«Ma sì, e non ti mangerà per questo, stai tranquillo. Piuttosto, non dimenticarti: questo pomeriggio alle tre.»
«Oh, non temere!»
E Forestier se ne andò tutto frettoloso, mentre Duroy prese a salire lentamente, uno scalino dopo l'altro, cercando nel suo cervello le parole da dire, preoccupato dell'accoglienza.
Gli aprì il domestico. Aveva un grembiule turchino e la scopa in mano.
«Il signore è uscito.» disse, senza aspettar la domanda.
Duroy insisté: «Chiedete alla signora Forestier se può ricevermi, e ditele che mi manda suo marito. L'ho incontrato per la strada.»
Restò ad aspettare. L'uomo tornò, aprì un uscio a destra e annunciò: «La signora l'attende.»
Lei era seduta su una poltrona da ufficio, in una stanzetta con le pareti interamente nascoste dai libri ben allineati su scaffali di legno nero. Le rilegature di tinte diverse, rosse, gialle, verdi, viola e turchine, ponevano una nota gaia di colore in quel monotono schieramento di volumi.
Si voltò, sorridente come al solito, avvolta in una vestaglia bianca ornata di pizzi e gli porse la mano, mostrando il braccio nudo nell'ampia svasatura della manica.
«Già qui?» disse. Poi aggiunse: «Non è un rimprovero, è una semplice domanda.»
Lui balbettò: «Oh, signora, io non volevo salire, ma suo marito, che ho incontrato giù, mi ha costretto. Sono così confuso che non riesco nemmeno a dire perché sono venuto.»
Lei indicò una sedia: «Si sieda e mi dica.»
Rigirava agilmente tra le dita una penna d'oca, con davanti un gran foglio di carta scritto a metà, essendo stata interrotta dalla venuta del nostro giovanotto.
A quel tavolo da lavoro pareva essere a proprio agio come in salotto, intenta a un'ordinaria incombenza. Un profumo lieve alitava dalla vestaglia: il fresco profumo della toilette recente. E Duroy cercava d'indovinare, gli pareva di scorgere il corpo luminoso, pieno e caldo, delicatamente avvolto nella stoffa morbida.
Poiché lui non parlava, lei ripeté: «Su, mi dica, di cosa si tratta?»
Incerto, Duroy mormorò: «Ecco... ma per la verità... io non ho il coraggio... Ieri sera ho lavorato fino a tardissima ora... e stamattina... mi sono alzato molto presto... per scrivere l'articolo sull'Algeria che mi ha chiesto Walter... e non sono approdato a nulla di buono... ho stracciato tutti i miei tentativi... Non ci sono abituato, io, a questo genere di lavori; ed ero venuto per chiedere a Forestier d'aiutarmi.. per questa volta soltanto...»
Lei lo interruppe, ridendo di cuore, felice, divertita, lusingata: «E le ha detto di venir da me?... Carino...»
«Sì, mi ha detto che lei mi avrebbe tolto d'impiccio meglio di lui... Ma io, io non osavo, non volevo. Mi creda.»
La signora Forestier si alzò: «Sarà simpaticissimo collaborare. È un'idea che mi entusiasma. Su, si sieda al mio posto, al giornale conoscono la mia calligrafia. Imbastiremo un articolo che sarà una cannonata.»
Lui sedette, prese una penna, si spiegò davanti un foglio e rimase in attesa.
Rimasta in piedi, lei lo guardò fare tutti quei preparativi, poi, allungata una mano sul caminetto, prese una sigaretta e l'accese.
«Se non fumo non riesco a lavorare. - disse - Su, cosa vuole scrivere?»
Lui sollevò il capo, sorpreso.
«Ma è proprio quello che vorrei sapere. Sono venuto qui apposta.»
«Ma certo, - rispose lei - Le cucinerò io la faccenda. Le preparerò l'intingolo, ma mi ci vuole la pietanza.»
Lui continuava a starsene lì, imbarazzato; infine disse, esitante: «Vorrei raccontare il viaggio, fin dall'inizio.»
Allora lei gli si sedette davanti, all'altro capo dell'ampio tavolo, e guardandolo negli occhi: «Su, - lo esortò - racconti prima a me, soltanto per me, pian pianino, senza scordarsi nulla; ed io sceglierò quel che è meglio prendere.»
Ma, poiché lui non sapeva da dove iniziare, cominciò a interrogarlo come fa il prete al confessionale, con domande precise, atte a ricordargli particolari, personaggi incontrati e volti appena intravisti.
Dopo averlo costretto a parlare per un breve quarto d'ora, lo interruppe di colpo: «Adesso possiamo cominciare. Facciamo finta, intanto, che lei debba scrivere le sue impressioni a un amico, così sarà libero di dire un sacco di sciocchezze, di fare tutte le osservazioni che vuole, di apparire naturale e, sperando di farcela, divertente. Cominciamo:
«Caro Henry, vuoi saper cos'è l'Algeria, e lo saprai. Poiché in questa baracchetta di fango che mi funge da abitazione, sono disoccupato, t’invierò una specie di diario della mia vita, scritto giorno per giorno, ora per ora. Sarà un po' spinto qualche volta, ma pazienza, non sei obbligato a mostrarlo alle signore di tua conoscenza...»
S'interruppe per riaccendere la sigaretta spenta, e subito lo stridio garrulo della penna d'oca sul foglio cessò.
«Proseguiamo.» disse lei.
«L'Algeria è una vasta terra francese ai confini di vaste regioni sconosciute che si chiamano il deserto, il Sahara, l'Africa centrale, ecc., ecc.
Algeri è la porta bianca e affascinante, dello strano continente. Sennonché bisogna prima arrivarci, e il viaggio non è certo rose e fiori per chiunque. Io sono, lo sai, un ottimo cavallerizzo, ammaestro i cavalli del colonnello, ma si può essere ottimi cavalcatori e pessimi marinai. È il caso mio.
Ricordi l'ufficiale medico Simbretas, quello che noi chiamavamo dottor Ipecacuana? Quando ci ritenevamo idonei per un ventiquattr'ore d'infermeria, noi, beato paese, si marcava visita.
Quello se ne stava lì, seduto su una sedia con le sue coscione divaricate nei calzoni rossi, le mani sulle ginocchia e le braccia ad ansa, con i gomiti in fuori, e strabuzzava gli occhi bovini mordicchiandosi i baffi bianchi.
Ricordi la sua prescrizione? "Questo soldato soffre di un disturbo di stomaco. Somministrategli il vomitativo n. 3 secondo la mia ricetta; poi dodici ore di riposo e gli passerà."
Era un rimedio sovrano, quel vomitativo; sovrano e travolgente. Lo si buttava giù, perché così si doveva fare. Poi, una volta passati attraverso la ricetta del dottor Ipecacuana, si godeva delle ben meritate dodici ore di riposo.
Ebbene, mio caro, per raggiungere l'Africa bisogna subire, per quarant'ore, un'altra sorta di vomitativo travolgente, secondo la ricetta della Compagnia Transatlantica.»
La signora Forestier si diede una fregatina di mani, felice della sua trovata. Si alzò, e dopo aver acceso un'altra sigaretta si mise a passeggiare; e dettando espirava il fumo in fili sottili che, dapprima, uscivano diritti diritti da un buchetto tondo formato dalle sue labbra strette, poi si allargavano svaporavando e lasciando qua e là, nell'aria, delle strisce grigie: una specie di nebbia trasparente, una velatura, quasi a sembrare una ragnatela.
Ogni tanto, con la mano aperta, cancellava quelle leggere tracce, le più persistenti; oppure le tagliava con l'indice, standosene poi a guardare, con la più seria attenzione, i due monconi dell’impercettibile vapore, dileguarsi lentamente.
Duroy, col naso in aria, ne seguiva tutti i gesti, tutti gli atteggiamenti, tutti i moti del corpo e del volto in quel vago gioco che non le impegnava la mente.
Adesso la signora Forestier stava descrivendo le peripezie della traversata, tratteggiava il profilo di qualche compagno di viaggio di sua invenzione e imbastiva un'avventura galante con la moglie di un capitano di fanteria che andava a raggiungere il marito.
Poi, sedutasi, chiese a Duroy qualche ragguaglio topografico sull'Algeria, al cui proposito era assolutamente a digiuno. Le bastarono dieci minuti per saperne quanto lui, e buttò giù un capitoletto di geografia politica e coloniale per informare il lettore e per permettergli di comprendere i gravi problemi che sarebbero stati sollevati nei successivi articoli.
Proseguì con un'escursione nella provincia di Orano, una passeggiata tutta di fantasia, dove più che altro si parlava di donne, di maure, di ebree e di spagnole.
«È l'unica cosa che interessi.» disse.
Terminò con una sosta a Saida, ai piedi degli altipiani, con un simpatico intrighetto amoroso tra il sottufficiale Georges Duroy e una spagnola della manifattura di Ain-el-Hadjar.
Descrisse gli appuntamenti notturni sul monte sassoso e brullo, mentre gli sciacalli, le jene e i cani arabi urlavano, latravano e ululavano fra le rocce.
«Il resto a domani!» esclamò ilare. Poi aggiunse, alzandosi: «Ecco come si scrive un articolo, caro il mio signore. Firmi, per piacere.»
Lui tergiversava.
«Ma firmi, su!»
Si mise allora a ridere, e scrisse in calce alla pagina:
«GEORGES DUROY».
Mentre lei continuava a fumare e ad andar su e giù, il nostro giovanotto se ne stava a contemplarla senza riuscire a trovare un’adeguata parola di ringraziamento; beato e contento di esserle accanto, pervaso di gratitudine e di sensuale letizia per quell'intimità nascente. Gli pareva che tutto quanto le stava attorno fosse parte di lei. Tutto, perfino le pareti coperte di libri, le sedie e i mobili. L'aria, dove fluttuava l'odore del tabacco, aveva qualcosa di particolare, di buono, di dolce e di piacevole che emanava lei.
A bruciapelo la signora Forestier gli domandò:
«Che ne pensa della mia amica de Marelle?»
Duroy rimase sorpreso: «Ma... la trovo... la trovo molto attraente.»
«Vero?»
«Eh sì, sì.»
Avrebbe voluto aggiungere: «Non quanto lei, però.»
Non osò.
«E sapesse quant'è divertente, originale, intelligente! Spensierata come una bohémienne, sì, una vera bohémienne. Per questo suo marito non ne è entusiasta. Ne vede soltanto i difetti, senza apprezzarne le buone qualità.»
Duroy si stupì che la de Marelle fosse sposata. Eppure era la cosa più naturale del mondo.
Disse: «Ma come... è sposata? E cosa fa suo marito?»
La signora Forestier alzò leggermente le spalle e le sopracciglia, con un sol moto pieno di reconditi significati.
«Bah, è ispettore sulle ferrovie nord. Passa otto giorni al mese a Parigi. Otto giorni che sua moglie chiama "il servizio obbligatorio", oppure "la settimana di corvée", o anche "la settimana santa". Quando la conoscerà meglio, vedrà quant'è arguta e sottile. Vada a trovarla uno di questi giorni.»
Duroy non se ne sarebbe più andato; gli pareva di poter restar sempre lì, di essere a casa sua.
Ma, silenziosamente, si aprì la porta, e un signore alto entrò senza essere annunciato. Si fermò scorgendo un uomo. La signora Forestier apparve per un attimo imbarazzata, poi, con voce naturale, anche se una lieve vampa le era salita dalle spalle al volto, disse: «Entri, entri, mio caro. Le presento un bravo compagno d'armi di Charles, Georges Duroy, futuro giornalista.»
Quindi aggiunse, con altro accento: «Il conte de Vaudrec, il nostro migliore e più intimo amico.»
I due si salutarono guardandosi negli occhi, e Duroy si tolse subito dal campo.
Nessuno lo trattenne. Balbettò qualche ringraziamento, strinse la mano che gli aveva porto la giovane signora, s'inchinò ancora una volta davanti al sopraggiunto, che assumeva un contegno freddo e compassato di uomo di mondo, e uscì turbatissimo, come se avesse commesso qualche sciocchezza.
Una volta per la strada si sentì triste, scombussolato e tormentato dall'oscura sensazione di un cruccio misterioso. Camminava a caso, chiedendosi il perché di quella sua improvvisa malinconia; non riusciva a trovarne la causa, ma la figura severa del conte de Vaudrec, già anzianotto, con qualche capello grigio e con in volto l'imperturbabilità arrogante di chi ha molti soldi ed è sicuro di sé, non gli si levava dinanzi agli occhi.
Capì che era stato proprio quello sconosciuto, interrompendo col suo apparire un delizioso tu per tu cui in cuor suo aveva già preso gusto, a provocare in lui quel senso di gelo e di sconforto che a volte una semplice parola udita, un'inezia qualsiasi, una sciocchezzuola da nulla bastano a darci. E capì, pur non riuscendo a scorgerne il motivo, che quell'uomo era rimasto seccato di trovarlo lì.
Non aveva più nulla da fare fino alle tre e non era ancor mezzogiorno. Gli erano rimasti in tasca sei franchi e cinquanta, per cui andò a mangiare un boccone da Duval, una trattorietta da poco; poi bighellonò sul boulevard; e come scoccarono le tre, infilò la grande scala pubblicitaria della Vie Française.
I fattorini se ne stavano in attesa, seduti su una panca, a braccia conserte, mentre un usciere, dietro una specie di piccola cattedra scolastica, smistava la posta appena giunta. La messa in scena era perfetta per far colpo sui visitatori. Lì, tutti erano pieni di contegno, di sostenutezza, di decoro e di stile, come si conviene all’anticamera di un grande giornale.
Duroy chiese: «Il signor Walter, per favore?»
L'usciere rispose: «Il signor direttore è in riunione. Se vuole accomodarsi un momento.» e gli additò il salottino d'attesa, già gremito di gente.
Vi si scorgevano uomini di grave aspetto, commendatori, persone importanti, e poveracci malmessi con la camicia interamente nascosta dalla finanziera, abbottonata fino al collo e, sul davanti, piena di macchie frastagliate come i continenti e gli oceani di una carta geografica. Fra tutta quella gente erano mescolate tre donne. Una carina, col sorriso sulle labbra, tutta in ghingheri, probabilmente una cocotte; l'altra, accanto a lei, con una maschera tragica, tutta rughe, vestita in modo austero, con quel non so che di stremato e di artefatto che hanno, in genere, le vecchie attrici: qualcosa come una fittizia giovinezza inacetita, come un profumo d'amore andato a male.
La terza donna, in gramaglie, se ne stava lì in un angolo, con l'aria della vedovella sconsolata. Duroy pensò che fosse venuta a chiedere l'elemosina. Sebbene fossero già trascorsi venti minuti, non avevano ancor fatto entrare nessuno.