avvicinò loro sorridendo. Altri spari, urla soffocate e poi più niente. “Barba”, rimasto solo, ripose la pistola nella fondina. Aveva fatto ciò che fin dall’inizio aveva voluto e ora si sentiva alleggerito di un peso. Tenendo la Breda a portata di mano, nel caso in cui qualche curioso si facesse vivo, aprì nuovamente le casse. Ne saggiò con calma il prezioso contenuto. Prima che arrivassero gli altri guardò tra le banconote arrotolate. C’erano tagli da cinquecento e da mille lire. Tutti recanti la dicitura “Riserva numeraria Banca d’Italia”. Ne prese alcune e le nascose sul fondo del tascapane. Nessuno si sarebbe accorto della loro mancanza. Richiuse poi le casse e attese che gli altri compagni di Bargagli lo raggiungessero. Si augurò che tutto filasse liscio, senza intoppi anche per loro. Non poteva sapere che a pochi chilometri da lì le cose erano andate anche meglio del previsto. Il resto della colonna tedesca, composta da cinque camion e altri pochi mezzi di trasporto, tra cui muli e cavalli, era arrivata in frazione di Maxena di Bargagli. Qui si era incontrata con gli americani della divisione Buffalo. I tedeschi e gli italiani erano stati disarmati, ma era stato concesso loro l’onore delle armi. Gli ufficiali avevano potuto tenere le pistole d’ordinanza. La colonna aveva proseguito fino a Pannesi di Lumarzo, dove però si era generato il caos. La strada era troppo stretta per il passaggio dei mezzi, che uno dopo l’altro si erano bloccati. Uno dei sei camion tedeschi si era perso ed era giunto dritto a Uscio, dove era stato intercettato da “Barba” e dai suoi uomini. Impossibilitati a proseguire a bordo dei mezzi, i tedeschi avevano continuato a piedi, lungo il bosco della Tecosa. Alcuni civili, incuriositi dai movimenti di truppe e di mezzi, avevano raggiunto il convoglio di autocarri appena abbandonato dai soldati in fuga. Tra loro c’erano i compagni di “Barba”, pronti a intervenire. Non avevano avuto bisogno di sparare un solo colpo. Prese le case, le avevano caricate su dei muli. Il carico era stato così messo al sicuro con tutta calma. Qualcuno dei presenti che abitava lì vicino aveva chiesto di vedere che cosa ci fosse in quelle che sembravano essere casse di munizioni che stavano portando via così di fretta. Il gruppo di Bargagli aveva messo in atto la stessa messinscena adottata da “Barba” e concordata in precedenza. Alcune banconote erano state stracciate di fronte agli occhi increduli della gente. Era stato detto loro che erano soldi da bruciare, moneta fuori corso ormai priva di valore. Nessuno aveva avuto il coraggio di protestare o dire altro. Quei partigiani o presunti tali erano ben armati e c’era poco da discutere in quei frangenti. “Libero”, “Donnola”, “Vento” e “Saetta” avevano organizzato il trasporto delle casse a Bargagli. Con loro c’erano altri tre ragazzi provenienti dal gruppo di Mario, che erano stati poi congedati frettolosamente. Terminata l’azione non c’era più stato bisogno di loro ed erano potuti tornare a casa. In quel clima di confusione, stanchezza, euforia per la fine della guerra non c’era tempo per i sospetti. Da allora, di quell’incredibile tesoro si persero le tracce. Nessuno ne seppe più nulla. E chi aveva visto o sentito qualcosa, preferì non rivangare più quella vecchia storia.
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