Capitolo III-1

2007 Words
Capitolo III Giunto sul marciapiede, Georges Duroy rimase un attimo incerto, non sapendo neppur lui cosa fare. Aveva voglia di correre, di sognare, di camminare a caso pensando al proprio domani e respirando l'aria mite della notte, ma lo preoccupavano gli articoli che gli aveva chiesto zi' Walter, perciò decise di rincasare subito per mettersi al lavoro. Si avviò di buon passo, raggiunse il boulevard esterno e lo seguì fino a Rue Boursault, dove abitava. Lo stabile di sei piani, ospitava venti famiglie di operai e d’impiegatucci, e nel salire rischiarando con un cerino gli scalini sporchi e ingombri di pezzetti di carta, di cicche e di bucce, fu preso da un violento senso di nausea e sentì impellente il bisogno di uscire da lì, di avere anche lui una casa come quella dei ricchi: una casa pulita e piena di tappeti. Un tanfo opprimente di cucina, di gabinetti e di umanità; un lezzo stagnante di sporcizia e di vecchi muri, che nessuna corrente d'aria avrebbe potuto spazzar via, saturava l'ambiente da cima a fondo. La camera del nostro giovanotto, al quinto piano dava, come su un profondo abisso, sull'immenso trincerone della ferrovia ovest, proprio a strapiombo sull'imboccatura del tunnel, vicino alla stazione delle Batignolles. Duroy aprì la finestra e si appoggiò alla ringhiera di ferro arrugginito. Sotto di lui, in fondo al buio fossato, tre dischi rossi, fissi, sembravano gli occhi di un mostro; e altri se ne scorgevano più in là, e altri ancora più lontani. A ogni istante, fischi prolungati o brevissimi attraversavano la notte, alcuni vicini e altri appena percettibili, che giungevano da laggiù, dalle parti di Asnières. Avevano delle modulazioni come di voci che si chiamano. Uno di questi si avvicinò, lanciando di continuo il suo appello lamentoso che andava crescendo d'attimo in attimo, e ben presto apparve una forte luce gialla che correva con gran frastuono; e Duroy rimase a guardare il lungo rosario di vagoni imbucarsi nella galleria. Infine disse fra sé: «Su, al lavoro.» Posò il lume sul tavolo, ma al momento di mettersi a scrivere si accorse di avere in casa soltanto una busta di carta da lettere. Pazienza, avrebbe aperto i fogli usandoli in tutta la loro ampiezza. Inzuppò la penna nel calamaio e scrisse con la sua migliore grafia: “Ricordi d'un cacciatore d'Africa” Poi cercò l'inizio della prima frase. Se ne stava lì, immobile, con la fronte appoggiata al palmo della mano, gli occhi fissi sul foglio bianco che aveva davanti. Che dire? Ora non ricordava più nulla di quanto aveva raccontato poco prima: non un aneddoto, non un fatto, niente. Poi, d'improvviso, gli venne un'ispirazione: «Devo cominciare dalla mia partenza.» e scrisse: «Eravamo nel 1874, verso la metà di maggio, allorché la Francia, stremata, stava riprendendo fiato dopo le catastrofi dell'anno terribile...» Ma si fermò di botto, non sapendo come introdurre il seguito, cioè l'imbarco, il viaggio e le prime emozioni. Dopo dieci minuti di riflessione decise di rimandare all'indomani il “cappello” introduttivo, e di iniziare subito con una descrizione di Algeri, così vergò sulla carta: «Algeri è una città bianca bianca...» senza venire a capo d'altro. Con la mente rivedeva la bella città luminosa che, come una cascata di case piatte, ruzzolava dal monte al mare, ma non trovava una parola per esprimere quanto aveva visto e ciò che aveva sentito nell'animo. Con un grande sforzo aggiunse: «È abitata in parte da arabi...» poi scaraventò la penna sul tavolo e si alzò. Sul suo lettuccio di ferro, avvallato nel mezzo dal peso del suo corpo, scorse i vestiti di ogni giorno buttati lì, vuoti, logori, flosci e laidi come stracci dell'obitorio. E su una sedia di paglia il cappello a cilindro, l'unico in suo possesso, rovesciato come per accogliere l'elemosina. Sulle pareti, tappezzate di carta grigia a mazzolini azzurri, le macchie non erano meno numerose dei fiori; macchie vecchie, sospette, di natura indefinibile, insetti schiacciati o gocce d'olio, ditate di ceretta o schizzi di saponata provenienti dalla catinella del lavamano. Tutta roba che sapeva di miseria: l'umiliante miseria delle camere ammobiliate di Parigi. Esasperato, provò un senso di ribellione contro la povertà della sua vita. Doveva uscire subito da lì, pensò, finirla dall'indomani stesso con quell'esistenza meschina. Ripreso ad un tratto da una gran voglia di lavorare, si sedette di nuovo al tavolino, e riandò a caccia di frasi per descrivere lo strano e affascinante volto di Algeri, anticamera dell'Africa misteriosa e profonda: l'Africa degli arabi errabondi e dei negri sconosciuti, l'Africa inesplorata e tentatrice, con quegli incredibili animali che talvolta ci mostrano ai giardini pubblici, e che sembrano creati per i racconti delle fate: gli struzzi, stravaganti polli, le gazzelle, caprette divine, le sorprendenti e grottesche giraffe, i cammelli così compassati, i mostruosi ippopotami, gli informi rinoceronti e i gorilla, orrendi fratelli dell'uomo. Gli venivano confusamente delle idee; le avrebbe forse sapute dire, ma non riusciva assolutamente a esprimerle per iscritto. E poiché quell'impotenza gli provocava quasi la febbre, si alzò di nuovo, con le mani madide di sudore e il sangue che gli martellava alle tempie. Lo sguardo gli cadde sul conto della lavandaia, portato su, quella stessa sera, dal portinaio, e all'improvviso fu colto da una nera disperazione. Tutta la sua allegria scomparve all'istante, insieme con la fiducia in se stesso e con la fede nell'avvenire. Finito, era tutto finito; non avrebbe combinato nulla, non sarebbe diventato nessuno; si sentiva vuoto, inetto, inutile e condannato. Tornò ad affacciarsi alla finestra, proprio mentre un treno sbucava dal tunnel con un fracasso improvviso e violento. Se ne filava via per campi e pianure, laggiù, verso il mare; e Duroy provò una fitta al cuore pensando ai genitori. Quel convoglio sarebbe passato vicino a loro, a poche leghe appena dalla loro casa. La rivedeva col pensiero la casetta in cima al colle che domina Rouen e l'immensa vallata della Senna, all'ingresso del villaggio di Canteleu. Suo padre e sua madre gestivano un piccolo caffé, una bettola, dove la domenica andavano a desinare i bravi borghesi dei sobborghi: “Bella vista” si chiamava il locale. Avrebbero voluto far del loro figliolo una persona distinta, e l'avevano messo in collegio. Giunto all'ultimo anno senza riuscire a prendere la licenza, lui si era arruolato con l'intenzione di diventare ufficiale: colonnello, generale. Ma disgustato della vita militare, ancor prima di aver terminato i cinque anni di ferma, aveva sognato di far fortuna a Parigi. Vi si era trasferito appena congedato, nonostante le preghiere del padre e della madre che ora, svanito il loro sogno, avrebbero voluto tenerselo a casa. Ma era lui, adesso, a nutrire speranze per l'avvenire, a intravvedere già il proprio trionfo, grazie ad eventi che certamente avrebbe provocato e assecondato, anche se ancora confusi nella sua mente. Sotto le armi, aveva ottenuto qualche successo di guarnigione, facili avventurette galanti, ma anche qualche avventura in ambienti più raffinati, come quando aveva sedotto la figlia di un esattore che voleva a tutti i costi piantar baracca e burattini per seguirlo, o la moglie di un avvocato che, abbandonata, tentò di affogarsi per la disperazione. I suoi commilitoni dicevano di lui: «È un dritto, un furbacchione, uno che ci sa fare e che riuscirà a sbrogliarsela.» E questo si era appunto ripromesso di essere: un dritto, un furbacchione, uno che ci sa fare. La sua coscienza originaria di normanno, strapazzata dalla pratica quotidiana della vita di guarnigione, stiracchiata dal cattivo esempio delle ruberie in Africa, dei guadagni illeciti, delle soperchierie equivoche, nonché sferzata dalle idee d'onore che hanno corso nell'esercito, dalle bravate militaresche, dal patriottismo, dalle belle imprese che si raccontano fra loro i sottufficiali e dalla vanità professionale, era diventata una specie di scatola a triplice fondo, dove si trovava un po' di tutto. Ma la smania di arrivare vi regnava sovrana. Senza avvedersene si era rimesso a fantasticare, come ogni altra sera. Stava sognando una splendida avventura d'amore che, di botto, traduceva in realtà le sue chimere. Si sposava con la figlia di un banchiere o di un gran signorone, incontrata per la strada e là per là rimasta cotta di lui. Il fischio stridulo di una locomotiva che, sbucata sola dalla galleria come un conigliolone dalla tana, filava a tutto vapore sulle rotaie per andare a riposarsi in deposito, lo richiamò sulla terra. Ma riafferrato subito dal vago e ridente miraggio che di continuo lo struggeva, lanciò a caso un bacio nella notte, un bacio d'amore diretto all'immagine della donna attesa, un bacio di desiderio diretto alla fortuna agognata. Poi chiuse la finestra e cominciò a spogliarsi mormorando: «Bah, domattina mi riuscirà più facile. Non ho la mente sgombra, stasera. E poi, forse ho anche bevuto un po' troppo. Si lavora male in queste condizioni.» Si coricò, spense il lume e si addormentò quasi subito. Si svegliò presto, come succede sempre nei giorni di viva speranza o preoccupazione, e saltato giù dal letto, aprì la finestra per bersi, come amava dire, un bel tazzone d'aria fresca, Le case di Rue de Rome, là dirimpetto, oltre il largo fossato della ferrovia, tutte uno sfolgorio nel sole sorgente, sembravano spalmate di una candida luminosità. A destra, in lontananza, si scorgevano i colli d'Argenteuil, le alture di Sannois e i mulini d'Orgemont in una nebbiolina azzurrata e leggera, simile a un velo ondeggiante e trasparente teso sull'orizzonte. Duroy rimase per qualche minuto a guardare la campagna lontana e mormorò: «Si deve stare fottutamente bene, laggiù, in una giornata come questa.» Poi si ricordò che doveva mettersi subito al lavoro, e che doveva anche mandare il figliolo della portinaia, previo un mezzo franco di mancia, ad avvertire in ufficio che lui si sentiva male. Sedette al tavolino, inzuppò la penna nel calamaio, appoggiò la fronte al palmo della mano e si mise in cerca d'idee. Fatica vana. Non gliene veniva nemmeno una, ma non si perse d'animo e pensò: «Bah, non ci sono avvezzo. È un mestiere che bisogna imparare come ogni altro. Devono aiutarmi, le prime volte. Andrò da Forestier, che mi metterà in piedi l'articolo in dieci minuti.» E si vestì. Quando fu per la strada, gli parve che fosse ancora un po' prestino per presentarsi dall'amico, che probabilmente dormiva fino a tardi. Perciò si mise a gironzolare, passo passo, sotto gli alberi del boulevard esterno. Non erano ancora le nove, e giunse fino al parco Monceau, tutto bagnato e fresco della recente annaffiata. Sedutosi su una panchina, riprese a fantasticare. Un giovanotto gli passeggiava davanti su e giù, molto elegante, certamente in attesa di una donna. La vide spuntare, velata, a passettini svelti; prese il braccio di lui, dopo una breve stretta di mano, e si allontanarono. Un tumultuoso bisogno d'amore punse il cuore di Duroy; un bisogno d'amori raffinati, profumati, delicati. Si alzò e si rimise a camminare pensando a Forestier. Quello sì che era fortunato! Giunse al portone dell'amico proprio sul punto in cui questi ne usciva. «To', a quest'ora! Che c'è?» Duroy, confuso dall'averlo incontrato così, mentre se ne stava andando, balbettò: «C'è... c'è... c'è che io l'articolo non riesco a metterlo insieme; sai, quell'articolo sull'Algeria che mi ha chiesto Walter. Del resto non c'è da stupirsi troppo, dato che non ho mai scritto un rigo. Ci vuole pratica anche in questo, come in ogni altra cosa. Ci farò presto il callo , ne sono sicuro, ma per prendere l'avvio non so da che parte rifarmi. Le idee le ho, le ho tutte, ma non riesco a esprimerle.» Si fermò, un poco esitante. Forestier sorrideva malizioso: «L'ho provato anch'io.» Duroy riprese: «Già, deve capitare a tutti, le prime volte. Beh, ero venuto... ero venuto per chiederti se può darmi una mano... In dieci minuti tu potresti mettermi in piedi l'articolo, indicarmi per quale verso va preso. Sarebbe una bella lezione di stile, altrimenti, senza di te, non so proprio come cavarne le gambe.» L'altro continuava a sorridere divertito. Diede un colpetto sul braccio all'ex compagno d'armi, e gli disse: «Vai su da mia moglie, è brava quanto me e ti sistemerà la faccenda. L'ho allenata in questo genere di lavori. Io stamani non ho tempo, altrimenti l'avrei fatto io ben volentieri.» Duroy, d'un tratto intimidito, esitava, non ardiva: «Ma non posso certo presentarmi da lei a quest'ora!...» «Ma ti dico di sì. È già alzata. La troverai nel mio studio, sta riordinando certi miei appunti.» L'altro non voleva salire. «No... non posso...» Forestier gli mise le mani sulle spalle, lo fece girare sui tacchi, e spingendolo verso le scale: «Ma vai, - gli disse - vai, minchione che non sei altro; se sono io, a dirti d'andare! Non vorrai costringermi a risalire tre piani per annunciarti e spiegare di cosa hai bisogno!» Allora Duroy si decise: «Ti ringrazio, andrò. Ma le dirò che sei stato tu a obbligarmi, letteralmente a obbligarmi.»
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