Il giorno in cui nacque l’eternità-2

2179 Words
“Chi lo vuole il dessert?” “Non si usa prima il caffè?” chiese Tommy, con una strizzatina d’occhio. “Sulla tua testa, magari.” Ridemmo e canzonammo il nostro amico. Avevo accantonato la strana visione precedente, ma di tanto in tanto riaffiorava e in più di un’occasione notai Sue Ellen fissare Simon con espressione intensa, concentrata a scavarlo intimamente. I minuti divennero ore e quando mi decisi a controllare l’orologio, notai che si era fatta l’una del mattino. Samuel e Lorenzo avevano rimpiazzato Tommy ai videogiochi e si stavano sfidando alla PlayStation da più di un’ora, Maria e Guendalina si erano sedute su due ampie poltrone, spiluccando Mikado e wafer e ordinando non so quale vestito su un sito cinese di aste online, mentre Tommy aveva raggiunto Silvia in cucina per darle una mano a rassettare. Simon era andato a letto verso mezzanotte e mezzo. Non reggeva mai fino a tardi e non lo si poteva di certo definire un animale notturno: era il rovescio esatto dell’immagine tipica da associare alla sua figura, ovvero quella dello scrittore horror che compone perlopiù di notte, al lume di una candela. Infatti, finita la cena augurò a tutti la buonanotte e ci disse di fare come se fossimo a casa nostra, di dormire lì se mai fossimo stati troppo stanchi, tanto lo spazio non mancava. Non menzionò il suo nuovo romanzo e nessuno di noi gli domandò niente. Io e Sue Ellen ci attardammo a tavola, giocherellando con molliche e tappi di sughero. La serata si trascinava pigramente verso l’epilogo. Era notte fonda ormai, ma nessuno di noi altri aveva ancora sonno, il forte caffè di poco prima ci aveva risvegliati proprio quando la sonnolenza digestiva stava per avere la meglio. Intanto, fuori aveva iniziato a piovere e l’acqua scrosciava dal cielo in cupi rimbombi, ammantando la città con una cappa liquida in cui sfumavano suoni e luci. Rivolsi un’occhiata distratta all’esterno della portafinestra, sufficiente a farmi rendere conto di come l’assenza di stelle nel firmamento avesse intorbidito ancora di più una notte già annerita dal temporale. Mi versai un cicchetto di grappa e ne offrii un secondo alla mia amica seduta accanto. Continuavo a sentirmi inquieto, però lo tenni per me. Qualcosa non andava, me lo sentivo nelle ossa. Guardai Sue Ellen. Il mascara e il correttore per gli occhi, sotto la luce ambrata del bizzarro lampadario a forma di Medusa, la rendevano più simile a un fantasma che galleggiava nell’aria di quanto avessi voluto in quel preciso istante. Come tutti gli altri, ero a conoscenza della sua passione per il macabro e l’occulto e avevo la ragionevole sicurezza che non avrebbe mollato tanto facilmente la presa sulle stranezze riguardanti Simon e il modo in cui ci appariva. Ma ero altrettanto sicuro che si fosse fatta suggestionare proprio da queste sue credenze: ancora non volevo ammettere che stava prendendo forma un fenomeno trascendente la realtà delle tre dimensioni e che, escludendo per entrambi una rara forma tumorale al cervello, tutto ciò all’apparenza era inspiegabile. Alla fine mi convinsi a confidarmi con lei rivelandole che anch’io, alcune volte, vedevo Simon sfocato e altre, come nel caso antecedente la cena, mi appariva come un fantasma, uno spirito. Mentre parlavo Sue Ellen aveva assunto un’espressione attonita, con gli occhi sgranati da pazza. Quando terminai il mio racconto, si perse qualche secondo in riflessioni profonde. “Non so,” disse. “Cosa non sai?” “Stiamo diventando matti?” Aggrottai la fronte e la buttai sullo scherzo. “Pensavo lo fossimo già da un pezzo,” esclamai con un sorrisetto da ebete. Accadde tutto in tre secondi. Un lampo squarciò l’oscurità e subito dopo un tuono enorme fece tremare le pareti, infine le luci iniziarono a singhiozzare. Saltammo tutti sulle sedie, presi alla sprovvista da quel ruggito. Guardai Sue Ellen: aveva gli occhi lucidi, le tremava il mento, quasi fosse sul punto di avere un attacco isterico. A qualcuno sfuggì un gridolino. “Ma che cazzo!” “Merda di temporale!” E intanto il macigno freddo che avevo nel petto non dava segno di volersi sollevare. Il temporale per fortuna durò poco, dopo qualche minuto sentimmo la pioggia quietarsi. Le luci dell’attico si stabilizzarono, ognuno tornò a fare quello che stava facendo poco prima e fu tutto dimenticato. Anche Sue Ellen aveva perso l’espressione lugubre e angosciata di poco prima. Al suo posto, però, era subentrata una viva preoccupazione. Mi soffermai a osservare i suoi orecchini, i piercing, gli anelli a forma di teschio e di grifone, i capelli, lunghi e nerissimi, il pallore naturale della sua pelle che lei tendeva ad accentuare grazie a un pesante fondotinta, poi indugiai sugli occhi e notai due borse profonde che prima avrei giurato non avesse. L’appartamento era diventato soffocante, il chiacchiericcio degli altri un ronzio fastidioso. Restammo per un paio di minuti in silenzio. Mi accesi una sigaretta e gliene offrii una, ma lei scosse la testa; si alzò dalla sedia e raggiunse Tommy sul divano, dove si era accoccolato ripiegando le gambe sotto il sedere in una posa molto omosessuale, di fianco a Samuel e Lorenzo, tifando ora per l’uno ora per l’altro e aggiungendo una telecronaca piuttosto amatoriale e colorita a base di rutti e canzonature. “Ti scrocco un po’ d’erba,” sussurrò la ragazza, mollandogli un buffetto sulla guancia. “Serviti pure, è nell’astuccio.” Sue Ellen si servì con l’agilità di uno scoiattolo. La vidi arrotolarsi uno spinello a tempo di record, con una destrezza che le veniva dagli anni dell’infanzia, quando aiutava suo padre, un piccolo commerciante di bigiotteria, a fabbricare collanine e braccialetti da rivendere a fiere e mercatini dell’usato. L’accese e rimase a fissarmi una dozzina di secondi, mordicchiandosi il labbro inferiore. Alla fine, ruppe gli argini. “Da qualche settimana faccio sogni strani,” esordì. Deglutii. “Strani… ovvero?” “Sogni brutti, Fernando. Molto brutti.” “Quanto brutti?” “Parecchio, troppo. Iniziano a destabilizzarmi. Sono incubi terrificanti.” Il mio cuore riprese ad accelerare i battiti, non essendo sicuro se sentirmi confortato o ancora più atterrito, visto che anche a me succedeva la stessa cosa. E aveva detto bene lei: incubi terrificanti, una roba talmente spaventosa da farmi risvegliare completamente sconvolto e in un bagno di sudore, con i segni dei miei tormenti notturni un po’ ovunque tra coperte aggrovigliate, lenzuola fradice, oggetti caduti in terra dai comodini. Non riuscivo mai a ricordarli e ciò era anche più frustrante dell’averne. Quando, durante il giorno, mi concentravo per ripescarne almeno qualche brandello così da comprenderli, analizzarli e affrontarli, la mente diventava una Stele di Rosetta piena di immagini distorte, forme che languivano nelle tenebre, lingue morte e simboli spaventosi, un’oscura poltiglia mnemonica che mi suscitava un’invincibile e paralizzante repulsione. Ecco perché, proprio in quel frangente, la confessione di Sue Ellen mi era utile quanto un calcio nel culo. “E te li ricordi?” le chiesi ansiosamente. “No, non posso dire di ricordarli. Non bene, almeno. Qualche sprazzo qua e là. Ma ti assicuro che sono esperienze vivide, orribili, mi fanno risvegliare con la pelle d’oca e i sudori freddi.” “E in questi sprazzi cosa vedi?” “Vedo una specie di grossa nuvola. Una nuvola gigantesca, ciclopica. E dietro quella nuvola percepisco come una presenza,” mi rispose in un sussurro. Il tono della voce, basso e profondo, mi fece accapponare la pelle ma tentai comunque di sminuire la cosa. “Si tratta solo di sogni, nient’altro. Non ti ci fissare troppo. E poi l’erba aumenta le paranoie, lo sai bene.” Lei si esibì in una specie di sghignazzo: “Credimi, so tenere a bada le paranoie. Ci convivo da una vita”. Decisi di sorvolare sui miei, di incubi, e di non raccontarle niente, dopotutto non era necessario condividere le mie paure notturne. Non volevo allarmarla ancora di più, visto che sembrava potesse avere un attacco di panico da un momento all’altro. Continuammo però a discuterne. “Pensi sia tutto collegato? Voglio dire gli incubi e l’aspetto di Simon?” le chiesi ancora. “Non so, secondo me è partito tutto dal primo romanzo, Il Ponte delle Streghe.” “Come l’hai trovato?” Si fece pensierosa, cupa: trattenni il respiro, mentre planava i suoi occhi nei miei con un’espressione indecifrabile, una Sfinge dei tempi moderni a cui piace ingozzarsi di anime. Nel suo sguardo covava qualcosa di strano, come un’intuizione indicibile. “Come l’hanno trovato tutti, suppongo. Un romanzo horror che ha fatto scuola. Fenomenale nel suo genere, secondo me addirittura superiore al primo Stephen King. Forse soltanto Lovecraft l’ha superato.” “Nient’altro? Sicura? Non mi serve la recensione.” Mi fissò per un tempo lunghissimo. Mi preoccupai e all’improvviso avvertii un groppo in gola. Non ti piacerà quello che sta per dirti. “Vuoi davvero sapere cosa ne penso?” fece infine Sue Ellen. Desiderai all’istante fare rewind e non aver insistito tanto. Annuii, malgrado avesse gli occhi spiritati, fuori dalle orbite. Intuii che stava per rivelarmi una terribile verità, qualcosa di insostenibile, e adesso non ero più così sicuro di volerla ascoltare. “Simon è maledetto!” sibilò a denti stretti per non farsi sentire dagli altri. Fu in quella frazione di secondo che la mia mente percepì qualcosa di anomalo, di profondamente sbagliato, qualcosa che mi aveva infastidito nel contesto generale. Un po’ come il ronzio appena percettibile della zanzara che si avvicina all’orecchio proprio mentre stai per sprofondare nel sonno profondo. Mi voltai di scatto verso il terrazzo, appena in tempo per registrare come… una variazione all’esterno, una perturbazione dello spazio-tempo. Cercai di capire cosa fosse, ma Sue Ellen mi distolse da quell’attimo. “Ne sono sempre più convinta: Simon è maledetto!” ripeté. “Non puoi crederci sul serio.” La vidi tirare una lunga, avida boccata dallo spinello eppure, sorprendentemente, mi sembrava più lucida che mai. Sputò fuori il fumo creando un pulviscolo aromatico, mentre una strana luce di consapevolezza mistica le baluginava dagli occhi neri. “Da quando ha pubblicato quel romanzo è cambiato. Lentamente, ma in modo costante.” “Ah sì? E allora perché non con le raccolte di racconti? Dopotutto è stato con quelle che è decollato.” “Perché soltanto con Il Ponte delle Streghe ha iniziato a imboccare una china pericolosa, è avvenuta una trasformazione nel suo modo di scrivere. Sai bene che sono una fanatica del genere horror: film, libri, fumetti, YouTube. Divoro ogni cosa sull’argomento, mi sono fatta gli anticorpi. Ma da quel romanzo in particolare qualcosa è cambiato. Io sono cambiata. Non so spiegartelo bene. Non hai letto le recensioni e i blog?” “Non più di tanto. Sai che non sto tanto appresso a queste cose.” “Comunque, più di qualcuno afferma di essere impazzito dopo aver letto Il Ponte delle Streghe. Quel libro ti fa andare fuori testa. Proprio come Sutter Kane. Sai di chi parlo, vero?” Si riferiva a uno dei primi lavori di John Carpenter, Il seme della follia. Un’ora e mezzo di febbrile e delirante discesa nella potenza evocativa dei libri. Sutter Kane, fittizio scrittore horror nella trama del film, da diversi anni vende milioni di copie in tutto il mondo, libri maledetti che finiscono con il mandare in tilt le persone e scatenare l’apocalisse a suon di follia, mostri, sangue, carne e smembramenti, come nella migliore tradizione cinematografica di genere. “Ecco, io penso che Simon sia diventato come Sutter Kane dopo aver pubblicato Il Ponte delle Streghe. Iniziano a circolare storie sempre più strane sul suo romanzo.” “Che tipo di storie?” “Storie paurose.” Riflettei. Sapevo cosa intendesse Sue Ellen, quanta verità ci fosse nella sua affermazione a proposito di quel lavoro, Il Ponte delle Streghe. Era una storia impressionante, quasi cinquecento pagine di adrenalina e terrore in cui il lettore veniva catapultato in una vicenda sinistra che si svolgeva all’interno di un vecchio monastero, una storia di fantasmi, donne possedute e vescovi in contatto con il Maligno, un’agghiacciante discesa nel male ambientata nella provincia di una Torino medievale. Suppongo siano in molti a possedere una fantasia ipersviluppata, salvo forse che in pochi, però, riescono poi a tradurla in letteratura o in qualche altra forma espressiva di tipo artistico. E Simon era decisamente tra quei pochi. Quel romanzo suscitava un’istintiva sensazione di nausea e raccapriccio. Nel testo c’erano alcuni passaggi che si innestavano nella corteccia cerebrale, marchi a fuoco nell’emisfero sinistro dove risiedevano le emozioni violente. Non so come facesse, e suppongo appartenesse al suo particolare talento, ma riusciva a descrivere situazioni e colpi di scena, paesaggi e personaggi, colori e odori così bene da catapultarti tra le pagine. La storia veniva fuori in modo fisico, materiale, come un pugno allo stomaco. Sapeva combinare sostantivi, verbi e aggettivi come note dolenti di un direttore d’orchestra in uno spartito infernale. Quel romanzo era ipnotico, si infilava sottopelle come un virus, con un periodo di gestazione che variava da persona a persona. Sue Ellen mi allungò il cellulare perché controllassi con i miei stessi occhi.
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