La notte eterna delle belve*
C’era stato un tempo in cui aveva amato la neve. Per lui che era cresciuto in un bilocale terrazzato a ridosso del lungomare di Trapani, trasferirsi in un piccolo paesino dell’entroterra marchigiano era stato un vero shock. Suo padre, un maresciallo dei carabinieri dai modi bruschi ma onesto fino all’ultima radice dei capelli, aveva fatto imbestialire il superiore sbagliato dopo aver sollevato un vespaio che certi politici locali avevano gradito poco. L’avevano ringraziato con un biglietto autostradale di sola andata e un trasferimento forzato nel bel mezzo del nulla.
Il dottor Corsi, all’epoca un ragazzino gracile di appena dieci anni, aveva odiato quel posto dimenticato da dio sin dal principio. Era freddo, buio, funereo. Anche d’estate gli sembrava che il sole calasse prima che altrove. E le persone, poi. Erano strane, sempre guardinghe, con i volti perennemente esausti, e avevano l’abitudine di rispondere alle domande con una specie di sibilo. I bambini della sua età erano tetri, scostanti. E stranamente violenti. In più di un’occasione li aveva visti prendersi a botte per i motivi più futili. Ma lo facevano in modo assai diverso rispetto ai coetanei delle sue parti. Non agitavano braccia o gambe, benché in maniera goffa e quasi comica, per tirare ceffoni o calci. Si muovevano a scatti. Erano fulminei, veloci, forti. Sapevano dove e come picchiare. E tutti, ma proprio tutti, con la pericolosa tendenza ai morsi. Sembrava un’inclinazione naturale tipica di quel particolare territorio. Era rimasto fino al conseguimento del diploma, poi era andato a Roma, a studiare psichiatria. Dopo essersi laureato aveva deciso di restare, avviando una proficua carriera e mettendo su famiglia. Di quel periodo lontano, serbava un solo ricordo piacevole e questo era rappresentato proprio dalla neve.
Ma ora, mentre percorreva la strada provinciale 10 che dalla Statale Adriatica conduceva al comune di Montefiore, un piccolo borgo medievale edificato su una cresta a strapiombo tra le valli dell’Aso e del Menocchio, proprio ora il dottor Corsi si ritrovò a maledire la neve e, in contemporanea, a benedire l’efficienza meccanica del suo Toyota, un SUV quattro ruote motrici acquistato a un’asta online. Da quando aveva lasciato la regione erano trascorsi vent’anni ormai, non aveva avuto più modo di ritornarci.
Ne buttava giù tanta. L’uomo seduto di fianco a lui non batteva ciglio. Aveva un’espressione indecifrabile. Eppure, la sua deformazione professionale lo portò a intuire che, dietro quel muro di ostinato silenzio, era presente una tempesta di emozioni sul punto di scatenarsi. Era già da un po’ che l’uomo non parlava. Quando erano partiti, avevano conversato piacevolmente. Poi però, a mano a mano che si avvicinavano alla loro destinazione, la sua espansività era scemata gradualmente. Si era incupito, era diventato taciturno. Lo sguardo assorto in una qualche riflessione profonda. Per la prima volta, Corsi si domandò se non fosse paura quella che leggeva su quel volto vecchio e scavato. Più o meno all’altezza di Ascoli aveva sintonizzato la radio su una stazione di musica classica, nel tentativo di alleggerire l’atmosfera. La tensione era palpabile. Non era sicuro di cosa avrebbero trovato. Le istruzioni in merito a ciò su cui dovevano indagare erano state molto vaghe. Decise di darci un taglio.
“Padre Candido, manca ancora molto?”
“No, non molto,” rispose l’anziano sacerdote, in un sussurro.
Sebbene fosse primo pomeriggio, il cielo plumbeo a macchia d’olio faceva pensare più a un orario preserale da brodo e polenta, che non a un dopopranzo con anisetta e taralli. Appena dietro una curva, su per una lunga salita fiancheggiata da abeti contorti, per poco non si scontrò con un carro attrezzi. La marcia ridotta e una certa abilità gli permisero di evitarlo con una sterzata brusca. Padre Candido non batté ciglio. Sembrava immerso nei propri pensieri. Più volte Corsi l’aveva visto osservare il cielo, con una concentrazione davvero insolita. A un certo punto, proprio mentre entrava nel centro abitato, sentì le orecchie tapparsi. D’un tratto, avvertì un vago senso di inquietudine diffondersi nel petto attraverso brevi fitte alla bocca dello stomaco. Decise di ignorare quei segnali e si concentrò sulla guida. Scalò una marcia e rallentò ancora, nel timore di incappare in qualche pedone distratto. Si accorse subito che non ce n’era bisogno. Intorno a lui, il nulla. Vecchi edifici in cortina emergevano dalla strada come tante stalattiti preistoriche. Fiocchi di neve grandi come pugni intorbidivano l’aria e la rendevano pulviscolare, nebbiosa. La luce del sole, pallida e fredda, filtrava attraverso una foschia biancastra.
“Parcheggia qui.”
Non senza difficoltà, il dottor Corsi riuscì a scavalcare il cordolo di un marciapiede, circumnavigò una sorta di piccola penisola in cemento battuto e parcheggiò. Quando scesero, un muro di neve irsuta di ghiaccio li investì e quasi li ricacciò dentro l’auto. Il vento, secco e bagnato, li accecò per un istante.
“Dove dobbiamo andare, padre?”
“Seguimi.”
Corsi faticò a sentirlo. Tra le orecchie ovattate a causa dell’altitudine e il muggito rabbioso della tormenta, gli pareva di essere diventato sordo. Costeggiarono una piccola piazza panoramica e si inerpicarono per una stretta scalinata in pietra, in un dedalo di viuzze mangiate dal tempo, addentrandosi nel cuore del centro storico del borgo. Le mura dei palazzi diroccati erano sagome indolenti, simili a carcasse in pietra di un’antica civiltà perduta. Qua e là notò alcuni deboli chiarori baluginare tra le tapparelle abbassate. Ombre passeggere suggerivano l’idea che ci fossero persone. Lo psichiatra si domandò chi mai potesse abitare in un posto tanto sperduto. Di certo, anziani in procinto di congedarsi da questo mondo, sinistre figure che affogavano solitudini e rimpianti in un’attesa snervante, desiderosi soltanto di ingoiare un tuorlo insapore di oblio. Padre Candido sembrava aver ritrovato quella verve di cui gli aveva parlato l’Arcivescovo dell’Abbazia di Farfa. Camminava spedito, incurante del freddo sempre più pungente e della neve sempre più infida. Corsi, psichiatra di professione e sportivo per passione – era un discreto arrampicatore e praticava nuoto due volte a settimana – faticava non poco a stargli dietro. L’atmosfera generale del posto era tanto opprimente da trasmettere un indefinito senso di lutto.
“Non manca molto,” annunciò padre Candido.
Il dottore tirò un sospiro di sollievo. Iniziava a sentire le prime punture di spillo alle mani e ai piedi. Il non reputare necessario portarsi dietro dei guanti imbottiti si stava rivelando un grave errore. Il vento, che odorava di zolfo e muffa, trasportò l’eco di un lamento lontano. Entrambi gli uomini si pietrificarono.
“Che cos’era?” quasi urlò Corsi, la voce ridotta a poco più di un sussurro dal frastuono della tempesta. Stava aumentando di intensità. Se avesse continuato in quel modo, nemmeno il SUV ce l’avrebbe fatta a riportarli giù. L’idea di trascorrere la notte lì gli parve intollerabile. Finalmente, vide padre Candido arrestarsi dinanzi un imponente portone. Azzardò un’occhiata verso l’alto. Erano arrivati. Il campanile del monastero delle suore domenicane svettava su tutti gli altri edifici, immoto, senza tempo, una sentinella in pietra e tufo su cui, nei secoli, erano fiorite dozzine di leggende. Riguardo a queste ultime, Corsi aveva letto documenti antichi in qualità di consulente laico del Vaticano.
Era stato l’Arcivescovo di Farfa a insistere, affinché si facesse una prima impressione su ciò a cui andava incontro. Corsi l’aveva accontentato. La convenzione sociale implicava una certa gravità di pensiero all’interno delle più alte gerarchie ecclesiastiche. Le personalità più in vista della Chiesa, e lui negli anni ne aveva conosciute diverse, erano poco inclini all’umorismo. E la serietà con la quale prendevano di petto argomenti di tipo esoterico non poteva mai essere sottovalutata. Aveva trascorso innumerevoli ore immerso in una lettura faticosa. Ne aveva ricavato un giudizio piuttosto sommario. Il retroterra mitologico della provincia di Fermo era di una varietà straordinaria, aveva scoperto. Eppure, tutte le tradizioni orali, ogni aspetto e racconto del folclore locale, persino i più trascurabili pettegolezzi popolari convergevano sulla misteriosa figura di un santo spagnolo vissuto nel XIII secolo, Domenico Di Guzman. Secondo le cronache dell’epoca, Domenico Di Guzman era arrivato un bel giorno per proteggere gli abitanti del luogo da una forza misteriosa e ancestrale.
Quando ne aveva accennato all’Arcivescovo, quest’ultimo gli era apparso distante, inquieto. Si era limitato a dire che la raccomandazione di prestare fede a certi ammonimenti era arrivata addirittura dal Pontefice. Per quanto ne sapeva lui, doveva affiancare padre Candido in qualità di consulente medico esterno in un presunto caso di possessione demoniaca. Gli era già capitato in altre occasioni. Era una prassi comune quando si doveva intervenire per appurare la veridicità o meno della manifestazione. Finora, al dottor Corsi non era mai capitato di riscontrare qualcosa che andasse al di là dei criteri empirici. Da quando era stata accertata l’esistenza delle malattie mentali, l’esercizio dell’esorcismo si era ridotto drasticamente.
Le crisi epilettiche a cui spesso andavano incontro i soggetti sospettati di possessione altro non erano se non arcaiche manifestazioni motorie di difesa. Anche l’avversione nei confronti dell’iconografia cristiana si poteva ricondurre a stati mentali alterati, a psicosi e schizofrenie di vario tipo. Non gli era mai capitato di imbattersi nei cosiddetti segnali inconfutabili. Non aveva mai assistito a bilocazioni. Non aveva mai riscontrato capacità paranormali di parlare o scrivere lingue sconosciute. Forza sovrumana, lettura del pensiero, manipolazione delle leggi fisiche e della materia, erano tutti elementi riconducibili all’immaginario cinematografico. La realtà era un tantino diversa. Non meno spaventosa o aberrante, beninteso. Ma nulla che si potesse ricondurre alla sfera sovrannaturale. Tutti i soggetti con i quali aveva avuto a che fare erano pazzi, molto semplicemente. Stavolta era diverso.
Le probabilità di avere a che fare con un caso autentico di possessione erano alte. Anche se, gli avevano spiegato senza scendere nei particolari, la questione era molto più ampia. A quanto aveva saputo, dietro questo caso si celava un mistero antico, che si ricollegava in qualche oscuro modo alle leggende del territorio e alla figura del santo Domenico Di Guzman. Per questa ragione avevano affidato l’incarico a padre Candido. Era considerato l’esorcista migliore in seno alla Chiesa. La forza e l’intensità della sua fede erano riconosciute a tutti i livelli.
Padre Candido fece schioccare il pesante battente d’acciaio. Qualche secondo dopo il portone si aprì. Una suora dall’aspetto minuto e il volto in penombra li accolse con poche, essenziali parole di benvenuto. I due la seguirono attraverso un ampio vestibolo tappezzato di immagini sacre. Sulla destra, in una nicchia ricavata all’interno di una parete, il dottor Corsi notò un’antichissima Ruota degli Esposti in legno. Non ne aveva mai vista una, se non su qualche rivista. Ne ricavò l’impressione di una tristezza profondissima. Cercò di immaginare il numero di neonati che era stato abbandonato nel corso dei secoli dentro la Ruota. Il solo pensiero lo incupì più di quanto immaginasse.
Il terzetto proseguì per un lungo corridoio, la suora in testa e gli uomini subito dietro. L’eco dei passi rimbalzava ovunque. Era come entrare nei meandri di una costruzione ciclopica. Il soffitto a volte, altissimo, era illuminato da migliaia di candele, agganciate per mezzo di anelli in ferro. Arrivarono in un secondo corridoio. Nonostante le dimensioni degli ambienti, Corsi iniziava a sentire un principio di claustrofobia. Infine, giunsero a destinazione. Un piccolo uscio in bronzo gli si parò davanti. Strani simboli erano incisi sul telaio. Il dottor Corsi non ne riconobbe alcuno. La suora bussò, con le nocche screpolate dal freddo. La porta si aprì in un cigolio minaccioso. Allo psichiatra parve di essere finito alla fiera dei cliché orrorifici. Per un attimo, la bocca si incurvò in un lieve sorriso. Quando, però, oltrepassò la soglia e lo sguardo vagò per tutta la stanza, un brivido lungo, che non accennava a diminuire, e anzi sembrava potesse peggiorare in un tremore di tipo spastico, lo percorse da capo a piedi. Due suore, un sacerdote e il sagrestano erano radunati sul fondo e in mezzo a loro, su una sedia inchiodata al pavimento, giaceva un uomo, le vesti stracciate e la testa ritta. L’uomo era in catene. Una suora venne avanti.
“Grazie per essere venuti,” esordì.
Il dottor Corsi e padre Candido avanzarono di qualche passo all’interno di quella che era conosciuta come la Sala dei Supplizi.
“Prima di iniziare, dovremo espletare un preliminare controllo medico.”
“Capisco. Ma il tempo si sta esaurendo in fretta,” disse la suora.
Si trattava di suor Chiara Larcan, la decana dell’Ordine, una veggente famosa in tutta la regione per le sue doti mistiche. Erano in molti, tra laici e religiosi, a volerla incontrare per le questioni più disparate.
“Ne convengo, ma è indispensabile.”
“Bene. Da questa parte.”
Padre Candido e il dottor Corsi si portarono a pochi passi dall’uomo. In quel momento aveva il capo chino. Emetteva strani grugniti mentre respirava, il petto andava su e giù, sulla testa calva gocce di sudore luccicavano. Padre Candido diede istruzioni al dottore. Lo psichiatra annuì e prese a frugare nella borsa. Indossò uno stetoscopio e si avvicinò all’uomo. Posò la testina sul petto dell’uomo e iniziò a muoverla a intervalli di pochi secondi. Con la coda dell’occhio, gli parve di intuire il movimento di un’ombra, dieci metri più in alto, appena fuori una delle grandi vetrate. Corsi si raddrizzò e fissò padre Candido dritto negli occhi. Un leggero filo di saliva apparve sulla bocca aperta. Era impossibile. Tutto questo era impossibile. Non riusciva a proferire parola.
“Ebbene?”
“Padre Candido… ma… non c’è battito,” balbettò lo psichiatra.
“È sufficiente. Iniziamo,” disse il sacerdote, rivolgendosi a suor Chiara.
Fu allora che la sala piombò nell’oscurità. Tutti i presenti sollevarono il capo e videro l’orrore. Corsi batté gli occhi. Sentì la pelle ripiegarsi su se stessa, accapponarsi di fronte a quello spettacolo agghiacciante.
Si erano raccolti al di fuori delle finestre prive di tendaggi che fungevano da lucernari veri e propri, oscurandole, sospesi in aria, esseri in bilico tra la morte e la pazzia, facce ottuse e malvagie, dietro cui riuscì a intravedere un barlume di intelligenza perversa, aliena a ogni tipo di umanità. E in quelle facce mostruose, chiostre di denti enormi e aguzzi emergevano come spuntoni di lapidi in un cimitero abbandonato.
“C-che cosa sono, padre Candido! In nome di Dio, che sta succedendo!”
Ma l’anziano esorcista non lo ascoltò. La sua attenzione era rivolta al prigioniero seduto di fronte a lui.
“Fate presto! Non abbiamo più tempo! Suor Chiara, don Corrado, preparate l’ampolla del Sacro Sangue! Voi altri, sbarrate ogni entrata! Non devono entrare prima che il rituale sia compiuto!” ordinò padre Candido.
Corsi vide l’altra suora e il sagrestano precipitarsi fuori dalla Sala dei Supplizi. Era disorientato, impaurito. Tornò a guardare in alto. Chi o cosa erano quegli esseri lassù, fuori dalle finestre? Stava succedendo qualcosa, qualcosa di grosso, ma non riusciva a capire cosa. Da quando erano scesi dalla vettura fino a questo momento esatto erano trascorsi a malapena venti minuti. Non c’era stato tempo né per i convenevoli, né per le spiegazioni. Qualunque evento stesse accadendo, lo psichiatra si sentiva come un naufrago nell’occhio del ciclone, in balia di forze sconosciute all’intero universo.
Poi, il suo apparato mnemonico agì in modalità automatica, e le nozioni che riversò nel suo cervello furono in grado di unire tutti i puntini, e fu allora che ogni cosa gli fu chiara, ogni dettaglio andò al suo posto. Iniziò a tremare senza rendersene conto.
Le raccomandazioni del Pontefice, la viva preoccupazione filtrata dallo sguardo angosciato e perso nel vuoto dell’Arcivescovo di Farfa quando si erano incontrati per l’ultima volta prima della partenza, la furia della tempesta di neve, peraltro in un periodo davvero improbabile, visto che si era a ridosso del Giorno dei Morti e l’autunno era entrato ufficialmente solo da poche settimane sul calendario, la desolazione innaturale del paese, la sensazione di essere osservati sin da quando erano arrivati. Soprattutto, certi accenni nelle cronache medievali, in cui si parlava della terrificante battaglia spirituale che aveva dovuto intraprendere San Domenico Di Guzman contro potenze sovrannaturali scaturite dalle profondità del tempo e dello spazio. Tutto ciò contribuì a renderlo pazzo di terrore e a fargli comprendere che si trovava in presenza di un fenomeno ancora più sconcertante e folle di una possessione demoniaca.
Quando sollevò lo sguardo da terra, lo psichiatra incrociò gli occhi di padre Candido. L’anziano esorcista lo fissava con un’espressione sconvolta. Da fuori, le orride creature senz’anima che galleggiavano nell’aria avevano iniziato a ondeggiare spalla a spalla, e a intonare una sorta di canto stridulo, una cacofonia innaturale di guaiti, belati, grugniti, schiocchi di lingua, gemiti. Subito dopo, avvertì il pavimento in pietra tremare sotto i suoi piedi.
“In nome di Dio, Padre Candido! Mi spieghi! Chi sono quelle persone là fuori?!”
“Non sono persone, figlio mio. Sono strigoi,” disse l’esorcista, avvicinandosi.
Lo afferrò per un braccio e lo trascinò in un angolo. Il volto sembrava cera fusa, come se fosse sul punto di liquefarsi. Brutte occhiaie si allungavano al di sotto degli occhi, che fiammeggiavano come braci di sigaretta nell’oscurità, sbarrati, quasi fuori dalle orbite. Corsi seppe in quel momento che stava per confrontarsi con qualcosa per la quale non era assolutamente preparato, né fisicamente né mentalmente, e la speranza di riuscire a fuggire dal convento con indosso non solo la sua carne e le sue ossa ma anche con sufficiente lucidità da poter affrontare il resto della sua vita senza impazzire iniziò a languire. Fu in quel preciso istante che gli tornarono alla mente i bambini che aveva conosciuto quando aveva abitato da quelle parti. Le loro espressioni malvagie, condiscendenti, sghignazzanti. E i morsi che davano.
“C-con cosa abbiamo a che fare, padre?” balbettò.
“Abbiamo a che fare con un mito, dottore. Un mito più antico dell’uomo, più antico del Vecchio Testamento. Qualcosa che c’era prima del tempo, prima di Nostro Signore. Abbiamo a che fare con l’essenza più pura dell’indifferenza dell’universo nei nostri confronti. Il Nero Onnisciente, La Cosa Oltre La Morte, il Primordiale, così veniva chiamato dalle prime civiltà. Una malvagità completamente al di là della nostra capacità di comprensione. Persino Nostro Signore Gesù Cristo ha dovuto morire per soggiogarlo. E tredici secoli dopo, Domenico Di Guzman riuscì a vincerlo una seconda volta. Anche lui a costo della propria vita.”
“Chi è quell’uomo in catene?”
“È il Male, l’Immondo Verme cresciuto sulla Terra, il primo Vampiro. Più vecchio di Dio e di Lucifero. Dentro quell’ampolla è presente il sangue del santo. È l’unico mezzo che abbiamo. Ma il rituale impone anche un sacrificio. Un estremo sacrificio.”
Lo psichiatra assunse un’espressione perplessa. Iniziava a sentire i primi sintomi fisici di un terrore abissale. Non riusciva a smettere di tremare. I singhiozzi gli squassarono il petto. Sentiva fredde lacrime d’angoscia premere contro la nuca. Stava iperventilando a causa dello sforzo di cacciarle indietro. Capiva l’urgenza di mantenersi saldo. Tuttavia.
“Che vuol dire, padre? Ho letto cose… ma non immaginavo, non potevo…”
“Luce e fuoco, argento e acqua santa, paletti nel cuore e aglio non hanno mai funzionato. Solo il sangue e la carne. Nostro Signore Gesù Cristo non è morto sulla croce, dottore. È stato fatto a pezzi, squartato. E poi mangiato. Non c’era altro sistema. Il Verro Maligno non lo ammette.”
Un rumore sordo si levò alle spalle dei due. Lo psichiatra si voltò. L’uomo in catene si era sollevato. Una faccia deforme piantò lo sguardo dritto nei suoi occhi. Corsi sentì come artigli incandescenti aprirsi un varco nella testa. Nella sua testa. Notò alcuni dettagli che gli causarono un immediato senso di nausea. L’uomo in catene aveva la pelle dura e irsuta come quella dei maiali, sul dorso delle mani e lungo le braccia spuntavano peli duri e ispidi. Aveva denti mostruosi, grandi, sporgenti. La bocca larga, frastagliata, senza labbra. Un male antico filtrava da quegli occhi caprini. Più antico di Dio. E infinitamente più potente. Lo psichiatra intuì l’attimo preciso in cui la sua mente iniziò a sprofondare nella sofferenza più acuta, a sganciarsi dalla realtà recidendo filo per filo il tessuto stesso della propria sanità mentale.
“Lo capisci quando dico che non c’era altro sistema?” chiese padre Candido.
E allora il dottor Corsi vide le creature appollaiate come rivoltanti gargoyle infrangere le vetrate e piombare verso il basso, in una cascata impazzita di schegge di vetro e urla possenti, e comprese il vero significato della parola destino.
“Lo capisci, vero?”
Non fu abbastanza veloce da rispondere. L’ombra di una morte atroce gli fu sopra.
* Racconto vincitore alla XI edizione del Premio Letterario Nazionale Streghe Vampiri & Co.