Il giorno in cui nacque l’eternità
La prima a notare l’evidenza fu Silvia.
“Qualcosa non va, è sparito tutto.”
Fino a quel momento, il momento in cui tutto cambiò, stavamo trascorrendo una delle solite serate piacevoli tra amici. Avevamo organizzato una cena a casa di Simon per festeggiare l’uscita del suo nuovo romanzo. Era un sabato, l’ultimo di ottobre. Per le strade di Roma zucche di plastica e scheletri giocattolo a dimensione d’uomo si sprecavano. Bar e ristoranti erano tappezzati da locandine di locali che promettevano feste di Halloween in cui adrenalina e divertimento erano garantiti, così come i cocktail in tema e le cosplayer donna vestite di silicone e paillette. Proprio quel giorno la temperatura era calata bruscamente e la città si era risvegliata in una cortina inquinata di aria gelida, sferzata da venti nordici. L’inverno era arrivato in anticipo, di botto, senza alcun segno premonitore, lasciando di stucco perfino gli esperti di meteorologia. Più di qualcuno aveva speculato sul fatto che questa bizzarria atmosferica coincidesse proprio con il Giorno dei Morti. Io non avevo dato peso a certe sciocchezze, non l’avevo mai fatto, ma altri sì. Era uno di quegli argomenti che, nel nostro gruppo, suscitava sempre accese discussioni, specialmente dopo che Simon aveva iniziato a mietere successi come scrittore horror. Lui era un fiero sostenitore del soprannaturale: dalle apparizioni mariane alle scuole per esorcisti, dalle leggende irlandesi su troll, elfi e fate dei boschi alle storie paurose su wendigo e boogeyman, non c’era mistero, vero o presunto, che non prendesse terribilmente sul serio. Da lì al mettere per iscritto le più tetre fantasie di cui sembrava abbondare la sua mente ipersensibile, il passo era stato breve. Aveva iniziato a scrivere fin da giovanissimo e nel giro di pochi anni era diventato uno scrittore di razza.
Ci conoscevamo da vent’anni, dai tempi del liceo, tutti noi. La sera in cui ci ritrovammo invischiati nella più paradossale e spaventosa circostanza che si possa immaginare, eravamo elettrizzati. Simon aveva sempre condiviso con noi i suoi progetti e quando si lanciava nella stesura di un nuovo lavoro, gli piaceva parlarne, discuterne. Ma non stavolta. Su questo nuovo romanzo, al quale stava lavorando da quasi due anni, aveva fatto calare una cappa di silenzio davvero incomprensibile. Nonostante avessimo provato a turno a farlo sbottonare, a farci dire qualcosa di più, non c’era stato verso. Samuel e Lorenzo ci avevano scherzato su a più riprese, azzardando addirittura l’ipotesi che, in realtà, stesse scrivendo le memorie di qualche oscuro sicario mafioso. A essere del tutto sinceri, già da un po’ di tempo lo vedevo strano, più taciturno e stralunato del solito. A parte l’abbigliamento dark e alcune piccole, trascurabili manie compulsive, era sempre stato una persona tutto sommato ordinaria. Fu Sue Ellen, la più intuitiva tra noi, a mettere l’accento anche su un altro fatto. Si trattava di un dettaglio, una piccola ombra che il mio cervello aveva già registrato a livello inconscio, sepolta però sotto un’infinità di piccole e grandi informazioni, probabilmente così assurda da non meritare l’attenzione dovuta in un mondo regolato dalle rassicuranti e inoppugnabili leggi scientifiche.
“Dimmi una cosa. Non ti sembra che Simon sia… sbiadito?” mi aveva chiesto qualche settimana prima.
Ero saltato sulla sedia, come se avessi ricevuto uno schiaffo. Sbiadito! Ecco cos’era! Su questo aspetto avevo rimuginato anch’io negli ultimi tempi, alla ricerca di una parola sconosciuta che hai sulla punta della lingua, ma la cui etimologia non riesci a definire con esattezza.
“Sbiadito in che senso?” la incalzai, benché avessi capito benissimo a cosa si riferisse.
“Non è facile da spiegare,” aveva continuato Sue Ellen, lanciandomi un’occhiata sospettosa.
“Intendi più pallido?”
“Beh, anche. Ma non è quello che volevo dire.”
Avvertii qualcosa di acido e duro rimescolarsi dentro di me, una punta di disagio annidata nello stomaco come un verme carnivoro. Mentre affrontavamo la questione ci trovavamo nella biblioteca dell’università, mancavano pochi minuti alla chiusura. Eravamo rimasti solo noi due nella grande sala ottagonale dove le luci erano state abbassate appena qualche minuto prima. Per un istante lunghissimo, con la coda dell’occhio, mi era parso di intravedere una sagoma fluttuare tra i due scaffali alla mia destra, per l’esattezza nel settore riguardante Storia Antica e Antropologia dell’Occulto. Se fossi stato uno che credeva alle coincidenze o un qualche tipo di sensitivo, mi sarei accorto della stravagante puntualità con la quale quel curioso fenomeno era accaduto proprio nel mezzo di una conversazione decisamente inconsueta. Subito dopo, un fulmine aveva disegnato la sua sfavillante linea a zig-zag nel cielo cupo, seguito a breve dal fragore di un tuono capace di far tremare il controsoffitto. La pioggia aveva iniziato a venire giù torrenziale. Ero vagamente consapevole del pericoloso martellare del cuore nel mio petto.
“Non so spiegarlo bene. Certe volte mi è capitato di vederlo… come… sfocato,” proseguì la mia amica.
Avevo perso più di un battito. Sapevo che ci vedeva bene, che le sue diottrie erano dieci su dieci.
“Sfocato come?”
“Hai presente una fotografia mossa?”
“Sì.”
“Ecco, più o meno è quello che intendo.”
“E quando ti è successo di vederlo così?”
“In diverse occasioni, l’ultima è stata domenica scorsa al compleanno di Silvia. Stavamo cenando e un paio di volte, quando l’ho incrociato con lo sguardo, ho dovuto battere ripetutamente gli occhi perché non riuscivo a metterlo a fuoco. Non so se ti ricordi che mi sono alzata per andare in bagno, proprio mentre mangiavamo le lasagne. Sono andata a sciacquarmi il viso. E poi non volevo far notare agli altri che stavo tremando.”
In effetti sì, mi ricordavo.
“Magari ti eri fatta un goccetto di troppo. Magari, tutte le volte, ti eri fatta un goccetto di troppo.”
“Al mattino non bevo mai, eppure mi è successo anche di mattina.”
“Avrai qualche blocco psicologico nei suoi confronti,” azzardai.
Mi resi conto immediatamente dell’assurdità di quanto avevo detto. E Sue Ellen me lo confermò.
“Non ho nessun blocco psicologico. Conosco Simon dalle elementari. Siamo come fratello e sorella.”
“E allora, quale altra spiegazione ti dai?”
“Proprio non lo so. Ma gli sta capitando qualcosa, me lo sento. Non è da lui non raccontarci niente.”
“Beh, è sempre stato un tipo fuori dalle righe.”
“Ma dai, per piacere! Lo sai bene anche tu che se gli togli gli abiti dark e le borchie, in realtà è una persona tranquillissima che non si concede mai un vero eccesso.”
“Sì, ma chissà cosa gli gira nella testa. I suoi lavori ti prendono alla gola e non è semplicemente saper scrivere. Perciò starei attento a etichettarlo, non conta da quanto tempo lo conosci. Non quando si parla di persone.”
Avevamo chiuso lì l’argomento Simon. Da quel momento in poi Sue Ellen si era chiusa a riccio. Eravamo usciti dall’ateneo mentre la pioggia cadeva in una fitta sassaiola, ma quella parola continuava a ronzarmi nel cranio, come una falena in un lucernario.
Sbiadito.
Non semplicemente impallidito. La verità, gente, è che anche al sottoscritto era capitata questa cosa del tutto allucinante. Alcune volte, oltre a vederlo sfocato, ero riuscito a vederci attraverso. Un novello Henry James ci avrebbe ricamato su una bella storia di fantasmi. Ma Simon non era un fantasma, di questo ero sicuro. Santo dio, i fantasmi non scoreggiano di certo e in alcune circostanze, specie quando esagerava con maionese o gamberetti, il suo intestino ne risentiva. No, si trattava di qualcos’altro, oppure io e Sue Ellen iniziavamo a dare i numeri.
A ogni modo, la sera in cui scoprimmo l’orrenda verità eravamo arrivati a casa di Simon intorno alle diciannove. Si era trasferito al rione Monti da circa un anno: col tempo aveva accumulato un discreto gruzzoletto grazie al quale era riuscito a comprarsi un attico da favola. Quando ci fece entrare, ci accolse come sempre con la massima garbatezza e l’espressione leggermente divertita. Notai che aveva messo nuove mensole a forma di mandala, mentre sulle pareti color prugna spiccavano litografie di pentagrammi in una sinistra geometria a forma d’ape. Nel grande salone, dal quale si accedeva al terrazzo, aveva sistemato grandi cassettiere in frassino, ingombre di manufatti misteriosi: candele rosse a spirale, barattoli contenenti strane radici, un calice celtico ricavato da un corno di bue e molti altri oggetti la cui natura mi era sconosciuta.
Le ragazze si misero all’opera in cucina, mentre noi altri ci sistemammo in terrazzo su comode poltroncine in tessuto, a ingozzarci di patatine e sorseggiare Margarita e Spritz. Sue Ellen e Silvia prepararono l’arrosto, Maria e Guendalina si dedicarono agli antipasti. E nel frattempo in cui io, Simon, Samuel e Lorenzo continuavamo a conversare del più e del meno godendoci il panorama crepuscolare di guglie, balconi e tetti della città, Tommy era rientrato nel salotto, si era stravaccato sul divano e si era messo a giocare alla PlayStation. Ogni volta che veniva da Simon dedicava almeno un’oretta ai videogiochi, penso per deformazione professionale visto che lavorava da sei anni in un Game Stop.
Nonostante il clima gioviale e spontaneo sentivo un pizzicore dietro la testa, come un brutto prurito sottopelle, così a un certo punto decisi di alzarmi per allontanare lo stato d’ansia crescente. Andai dentro e chiesi a Guendalina un cubetto di ghiaccio che feci cadere nel Margarita: Sue Ellen li aveva preparati decisamente troppo forti, di quel passo sarei arrivato ubriaco alla cena e l’istinto mi diceva di rimanere vigile. Tornando sul terrazzo, mi fermai sulla soglia della portafinestra e mi concessi alcuni secondi per ammirare di nuovo lo stupefacente scenario dei Fori Imperiali e del Colosseo all’orizzonte, sagome di pietra e travertino inghiottite dal rame e dall’arancio che scolorivano nel blu e nel nero. Lì per lì pensai di essere uno sciocco a farmi suggestionare da certe idiozie paranormali. Un venticello freddo e umido mi solleticò per un attimo il viso, facendomi drizzare i capelli in testa, ma il brivido che ne seguì mi sembrò troppo lungo per imputarlo a un semplice spiffero. Scossi la testa e guardai avanti, verso gli altri ancora seduti a bere e chiacchierare.
Mio dio.
Vidi Simon. E dietro di lui vidi l’imponente pianta di ficus che aveva sistemato lungo il parapetto in pietra. Ma non dietro inteso come sfondo. Intendo attraverso. Simon era reale, eppure al tempo stesso trasparente, senza sostanza, immateriale di fronte ai miei occhi, come se stessi vedendo il suo fantasma. Sbattei le palpebre. L’effetto era svanito. Era durato un secondo appena che mi era sembrato un secolo, ma ancora quel secondo non era sufficiente a farmi credere davvero a quello che avevo visto. Mi voltai verso l’interno, nella speranza di incrociare Sue Ellen per controllare se anche lei avesse carpito quell’istante fugace, però mi dava le spalle aiutando Maria a mettere la tovaglia. Pian piano, i battiti impazziti del mio cuore rallentarono e ripresi il controllo della respirazione. Decisi di rientrare per dare una mano alle ragazze: avevo urgenza di impegnare la mente con qualcosa di tattile, di meccanico. In pochi minuti finimmo di preparare la tavola, dopodiché uscii sul terrazzo a chiamare gli altri per la cena, come una brava mamma chioccia.
Quando tornai indietro ebbi nuovamente un sussulto e ruotai il busto di novanta gradi, perdendomi per l’ennesima volta nella visione aerea di una Roma notturna, slavata. La vista che si godeva dall’ottavo piano di questo imponente edificio di epoca fascista era ancora più ipnotica, ora che le tenebre stavano fiaccando le ultime resistenze di luce. Vidi tanti puntini luminosi e rettangolari andare su e giù per via Nazionale, fino all’incrocio con via dei Fori Imperiali, osservai le persone muoversi in tutte le direzioni come formiche impazzite in un telescopio. Scrutai la città e la sua frenesia. Ma qualcosa, in quella visione, mi aveva disturbato: strizzai gli occhi più volte perché un particolare non mi tornava, giù in strada e nel cielo. Nonostante il freddo improvviso la giornata appena trascorsa era stata limpida, eppure non mi riuscì di scorgere le stelle. Per non parlare delle luci metropolitane. Mi venne subito in mente che il comune di Roma, i cui bilanci municipali erano di un rosso accecante ormai da decenni, avesse iniziato a risparmiare sull’illuminazione stradale. Ma poi ebbi la violenta impressione che la città si stesse lentamente oscurando. Cosa certa: era decisamente meno luminosa di quanto non fosse appena due minuti prima. Il flusso stesso delle automobili, che da quassù mi apparivano come minuscoli rettangoli in movimento su una lavagna, si era diradato all’improvviso. Poi qualcuno mi strattonò dall’interno e ruppe la mia attenzione. Tornai dentro, disinteressandomi per l’ennesima volta dell’intenso brivido che mi era corso lungo la schiena. Ci sedemmo a tavola e attaccammo con il cibo e il vino. Presto la conversazione prese la consueta piega familiare, ormai ci conoscevamo da anni, ci eravamo scelti come amici e ci piaceva stare insieme. Tanto che alla fine dimenticammo persino il motivo di quella cena, vale a dire scoprire finalmente l’argomento del nuovo romanzo di Simon. Comunque il nostro amico aveva promesso una succulenta sinossi a fine serata.