1. Solleverò la mia fiaccola-2

1867 Words
Fu distratto dalle sue – prolungate – riflessioni, da un movimento proprio di mr. Kayal, che tirava il suo baule giù dalla rastrelliera. «Aspetti! Lo faccio io!» strillò Bill. Mr. Kayal inarcò un sopracciglio. Sopracciglio nero ad ala di gabbiano, minaccioso. «Non sono ancora un rudere». «Ma no, cosa dice!» Mr. Kayal sghignazzò. Molto raramente, ma lo faceva. Bill capì che lo stava prendendo in giro. «Oh, si sposti. Gli altri bagagli li prendo io» precisò, mettendo il broncio. Questa volta mr. Kayal lo lasciò fare. Passò nel salottino e recuperò dalla vetrina una bottiglia di brandy. «Un goccetto, prima di scendere?» «Oddio, quella non voleva mica lasciarla qua?» Il suo capo sbatté le palpebre. «Presumo che a casa di Lord Bergavenny ce ne saranno altre, se è quello che ti preoccupa». «Di sicuro, ma le bottiglie che sono in cabina le ha pagate». Mr. Kayal sospirò. « La bottiglia. Non sono un ubriacone. Insomma, lo vuoi un goccio?» Bill arrossì per l’imbarazzo. Era la sua maledizione. Era un inglese di origini celtiche, capelli bruni ma pelle pallida e pure qualche lentiggine. Arrossiva. Per la precisione, arrossiva come una scolaretta. «Non intendevo insinuare— Rinunciando ad avere una risposta, mr. Kayal gli allungò un bicchiere con dentro due dita di brandy. «Devi rilassarti un po’, Billy. Non siamo ad Aylsham Hall e sei il mio valletto solo in senso figurato. Non corri il rischio che io ti licenzi se non mi porti la valigia o non mi spazzoli il cappotto». «Signore!» insorse Bill, ma mr. Kayal lo ignorò. «Ho parecchio su cui concentrarmi» disse. Buttò giù un sorso con espressione angustiata. «Ti rendi conto di quanto sarà difficile scovare qualcuno in una città di tre milioni di abitanti? Una città sconosciuta?» Bevve anche Bill, visto che ormai aveva il bicchiere in mano. «Sì, signore». Un attimo di esitazione. «O meglio, no. Non ne ho idea». L’indiano sospirò. «Già, neanch’io». Bill non aveva ancora capito che cosa ne pensasse mr. Kayal di averlo con lui. Sapeva che era stata un’idea di Lord Northdall, ma quanto l’aveva imposta? In poche parole, mr. Kayal lo considerava un peso e un intralcio, o una risorsa da usare? «Farò del mio meglio per aiutarla, signore» disse. Non c’era altro da aggiungere, davvero. «Oh, lo so». Il suo capo gli rivolse un sorriso un po’ storto. «Speriamo che serva a qualcosa». Tirò fuori dal panciotto un orologio argentato e lo aprì. «Sono le tre in punto. Il motore sta rallentando ancora, hai sentito? Siamo molto puntuali». Bill si alzò e andò a guardare dall’oblò. Data la posizione della loro cabina, quasi sulla prua, non si vedeva molto. Solo il porto con i suoi macchinari e i suoi moli, non la banchina a cui la nave si stava accostando. Proprio in quel momento sentirono bussare. «Signore? Autorità doganale!» Fu mr. Kayal ad andare ad aprire. I due funzionari avevano con loro un registro e, come Bill scoprì poco dopo, parlavano con uno strano accento. Fu a lui che si rivolsero. «Buongiorno, signore. Ci occorrerebbero i documenti di entrambi e vorremmo conoscere il motivo del suo viaggio». L’uomo lanciò un’occhiata a Kayal. «Lui capisce l’inglese?» Bill arrossì. O meglio, diventò rosso per il misto di imbarazzo e indignazione. «Mr. Kayal è il titolare della cabina!» I due funzionari lo fissarono come se non avessero capito. Un istante dopo, quando mr. Kayal si rivolse a loro in tono accomodante, ma scandendo bene le parole, Bill realizzò che forse non avevano capito davvero, ossia che avevano dei problemi con il suo accento. «Un equivoco perdonabile. Ecco, il mio passaporto». Tese loro un foglio piegato in quattro e uno dei funzionari lo distese. Bill vide che era simile al proprio passaporto, con lo stemma della Gran Bretagna in alto e il timbro del Ministero dell’Interno, ma che in basso aveva uno stemma militare, dato che tecnicamente mr. Kayal era ancora un riservista. Come il suo, conteneva uno stampato in un carattere fiorito e la parte con i dati personali scritta a mano. «Mr. Dharya... uhm, D-H-A-R-Y-A» compitò il funzionario «Kayal, con K e Y. Cittadino inglese...» L’altro funzionario inarcò le sopracciglia, ma si limitò a trascrivere sul suo registro. «E il suo accompagnatore?» «William Fisher, il mio valletto. Billy, dai ai signori i tuoi documenti». Ancora un po’ risentito, Bill prese il suo passaporto dalla tasca interna della giacca e lo consegnò a uno dei funzionari. Questa volta non ci fu bisogno di sillabare. «Il motivo del vostro viaggio, dicevamo?» «Il mio datore di lavoro, Lord Julian Acton, settimo Marchese di Northdall, mi ha mandato a sbrigare per lui certi affari. Controllare investimenti. Sono il suo segretario, capisce». «Capisco» annuì prontamente il primo funzionario. Doveva essere abituato a interagire con passeggeri reticenti, ma solventi... che poi era l’unica cosa che importasse davvero alle autorità americane. «Dove conta di soggiornare, signore? La lista di hotel che consigliano a bordo non è troppo aggiornata, temo». Mr. Kayal gli rivolse un altro sorriso bonario. «Non è necessario. Dovremmo essere attesi dalla carrozza di Lord Edwin Underwood, il Conte di Bergavenny. Staremo da lui. A quel che ho capito la sua residenza è sulla 5th Avenue, ma non saprei a quale numero civico». Il funzionario fece un cenno accomodante. «Oh, non importa. Sa già per quanto tempo si tratterrà?» «Nella migliore delle ipotesi, un paio di settimane. Ma non posso escludere di dover restare più a lungo. Voglio sperare non più di due mesi». Il funzionario annotò qualcosa. «Benissimo. Le auguro il migliore dei soggiorni». Pochi istanti dopo erano usciti entrambi, diretti verso la cabina seguente. Fu Bill a portare i bagagli in corridoio e poi a supervisionare i facchini mentre scendevano dalla nave. La banchina, quando sbarcarono, era affollata di persone. Coppie che si riunivano dopo una separazione, famiglie in attesa di un parente e diversi individui che dovevano essere lì per motivi d’affari. L’odore era quello di ogni porto: salmastro, pece, sego, corpi poco puliti, corda marcia, cherosene, fumo. E, nella strada d’accesso, il familiare tanfo di deiezioni equine che aleggiava attorno alla fila di carrozze di piazza. Dato il clima di fine marzo – ancora rigido – non era neppure così insopportabile. Il facchino li precedette fino al marciapiede delle carrozze private e lì trovarono un uomo sulla sessantina, con folti capelli color ferro, vestito scuro e tutta l’aria del maggiordomo, che aspettava con un cartello lungo il fianco. Sul cartello c’era scritto “NORTHDALL”. «Buongiorno, la manda Lord Bergavenny?» chiese Bill, avvicinandosi. Il facchino spinse il carrello dietro di lui. «Sì» rispose il maggiordomo con gravità. «Sono mr. Brown, il maggiordomo» aggiunse poi, a conferma di quanto era già evidente. «Dharya Kayal. Grazie per esserci venuto a prendere» disse Kayal. Il maggiordomo gli rivolse un’occhiata sospettosa. Il suo esame non dovette dare esito positivo, perché si limitò a grugnire qualcosa e far cenno di salire in carrozza. Kayal salì. Era strano non aiutare a caricare i bagagli sul tetto. O almeno non coordinare le operazioni. Era strano essere da solo sui comodi sedili di velluto, invece che a cassetta accanto al conducente. Si trovò a pensare che, di solito, quando viaggiava all’interno di una carrozza era perché stava andando da qualche parte con Julian. E a volte viaggiava all’interno di una carrozza di piazza, come tutti, ma era diverso. Ora si sentiva stranamente fuori posto. Sentì uno schiocco di frusta e i cavalli si misero in moto. La vettura che era venuta a prenderli era un tiro a due moderno, dalle finiture di pregio, velluto e cuoio e tappezzeria di seta. D’altronde che Lord Bergavenny se la passasse bene, Kayal lo sapeva già. Scostò la tenda per guardare fuori. La giornata era fredda ma soleggiata, le strade erano affollate di carrozze proprio come quelle di Londra. E, a occhio, anche le strade sembravano assomigliare a quelle della capitale inglese: lastricate, fangose, punteggiate di deiezioni equine. Il resto, tuttavia, era del tutto diverso. Durante il viaggio Kayal aveva studiato la cartina della città fino a impararla a memoria. New York in senso stretto occupava una penisola lunga e stretta, stipata di edifici disposti in larga parte secondo una griglia regolare. L’adiacente isola di Brooklyn una decina d’anni prima era stata collegata alla città tramite un lungo ponte in acciaio, il più lungo del mondo. Anche Brooklyn era densamente urbanizzata. Dal ponte della nave, mentre Bill restava affascinato dalla statua, Kayal aveva scrutato la costa. New York sembrava sorgere dall’acqua e il suo profilo era dominato da alti, impressionanti edifici di pietra grigia. A Londra la costruzione dei Queen Anne's Mansions, un edificio di lussuosi appartamenti a Westminster, era diventata un affare di stato. Con i suoi quattordici piani ostruiva la vista del Parlamento da Buckingham Palace, cosa che la regina Vittoria non aveva per nulla gradito. Pertanto, proprio in quei giorni il governo stava varando una legge per stabilire l’altezza massima degli edifici in città e si vociferava che il tetto sarebbe stato di ottanta piedi di altezza, non di più. Diversi palazzi a New York dovevano superare quel limite di almeno venti piedi e, mentre la carrozza avanzava tra le vie cittadine, Kayal non poté impedirsi di notare parecchi cantieri aperti, con aberranti piloni di ferro che puntavano verso il cielo per sostenere edifici di chissà quanti piani. A parte quell’inquietante propensione per la verticalità, la città sembrava vitale e ragionevolmente ordinata. Sulla larga strada che avevano imboccato si affacciavano ristoranti, negozi di abbigliamento, sale da tè e anche diversi hotel eleganti. Assomigliava un po’ a Pall Mall, ma doveva trattarsi della Broadway, una delle vie più lunghe del mondo. Quella città, pensò Kayal con un certo fastidio, sembrava assetata di primati. La carrozza attraversò una piazza alberata con un imponente arco di trionfo su un lato e una larga fontana tonda al centro. Doveva essere il Washington Square Park e da quelle parti, se Kayal ricordava bene, partiva la 5th Avenue verso cui erano diretti. Si ripromise di tornare a percorrere quel percorso a piedi, perché chiuso nel lussuoso guscio della carrozza non riusciva a farsi un’idea dei posti che vedeva. Rischiava di ridursi come certi nobili londinesi, che guardavano il mondo dall’alto in basso, osservandolo solo dal finestrino delle loro vetture. Quando si abbassavano a farlo. Come poteva sentire gli odori, diversi da isolato a isolato? Gli odori dicevano così tanto di un posto. Il profumo di cibo grasso o frugale tra le case, l’aria amara di carbone, il tanfo della spazzatura non ritirata, i miasmi delle fogne, l’odore delle persone, gli aromi delle spezie nei mercati, le essenze nei capelli delle donne, le fragranze dei giardini e dei parchi... un intero mondo olfattivo gli era precluso, se viaggiava come il signore che non era, invece che a piedi. Una decina di minuti più tardi, se Dio volle, il suo tormento borghese ebbe fine. La carrozza si fermò di fronte a un edificio cittadino dallo stile moderno, ma non orripilante come alcuni dei palazzi in via di costruzione che aveva visto. Una residenza signorile di quattro piani, stretta tra altre costruzioni con la facciata di mattoncini bruni. Due colonne accanto all’ingresso e un timpano bianco sopra la porta. Casa Bergavenny. 1Soldato a cavallo.
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