Capitolo I: Il partigiano Mario-1

2003 Words
Capitolo I Il partigiano MarioUscio, Val Fontanabuona. 27 aprile 1945 Mario, acquattato dietro al grande albero di castagno dal fusto alto e dalla corteccia gibbosa, percepiva i battiti del suo cuore alla stregua di un rullo di tamburo a cui non poteva sottrarsi. Il suono incessante e ritmico, proveniente dal suo petto, gli rimbombava arrivando fino alle tempie. Quel giorno il sole era già alto, ma lì, nel profondo del bosco, faceva ancora freddo. L’aria era pungente, specie durante le prime ore del giorno e al calar della sera. Il fitto intrico di rami e foglie schermava la luce, soffocandola tra le chiome e affievolendola prima che giungesse a terra. Addirittura, in alcuni punti di quella secolare selva era come se il giorno avesse ceduto il passo ad un eterno crepuscolo. Il ragazzo si sforzava di mantenere la calma, di controllare il naturale senso di paura, simile ad un mucchio di pietre, che lo teneva ancorato a terra, quasi schiacciato. Con le mani impugnava saldamente lo Sten, sentendone il freddo del copricanna traforato che teneva con la mano sinistra. La destra era pronta a sparare, con l’indice sul grilletto. Abbondanti rivoli di sudore gli scendevano lungo la schiena formando un alone scuro sulla camicia. Era spaventato, proprio come le altre volte in cui si era ritrovato nella medesima situazione. Al tempo stesso era consapevole che nel momento in cui sarebbe iniziata l’azione ogni indugio sarebbe scomparso. Il suo senso del dovere era più forte di ogni tentennamento. Sapeva di essere lì in appoggio ad altri che avevano i suoi stessi ideali, partigiani come lui. Quando c’era da dare una mano non si tirava mai indietro. Anche quella volta si era offerto volontario. Raggiunta la posizione, l’attesa era sempre la stessa, lunga e snervante, tanto che si rischiava di perdere la cognizione del tempo. Insieme ai suoi compagni era giunto lì alle prime luci dell’alba. Si erano incontrati con un altro partigiano, uno di Bargagli, nome di battaglia “Barba”, che avrebbe dovuto coordinare l’azione. Mario si era offerto di parteciparvi. Doveva essere un’imboscata a truppe tedesche in fuga, ormai allo sbando. Non era neppure cosa certa che sarebbero passati da quella strada, ma quelli che da Bargagli coordinavano l’azione avevano stabilito che alcuni uomini si posizionassero lì a Uscio, nel caso che la colonna si dividesse o si verificasse qualche imprevisto. L’ordine era quello di arrestarne la fuga a qualsiasi costo. In quella febbricitante attesa Mario ebbe modo di ripensare a tutto quello che era accaduto in quegli ultimi giorni durante i quali le forze di liberazione avevano lanciato la loro controffensiva finale. Dopo due anni passati in uno stato di semi isolamento, combattendo e cercando di sopravvivere in montagna, la vittoria era prossima. Le voci che arrivavano dalla vicina Genova parlavano di una città in cui tedeschi e fascisti avevano le ore contate. Le attività di sabotaggio e di guerriglia da parte delle formazioni partigiane si erano infatti intensificate e da un momento all’altro sarebbero arrivati gli Alleati. Le poche formazioni rimaste fedeli alla Repubblica Sociale Italiana rimanevano sul campo, ma non avevano più la capacità operativa di un tempo. Tra i partigiani della Val Bisagno c’era un’euforia mai vista prima. Il 23 aprile era dunque scattata la più grande operazione mai messa in atto dalla Resistenza, che avrebbe poi generato un’insurrezione di massa. La Brigata Balilla era stata la prima ad entrare in città, nella zona di Sampierdarena. Contemporaneamente le linee telefoniche e della corrente elettrica erano state fatte saltare per isolare la città. Le truppe di occupazione avevano risposto prontamente, ma l’attacco partigiano era perfettamente riuscito anche grazie al coraggio della popolazione. I camalli del porto, mettendo a rischio la loro stessa vita, si erano adoperati per disinnescare gli ordigni che i tedeschi erano pronti a far brillare per distruggere le infrastrutture portuali. Il capitano di vascello Max Berninghaus, che comandava la zona marittima, era pronto a qualsiasi azione pur di non cedere il terreno ai ribelli. In città si verificarono aspri scontri che proseguirono per tutta la durata del giorno successivo. Il porto però rimaneva uno dei primi obiettivi dei partigiani. Si combatteva quartiere per quartiere, strada per strada, spesso nella più totale confusione. Sempre nella giornata del 24 aprile il carcere di Marassi venne preso, permettendo la liberazione dei detenuti politici che si unirono subito all’insurrezione. Nella notte tra il 24 e il 25 aprile i partigiani rimasti sulle alture riuscirono ad avere la meglio sulle ultime postazioni tedesche insediate nei forti, impedendo loro di usare l’artiglieria. Il 25 aprile fu la giornata decisiva. Le forze tedesche superstiti erano completamente accerchiate ed impossibilitate alla fuga verso il Piemonte. A quel punto, il CLN ed il cardinale Boetto, in autonomia ma in pieno accordo, interpellarono il generale Günther Meinhold, comandante di tutte le truppe tedesche presenti in città. La resa dipendeva soltanto da lui. Alle 19:30 dello stesso giorno l’ufficiale tedesco la firmò a Villa Migone. Il dispaccio, indirizzato a tutti gli ufficiali, venne diffuso via radio dallo stesso generale alle 4:30 del mattino successivo. Nelle ore seguenti la maggior parte dei tedeschi si arrese. Solo pochi irriducibili tentarono ancora di combattere. In serata però la città era sotto il pieno controllo dei liberatori, mentre le prime avanguardie militari alleate vi entravano, stupite dall’ordine che già vi regnava. Mario si sentiva testimone di accadimenti più grandi di lui, cambiamenti ai quali aveva deciso di partecipare in prima persona. Dopo che suo fratello maggiore non era più tornato dal fronte russo, di fronte alla chiamata alle armi aveva preso la decisione di darsi alla macchia. Nel novembre del 1943 non si era presentato agli uffici di reclutamento della Repubblica Sociale Italiana ed era salito in montagna. Dalla natia Genova, in cui viveva con la famiglia, si era unito alle consistenti forze partigiane che operavano in Val Bisagno. Si era aggregato ad un gruppo di altri giovani come lui, quasi tutti genovesi, che combattevano agli ordini del comandante Aldo Gastaldi, nome di battaglia “Bisagno”. C’erano renitenti alla leva, universitari, qualcuno più anziano che aveva combattuto sui fronti ed era tornato. Tra quelle montagne a lui sconosciute, Mario aveva trovato una seconda famiglia, uomini con i suoi stessi ideali di libertà e di giustizia, determinati a non arrendersi. Gli inverni del ’43 e del ’44 erano stati durissimi. La vita in montagna si era rivelata estremamente difficile per i ribelli, ma grazie alla coesione con i propri compagni anche i momenti peggiori erano stati superati. Il gruppo di Mario operava nell’alta Val Bisagno, con qualche puntata fino al monte Antola o in Val Trebbia. Avevano sempre goduto dell’appoggio della popolazione civile stremata dagli anni della guerra. In ogni paese o frazione potevano contare sull’aiuto di qualcuno. Avevano vissuto nei boschi, in casoni abbandonati, in vecchi seccatoi. Durante i pochi, ma intensi rastrellamenti, avevano imparato a utilizzare giacigli di fortuna, a spostarsi rapidamente, senza mai rimanere più di un giorno nello stesso posto. Del gruppo di Mario, composto da una ventina di uomini, solo in tre non ce l’avevano fatta. Raggiunti dai tedeschi supportati dagli alpini della Divisione Monterosa che operava in zona, erano stati catturati e fucilati nel bosco della Tecosa, vicino a Bargagli. Ora che Genova era stata liberata e la guerra era finita, la consegna che Mario aveva avuto era stata di rimanere ancora in montagna, per sicurezza. In quelle ore di attesa, però, era giunta la richiesta di partecipare a quell’azione mirata a bloccare la colonna in partenza da Recco. Ora Mario era lì, trepidante, pronto ad entrare in azione per l’ultima volta, determinato a compiere il suo dovere fino in fondo. Avevano munizioni a sufficienza e alcune bombe a mano. Si erano appostati in un punto adatto dal quale potevano controllare la strada e verificare l’entità delle truppe. Quando Giovanni fece due brevi fischi, Mario si preparò. Abbandonò il suo nascondiglio, rimanendo al riparo della vegetazione. Anche gli altri accanto a lui si mossero, guardinghi. Giovanni fece cenno di avvicinarsi per osservare. Con sorpresa si accorsero che un solo mezzo stava sopraggiungendo dalla valle. Era un camion tedesco che procedeva a bassa velocità, incerto, come se il guidatore non fosse sicuro della strada. I partigiani non esitarono. Quando fu a portata di tiro lanciarono le prime bombe a mano, che esplosero a pochi metri dal mezzo. Una colpì la parte anteriore del veicolo, distruggendone la gomma. Il guidatore frenò, sbandando vistosamente. Il camion si fermò di traverso, messo fuori uso dall’assalto. Seguì uno sventagliare di mitra, raffiche brevi contro il muso e verso il cassone posteriore. Un gruppo di assalitori prese di mira proprio il retro-telonato, temendo che a bordo vi fossero soldati in grado di rispondere al fuoco. In realtà non c’era nessuno: a bordo stavano solo l’autista e altri due accompagnatori. Il crepitio dei colpi cessò quasi subito. L’aria si era fatta acre per l’odore della polvere da sparo e per le deflagrazioni. Fu “Barba” a prendere di petto la situazione. Puntando il suo mitragliatore Breda modello 1930 contro gli occupanti, urlò loro di scendere. Si esprimeva in un tedesco elementare, ma efficace. Conosceva poche parole, ma utili in quei frangenti. I tre soldati della Wehrmacht non avevano l’aria di chi volesse tentare una reazione. Erano frastornati e miracolosamente illesi, ma consapevoli che la loro fuga era finita. A parte le pistole che tenevano nei cinturoni, non avevano altro con cui difendersi. Se fossero stati elementi delle famigerate Waffen-SS non ci sarebbe stato da fidarsi, ma quelli erano soldati allo sbando che volevano solo portare a casa la pelle. I tre scesero dal mezzo alzando le mani. “Barba”, che era poco più di un ragazzo, ma aveva già avuto il suo battesimo del fuoco, li fece sdraiare a terra. Con l’aiuto degli altri li disarmò e ordinò di tenerli sotto tiro. Poi saltò sul retro del camion per perquisirlo. Voleva essere da solo per verificare che l’informazione giuntagli qualche giorno prima fosse corretta. Trovò due casse, e ci mise poco ad aprirle. Alla vista dell’interno, fu colto da un senso di stupore. La prima cassa conteneva oro: lingotti, monete, gioielli di ogni tipo. Una quantità di metallo prezioso mai neppure immaginata in vita sua. Si trattava di parte dei beni che tedeschi e fascisti avevano requisito agli ebrei durante gli anni dell’occupazione di Chiavari e delle zone limitrofe. L’altra cassa non era da meno: in essa erano riposte ordinatamente intere mazzette di banconote insieme a sterline d’oro. Quei soldi erano appartenuti alla brigata nera “Silvio Parodi”. Si diceva che fossero una sorta di tesoro accumulato e usato dai militi della “Parodi” per elargire ricompense a spie e delatori. “Barba” richiuse soddisfatto le casse e ne organizzò immediatamente il trasferimento. Mario, insieme ad un altro, rimase di guardia ai soldati tedeschi catturati che non sembravano intenzionati a reagire. Stavano lì, immobili, gli occhi a terra, in attesa del loro destino. Mentre gli altri calavano a terra le casse, una di queste per poco non cadde. Il coperchio, già rimosso da “Barba”, si spostò rivelando le banconote. Fra i presenti calò il gelo. Gli sguardi erano increduli. “Barba” intervenne con fare deciso, consapevole di incutere un certo timore. «Che avete da guardare?!? Questa roba è carta straccia, fuori corso» sbraitò, prendendo alcune banconote e stracciandole davanti agli altri. «Dobbiamo portarla a Bargagli. Vogliono che si bruci tutto, su al comando. Non statevene con le mani in mano. Togliamole da qui!» disse con fare imperioso. Mario, che non aveva visto niente perché si trovava davanti alla parte anteriore del camion, udì però gli ordini. Comprese che avevano trovato qualcosa di importante che andava portato lontano, in un posto sicuro. Il gruppo si preparò a sgombrare la strada. «E di questi cosa ne facciamo? Li consegniamo agli alleati?» chiese Mario, incerto sul da farsi: forse avrebbero dovuto portarli prima a Bargagli e da lì a Genova, oppure direttamente in città, o al primo punto di controllo alleato.
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