I. Il mercante
I. Il mercanteSir Oliver Tressilian se ne stava comodamente seduto nella sala da pranzo della sua magnifica dimora di Penarrow, che egli doveva alle imprese del padre, di deplorata e deplorevole memoria, nonché all’abilità e allo spirito inventivo di un ingegnere italiano, un certo Bagnolo, recatosi in Inghilterra mezzo secolo prima, in qualità d’aiutante del famoso Torrigiani.
Qui è bene fare, sia pure di sfuggita, breve cenno di quest’edificio, veramente singolare per la sua grazia italiana, nascosto in quell’angolo remoto della Cornovaglia.
L’italiano Bagnolo, che a un indiscutibile talento artistico abbinava un carattere eccessivamente impetuoso, aveva avuto la sfortuna di uccidere un uomo, durante una rissa avvenuta in una taverna di Southwark. Compiuto il delitto, era fuggito dalla città, né aveva sostato nella sua fuga se non dopo avere raggiunto quell’estremo lembo dell’Inghilterra. In quali circostanze era egli allora venuto a contatto col vecchio Tressilian lo ignoriamo. Sta il fatto che Ralph Tressilian – il quale, secondo le voci che correvano, aveva sempre tradito una speciale inclinazione per la compagnia dei furfanti, d’ogni categoria – gli aveva offerto ricovero; e Bagnolo aveva voluto ricompensarlo di quel servigio mettendosi a disposizione di lui per la riedificazione della sua casa di Penarrow, già a metà diroccata.
Assuntasi l’impresa, l’ingegnere vi aveva consacrato tutto il suo entusiasmo; ed era riuscito a costruire per il suo protettore una dimora giudicata unanimemente una meraviglia di grazia, rispetto a quell’epoca così rozza e a quell’angolo così remoto. Sotto la vigilanza immediata dell’italiano – degno socio di messer Torrigiani – era sorta presto, infatti, una magnifica casa a due corpi, in cui l’aria e il sole entravano abbondantemente da molte spaziose finestre bifore. L’ingresso principale era stato praticato in una prominenza dell’edificio, sotto una balconata massiccia, sormontata alla sua volta da un frontone d’una grazia squisita, ora in parte rivestito di rampicanti; e, sul tetto a tegole rosse, artistici camini aggiungevano maestà al sontuoso edificio.
Ma la gloria di Penarrow – cioè del nuovo Penarrow concepito dal fertile ingegno di Bagnolo – era il giardino, foggiato in breve tempo nei poggi silvestri che coronavano la ricca dimora. Certo, il tempo e la natura avevano coadiuvato nel miglior modo l’opera dell’ingegnere. Questi, dopo aver abbozzato il grandioso progetto, aveva vegliato attentamente sulla costruzione di quel giardino, che egli aveva voluto a tre ripiani limitati ciascuno da una balaustra di marmo e comunicanti tra loro per mezzo di graziose gradinate; e, dopo aver ideato la fontana artistica che doveva decorarlo, aveva di propria mano scolpito il Fauno di granito che doveva troneggiare fra le altre dodici statue di ninfe e di deità silvestri, sparse qua e là tra il verde degli alberi e dei cespugli. Poi il tempo e la natura avevano dato alle aiuole la loro superficie vellutata, e avevano favorito in modo speciale lo sviluppo delle piante, degli arbusti e delle siepi e particolarmente di quei pioppi neri che con la loro snellezza contribuivano tanto a dare un aspetto italiano a quella dimora della Cornovaglia.
Da una finestra della sala da pranzo, dunque, sir Oliver contemplava con occhio soddisfatto tutto questo insieme di bellezza; e, forse per la centesima volta, si ripeteva che la vita era degna di essere vissuta. Ora, è raro che, senza un motivo speciale, senza una qualche causa ben forte, un uomo faccia della vita un simile apprezzamento. Ma sir Oliver aveva parecchie ragioni per farlo. Anzitutto, anche se sembrava difficile da sospettare, si sentiva giovane, forte e sano, e si sapeva ricco; in secondo luogo si era meritato onori e fama nelle imprese contro la Invincibile Armada – o per meglio dire, nel saccheggio di ciò che restava dell’Invincibile Armada – sì che a venticinque anni era stato nominato cavaliere dalla Regina Vergine; il terzo motivo per il suo buon umore – l’ho lasciato per ultimo perché lo ritengo il posto giusto per il fattore più importante – era Cupido, il dio capriccioso, che gli dimostrava ora, per la prima volta, una benevolenza speciale, facendo sì che la sua corte assidua fosse accettata e gradita da Rosamund Godolphin. Quest’ultimo fatto, anzi, più che gli altri due succitati, era la ragione principale di quel lusinghiero apprezzamento della vita che sir Oliver si era permesso.
Affondato nell’ampia poltrona di legno scolpito, con le gambe distese in un beato atteggiamento di riposo, il nostro gentiluomo sorrideva sotto i sottili baffetti neri (Il suo ritratto a opera di Lord Henry risale a un periodo molto successivo). Aveva egli appena terminato di pranzare, come testimoniava la tavola ingombra ancora degli abbondanti residui del pasto. Aspirò pensieroso da una lunga pipa – perché aveva preso la nuova abitudine di darsi al tabacco – sognando la sua innamorata, ed era felice di poter offrire all’amata Rosamund un titolo e una certa fama.
Sir Oliver era un uomo intelligente e abbastanza istruito; ma né l’innata accortezza, né le cognizioni acquistate sembravano avergli insegnato che, fra tutte le divinità che reggono i destini degli umani, nessuna è certamente più ironica e più maliziosa di quel Cupido in onore del quale egli ora bruciava l’incenso della sua pipa. Gli antichi diffidavano di questo dio in sembianze di fanciullo, ritenendolo empio e crudele; ma il signore di Penarrow non divideva tale saggia opinione, forse perché non aveva avuto modo di giudicarla per esperienza propria. Eppure era scritto che egli dovesse ricredersi quasi in quello stesso istante in cui, con gran compiacimento, ammirava il proprio giardino inondato di sole.
D’improvviso, infatti, un ombra si stagliò sulla terrazza. Sir Oliver la vide, ma non pensò affatto che potesse essere il simbolo di quell’altra ombra che stava per cadere sullo sfolgorante meriggio della sua vita.
Passata l’ombra, apparve la figura; la figura di un giovane alto e gaio, dal viso in parte coperto da un grande cappello spagnolo nero a piume rosse. Agitando un bastone a lunghi nastri, quell’individuo passò davanti alla finestra, camminando risolutamente come il Destino.
Il sorriso svanì sulle labbra di sir Oliver; il suo volto divenne pensieroso, le sue sopracciglia nere si contrassero, lasciando tra loro un breve solco profondo. Poi, lentamente, il sorriso tornò sulle labbra del gentiluomo; ma era un sorriso che non aveva nulla a che fare con quello di poco prima; era un sorriso risoluto, che trasformava quel volto, nei cui occhi accendeva un bagliore beffardo, quasi malvagio.
Nick, il servo, entrò nella sala da pranzo per annunciare il signor Peter Godolphin; e subito quest’ultimo apparve alle calcagna del servitore e, giunto sulla soglia, si fermò e s’appoggiò sul bastone, tenendo sempre in capo il cappello piumato.
Il nuovo venuto era un giovanotto alto, snello; rasato in volto, dall’aspetto altero. Come sir Oliver, aveva il naso intrepido e prominente. Dimostrava due o tre anni meno di lui; portava i capelli bruni un po’ più lunghi di quanto lo esigesse la moda del tempo; ma nell’insieme non si poteva dire che fosse molto più affettato dei giovanotti della sua età.
Sir Oliver si alzò e s’inchinò con l’alta persona per dare il benvenuto all’ospite; ma uno sbuffo del fumo della sua pipa andò alla gola del suo grazioso visitatore, obbligandolo a tossire e a fare una smorfia.
«Mi accorgo che avete presto questa detestabile abitudine!», osservò questi.
«Ne avevo altre più detestabili!», ribatté il padrone di casa.
«Non ne dubito…», rispose il signor Godolphin, dando con quelle parole un indizio delle sue disposizioni di spirito e del carattere ostile della sua visita.
Sir Oliver frenò una risposta che avrebbe aiutato l’ospite a uscire dai gangheri anche prima di quando si fosse proposto; e si limitò a dire ironicamente:
«Spero, quindi, che vorrete indulgere ai miei difetti! Nick, una sedia per il signor Godolphin, e un bicchiere. Siete il benvenuto a Penarrow, caro Peter».
Un sogghigno beffardo illuminò la faccia del visitatore.
«Intendete farmi un complimento, signore», disse egli; «ma temo di non potervelo ricambiare!»
«Ne avrete tutto il tempo quando verrò a chiedervelo!», fece l’altro, con pacatezza.
«Quando verrete a chiedermelo?»
«Sì: quando verrò a chiedere ospitalità nella vostra casa», spiegò sir Oliver.
«Ebbene: è appunto per discutere su questo argomento, che son venuto!»
«Volete accomodarvi?»
Sir Oliver additò la poltrona che Nick aveva spostato: poi congedò il servitore.
Peter Godolphin non raccolse l’invito; e disse:
«Ho saputo che ieri siete stato a Godolphin Court».
S’interruppe; e, siccome sir Oliver non negò, aggiunse seccamente:
«Ebbene; son venuto per informarvi che l’onore che avete inteso rendermi con la vostra visita è di quelli che tutti desideriamo dimenticare!»
Sir Oliver impallidì, tanto fu lo sforzo che dovette fare per conservare la padronanza di sé; poi rispose lentamente:
«Credo che comprenderete, Peter, di aver detto troppo, a meno che non crediate di dover aggiungere qualche altra cosa».
S’interruppe alla sua volta; poi, fissando bene il suo visitatore, aggiunse:
«Non so se Rosamund v’ha detto che ieri m’ha fatto l’onore d’acconsentire a diventare mia moglie».
«Rosamund è una bambina che non sa rendersi conto di quel che vuole e di quel che non vuole!»
«Avrebbe qualche ragione speciale», interruppe l’altro, «per cambiare opinione?»
Peter Godolphin si sedette, incrociò una gamba sull’altra, depose il cappello sul ginocchio, e finalmente rispose:
«Una ragione speciale?… Io ne conosco una dozzina, per lo meno! Ma è inutile insistere su ciò! Vi basti ricordare che mia sorella ha soltanto diciassette anni e che sir John Killigrew e io siamo i suoi tutori. Ora, né io né sir John vogliamo acconsentire a questo fidanzamento!»
«Numi del cielo!», esclamò Oliver. «Chi ha mai domandato il vostro consenso o quello di sir John?… Con la grazia di Dio, vostra sorella diventerà presto padrona di sé. Non ho fretta di sposarmi; e anche voi, poco fa, avete avuto modo di notare che sono un uomo meravigliosamente paziente. Aspetterò».
E lanciò in aria una boccata di fumo.
«L’aspettare non vi gioverà a nulla, sir Oliver! È meglio venire subito a una conclusione, e intendercela. Sir John e io siamo risolutissimi».
«Davvero?… Ebbene: mandate qui sir John perché mi esprima le sue risoluzioni; e io gli parlerò delle mie! Intanto, ditegli per mio conto, Peter Godolphin, che, se egli non si prenderà il disturbo di venire a Penarrow, farò io per lui quel che il giustiziere avrebbe dovuto fare da un pezzo: gli mozzerò le orecchie con le mie mani!»
«Intanto», riprese Godolphin, con fare provocatorio, «non vorreste mostrare sulla mia persona di che cosa siete capace?…»
«Sulla vostra persona?», ripeté sir Oliver, guardandolo con disprezzo e con bonarietà a un tempo. «Non sono uno scannatore d’uccelli, ragazzo mio! E poi, voi siete fratello di vostra sorella; e non è mia intenzione aggiungere altri ostacoli a quelli che già incontro sulla mia strada!»
Poi, cambiando tono, e sporgendosi sulla tavola, aggiunse:
«Via, Peter, parlate chiaro! Che c’è in fondo a tutto ciò? Non possiamo eliminare quelle divergenze che credete esistano? Esponetele. Non è con quell’avaraccio di sir John che devo trattare; e per mio conto non lo calcolo affatto. Per quanto riguarda voi, invece, la cosa è diversa. Siete suo fratello. Fuori dunque queste ragioni! Siamo franchi a vicenda, e cerchiamo d’essere amichevoli!»
«Amichevoli?», fece l’altro, ghignando. «I nostri genitori ci hanno dato un buon esempio, in fatto di amicizia!»
«Che importa quel che hanno fatto i nostri padri? Vergogna a loro se, essendo vicini, non son riusciti a essere amici! Dobbiamo forse seguire il loro deplorevole esempio?»
«Non vorrete insinuare che la colpa fosse di mio padre!», esclamò Peter Godolphin, rosso di collera.
«Non insinuo nulla, ragazzo mio! Dico: vergogna a entrambi!»
«Miserabile! Insultate un morto!»
«Se quel che ho detto è un insulto, lo è per entrambi. Ma non ho inteso insultare alcuno. Condanno un errore che ormai anche i nostri genitori sarebbero pronti a riconoscere, se potessero tornare in vita».
«Allora, signore, limitatevi a condannare la condotta di vostro padre, col quale nessun uomo d’onore ha potuto vivere in amicizia…»
«Piano, piano, mio buon signore!»
«Non è il caso di dire “piano”!», interruppe Godolphin. «Ralph Tressilian era il disonore e lo scandalo della regione! Non esiste villaggio, tra qui e Truro o tra qui e Helston, in cui il tipico naso dei Tressilian, riprodotto in un’infinità di esemplari, non parli da solo della dissolutezza e del libertinaggio di vostro padre!»
Gli occhi di sir Oliver si socchiusero; poi egli sorrise, e pacatamente osservò;
«Mi domando, allora, da chi avete ereditato quel naso, voi. A chi lo dovete?»
Peter Godolphin balzò in piedi; e, fremente d’ira, spinse bruscamente la poltrona. Poi, battendo il pugno sulla tavola, ruggì:
«Insultate la memoria di mia madre, signore!»
Sir Oliver rise, e disse:
«Ho voluto cercare di contraccambiare quei complimenti che avete prodigato alla memoria di mio padre».
Il giovine Godolphin fissò per un istante il suo ospite, senza parlare. L’ira lo accecava; e, cedendo al proprio furore, alzò il bastone e colpì sir Oliver alla spalla.
Ciò fatto, s’avviò dignitosamente verso la porta; ma poi, giunto a metà strada, si fermò per intimare all’altro:
«Aspetto i vostri amici, per salutarli con l’estremità della spada!»
Sir Oliver rise di nuovo; e rispose:
«Non credo che mi prenderò il disturbo di mandarveli».
«Come?», esclamò Peter, voltandosi per guardarlo in viso, questa volta. «V’adattate a non rispondere al colpo ricevuto?»
«Non vi ha visto nessuno!», commentò sir Oliver, alzando indifferentemente le spalle.
«Ma io racconterò a tutti d’avervi colpito col bastone! Lo proclamerò a destra e a sinistra!»
«Sarebbe un proclamarvi bugiardo, perché nessuno vi crederà», ribatté Tressilian.
Poi, cambiando di nuovo tono, soggiunse:
«Via, Peter, entrambi ci siamo comportati indegnamente! Quanto al vostro colpo di bastone, confesso di averlo meritato: la madre è sempre più sacra del padre. Possiamo dunque lasciar da parte questo punto, e ritenerlo regolato con questa mia dichiarazione. E ora ditemi: non credete che ci sia possibile intenderci anche sugli altri? A che pro perpetuare lo sciocco dissidio sorto tra i nostri genitori?»
«Non si tratta soltanto del dissidio che divideva mio padre e il vostro! C’è dell’altro ancora: ed è ch’io non permetterò mai che mia sorella sposi un pirata!»
«Un pirata?… Numi del cielo! Buon per voi che qui non ci sia nessuno ad ascoltarvi: perché non so come si potrebbero giudicare le vostre parole dopo la ricompensa che m’è stata data dall’alto, appunto per le mie gesta sui mari! Mi sembra, ragazzo mio, che Peter Godolphin e il suo degno mentore sir John Killigrew possano approvare quel che ha approvato la Regina! Via, avete prestato un orecchio troppo compiacente alle maligne insinuazioni di sir John! Son certo ch’è lui che vi ha mandato qui!»
«Non sono il lacchè di nessuno!», rispose il giovinetto fieramente, tanto più colpito da quell’osservazione in quanto doveva riconoscerne la veridicità.
«È una stoltezza quella di qualificarmi pirata, amico mio», proseguì Tressilian. «Hawkins, col quale mi ero imbarcato, è stato anche lui nominato cavaliere, e ha ricevuto l’abbraccio di Sua Maestà. Chi ci qualifica pirati insulta quindi la Regina. Respinta perciò questa accusa – che è falsa, come vedete – che cos’altro resta contro di me? Sono un uomo rispettato in tutta la Cornovaglia; Rosamund mi onora del suo affetto: inoltre sono ricco, e sarò ancor più ricco quando il suono delle campane nuziali avrà riempito l’aria con la sua armonia!»
«Ricco del frutto delle rapine sul mare; ricco dei tesori delle navi abbordate e del prezzo degli schiavi catturati in Africa e venduti nelle colonie; ricco come il vampiro pasciuto del sangue degli uomini!»
«È sir John, che dice tutto ciò?», chiese sir Oliver, in un tono troppo dolce, troppo pacato.
«Lo dico io!»
«Vi ho udito; ma posso domandarvi dov’è che avete imparato questa bella lezione?… È sir John il vostro precettore? Sì: è lui, è lui! Non occorre che me lo affermiate. Ma gli parlerò io, e regolerò con lui la faccenda! Frattanto lasciate che vi mostri la pura e disinteressata sorgente del rancore di sir John contro di me; dopo di che vedrete quale razza di gentiluomo sia quell’individuo, ch’era amico di vostro padre e ch’è stato vostro tutore!
«Non ascolterò nulla di quel che potrete dire contro di lui».
«Al contrario, m’accorderete quell’attenzione che v’ho prestato io, poco fa, ascoltando dalle vostre labbra quel che sir John dice di male! Sappiate, dunque, che sir John desiderava ottenere il permesso di edificare su larga scala all’imboccatura del Fal, sperando di veder sorgere così una città presso il porto, all’ombra del suo castello di Arwenack. Egli si fingeva nobilmente disinteressato per ciò che lo riguardava, e pareva soltanto preoccuparsi della prosperità della regione; ma… trascurava di menzionare il fatto che quella terra era sua, e che in realtà era il proprio interesse e quello della propria famiglia, ch’egli cercava di favorire.
Per una fortunata circostanza, lo incontrai a Londra mentre stava ventilando il suo progetto a Corte. Ora, anch’io ho i miei interessi a Truro e a Penry; ma, a differenza di sir John, fui sincero, e li proclamai. Se nei pressi di Smithick fosse sorta una nuova cittadina, Truro e Penry si sarebbero trovate in uno stato d’inferiorità rispetto alla situazione più vantaggiosa della nuova concorrente; la cosa, quindi, m’avrebbe danneggiato nella stessa misura in cui avrebbe favorito sir John. Perciò lo dissi apertamente a quest’ultimo, perché sono schietto; e lo dissi pure alla Regina, cui inviai una petizione in opposizione a quella di sir John. Il momento era propizio per me. Ero uno di quegli uomini di mare che avevano contribuito largamente alla conquista dell’Invincibile Armada di Re Filippo; e non mi poteva essere negato quel che domandavo. In breve: sir John fu rimandato a mani vuote, così come s’era presentato a Corte.
Dopo ciò, vi meravigliate ch’egli mi odi? Conoscendolo per quel che vale, vi stupite ch’egli mi qualifichi pirata e peggio?… No; è abbastanza naturale che cerchi di sviare il mio operato sul mare, perché appunto quelle mie gesta m’hanno dato modo d’ostacolare i suoi interessi! Per lottare con me egli ha scelto le armi della calunnia; ma tali armi non sono mie, e lo mostrerò oggi stesso. Se non prestate fede a quel che dico venite con me per presenziare al piccolo discorso che terrò senza indugio a quel tanghero».
«Dimenticate», obbiettò Peter Godolphin, «che anch’io ho degli interessi nei pressi di Smithick, e che voi danneggiate essi pure?»
«Numi del cielo!», esclamò sir Oliver. «Finalmente il sole della verità comincia a far capolino di tra la nube della legittima indignazione contro il cattivo sangue dei Tressilian che scorre nelle mie vene e contro le mie gesta da pirata! Voi pure siete un affarista, dunque! Ora soltanto comprendo fino a qual punto sono stato stolto credendovi sincero e parlando con voi da uomo onesto!»
Qui la sua voce s’ingrossò e le sue labbra si arricciarono in una smorfia di disprezzo; poi egli concluse:
«Vi giuro che non avrei sprecato tempo e fiato se avessi saputo ch’eravate anche voi così vile e venale!»
«Queste parole…», cominciò il giovine Godolphin, raddrizzandosi sulla persona…
«…. sono anche troppo miti in confronto a quelle che meritate!», interruppe l’altro.
Poi si volse; e, guardando verso la porta, chiamò Nick, il servitore.
«Risponderete dei vostri insulti, sir Oliver!», esclamò Peter.
«Rispondo subito quel che ho da rispondere!», rispose sir Oliver, severamente. «Non so come abbiate avuto l’ardire di entrare in casa mia e di farvi arma della dissolutezza di mio padre, dell’antica ostilità fra i nostri genitori e della mia presunta pirateria, per impedirmi di sposare vostra sorella, quando la vera causa determinante della vostra opposizione è la vile cupidigia di quelle poche miserabili sterline all’anno che v’impedisco d’intascare! Andate, andate! In nome di Dio, andate!»
Nick entrò a questo punto; e Peter Godolphin, livido di rabbia nel vedere così scoperte le proprie intenzioni, esclamò:
«Sentirete parlare di me, sir Oliver! Dovrete rendermi conto delle vostre parole!»
«Non mi abbasso a discutere con un… mercante!»
«Osate chiamarmi così?»
«Infatti, è quasi uno screditare la classe; ne convengo! Nick, accompagnate il signor Godolphin!»