Walter, fra una portata e l'altra, scettico e volgaruccio com'era, ne sfoderò qualcuna delle sue; Forestier parlò del suo articolo per l'indomani e Jacques Rival rivendicò un governo militare con concessioni di terre a tutti gli ufficiali, dopo trent'anni di servizio coloniale.
«Si creerebbe, in tal modo, - diceva - una società forte: una società che per lunga esperienza ha imparato a conoscere e ad amare il paese, ne conosce la lingua ed è consapevole di tutti i gravi problemi locali che sono lo scoglio ineluttabile di quanti arrivano là freschi freschi.»
Norbert de Varenne lo interruppe: «Già... conoscerebbero tutto, tranne l'agricoltura. Parlerebbero l'arabo, ma ignorerebbero come si trapiantano le barbabietole e come si semina il grano. Magari sarebbero anche forti nella scherma, ma debolissimi in fatto di concimi. Bisognerebbe piuttosto aprire con larghezza, a tutti quanti, quelle nuove contrade. Le persone intelligenti vi farebbero strada e gli altri soccomberebbero. È la legge sociale.»
Seguì un breve silenzio. Le labbra erano atteggiate al sorriso.
Georges Duroy aprì la bocca e disse, sorpreso dal suono della propria voce, come se la udisse per la prima volta: «Quel che manca laggiù, più che altro, sono dei buoni terreni. I fondi veramente fertili sono cari come in Francia e vengono comprati dai ricconi di Parigi a titolo d'investimento. I coloni autentici, i poveracci, quelli che emigrano per trovare un tozzo di pane, vengono respinti nel deserto, dove non nasce nulla per mancanza d'acqua.»
Lo guardavano tutti quanti. Sentì un rossore salirgli alle guance.
Walter gli domandò: «Lei conosce l'Algeria?»
Rispose: «Sì, ci sono stato ventotto mesi, fermandomi a lungo in ciascuna delle tre province.»
Poi, d'improvviso, lasciando perdere il caso Morel, Norbert de Varenne gli chiese una precisazione su una certa usanza appresa da un ufficiale. Si riferiva allo Mzab, la strana repubblichetta araba sorta nel cuore del Sahara, nella zona più arida di quelle terre bruciate.
Duroy era stato due volte nello Mzab, e accennò ai costumi di quel singolare paese, dove ogni goccia d'acqua vale tanto oro, dove ogni abitante è tenuto a tutti i servizi pubblici, dove la probità commerciale è tanto più rigorosa che non tra i popoli civili.
Parlò con una certa verbosità un po' smargiassa, eccitato dal vino e dal desiderio di piacere; raccontò aneddoti di vita militare, tratti caratteristici di vita araba, avventure di guerra. Trovò perfino qualche parola colorata per descrivere quelle contrade gialle e desolate a perdita d'occhio, sotto la vampa vorace del sole.
Le donne gli tenevano tutte gli occhi addosso. La signora Walter mormorò con la sua voce posata: «Lei, con i suoi ricordi, potrebbe mettere insieme una bella serie di articoli.» Allora Walter squadrò il giovanotto con un'occhiata sopra le lenti, come usava fare quando voleva esaminare bene un volto.
Di sotto le lenti, invece, sbirciava le portate.
Forestier colse la palla al balzo: «Caro direttore, proprio questo pomeriggio le ho parlato di Georges Duroy, pregandola di assumerlo come mio aiuto nel servizio informazioni politiche. Dacché Marambot ci ha lasciato, non ho più nessuno da inviare a raccogliere informazioni urgenti e confidenziali, e il giornale ne soffre.»
Zi' Walter si fece serio e si alzò fin sulla fronte gli occhiali, per guardar bene in faccia Duroy. Poi disse: «Ma certo, Duroy ha un suo talento originale. Se vorrà venire a parlar con me, domani alle tre, sistemeremo la cosa.»
Poi, dopo una pausa, e rivolgendosi direttamente al nostro giovanotto, aggiunse: «Però, ci dovrà far subito una serie d'articoli di fantasia su quelle terre. Parli dei suoi ricordi personali, ficcandoci in mezzo, come ha fatto poco fa, il problema della colonizzazione. È un argomento d'attualità, di scottante attualità, e sono certo che piacerà molto ai nostri lettori. Ma faccia presto! Mi occorre il primo pezzo per domani o posdomani, mentre si sta discutendo alla Camera, per attrarre il pubblico.»
La signora Walter, con la contegnosa grazia che poneva in ogni suo atto e che conferiva un tono di benevolenza alle sue parole, notò: «Lei ha già un bellissimo titolo: "Ricordi di un cacciatore d'Africa"; vero, signor Norbert?»
Il vecchio poeta, giunto tardi alla notorietà, detestava e temeva qualsiasi nuovo venuto. Rispose asciutto:
«Certo, ottimo addirittura, purché il seguito, poi, si mantenga intonato, giacché il difficile sta proprio qui: conservare il tono giusto, quel che in musica si dice: la giusta intonazione.»
La signora Forestier avvolgeva Duroy con un sorridente sguardo protettore, uno sguardo da intenditrice che pareva dire: «Sì, farai strada, tu.»
La de Marelle si era voltata spesso verso di lui, e il brillante le tremolava di continuo all'orecchio, come se la delicata goccia d'acqua fosse lì lì per staccarsi e cadere.
La bambina se ne rimaneva immobile e seria, col capo chino sul piatto.
Intanto il domestico stava facendo il giro della tavola, mescendo vino di Johannisberg nei bicchieri cilestrini ; e Forestier brindò rivolto a Walter: «Alla Vie Française, alla sua lunga prosperità!»
Tutti s'inchinarono al Padrone, che sorrideva, e Duroy, visibilmente allegro per il trionfo, tracannò d'un fiato il bicchiere. Avrebbe vuotato, allo stesso modo, un barile intero, ne era certo; avrebbe divorato un bue, strangolato un leone. Si sentiva nelle membra un vigore sovrumano, nell'animo una risolutezza a prova di bomba e una sconfinata speranza.
Si trovava nel suo, adesso, fra quella gente; vi si era inserito, vi aveva conquistato un posto. Il suo sguardo si posava sui volti con una sicurezza nuova, e per la prima volta osò rivolgere la parola alla sua vicina di tavola:
«Non ho mai visto signora, un paio d'orecchini più belli dei suoi.»
Lei si voltò sorridendo: «Già, è stata un'idea mia lasciar ciondolare così dei brillanti, appesi semplicemente a un filo. Sembrano due gocce di rugiada, vero?»
Lui mormorò, confuso dalla propria audacia e col timore di dire una sciocchezza:
«Sono stupendi... ma non è anche merito dell'orecchio?»
Lei lo ringraziò con uno sguardo: uno di quei luminosi sguardi femminili che ti vanno diritti diritti al cuore.
Voltandosi, Duroy incontrò di nuovo gli occhi della signora Forestier, ancora pieni di simpatia per lui, ma con in più, gli parve, una maggior vivacità, una certa malizia, un incoraggiamento.
Gli uomini, adesso, parlavano tutti insieme, con gesti e scoppi di voci; si discuteva sul grande progetto della ferrovia metropolitana. L'argomento si esaurì soltanto con l'ultima portata, avendo ciascuno un'infinità di cose da dire sulla lentezza delle comunicazioni a Parigi e sulla scomodità dei tram, sugli inconvenienti degli omnibus e sulla malacreanza dei vetturini.
Poi lasciarono la sala da pranzo per andare a prendere il caffè. Duroy, scherzosamente, porse il braccio alla bambina, che lo ringraziò seria seria e si sollevò sulla punta dei piedi per potergli posare la mano sul gomito.
Entrando in salotto ebbe di nuovo la sensazione di accedere in una serra. Imponenti palme aprivano le loro eleganti foglie nei quattro cantoni della stanza, correvano dritte fino al soffitto e poi ricadevano giù, slargandosi come zampilli.
Ai lati del caminetto, due fichi della gomma, dai fusti cilindrici come colonne, disponevano in vari ordini sovrapposti le lunghe foglie di un verde cupo, e sul pianoforte due frutici sconosciuti, come due palloni fitti di fiori, uno tutto rosa e l'altro tutto bianco, sembravano piante finte, inverosimili, troppo belle per essere vere.
L'aria era fresca e pervasa da un profumo vago, soave e indefinibile, al quale era impossibile dare un’attribuzione precisa.
Il nostro giovanotto, ormai più padrone di sé, osservò attento l'ambiente; non era grande e nulla dava nell'occhio, tranne quegli arbusti. Nessun colore troppo vivo colpiva, ma ci si sentiva a proprio agio lì dentro, ci si sentiva in pace, rilassati; era un ambiente che avvolgeva con dolcezza il corpo, in modo piacevole, come una carezza che sfiorasse le membra.
Le pareti erano tappezzate di stoffa antica di un viola sfatto, con tanti fiorellini di seta gialla, piccoli come mosche.
Portiere di panno grigio azzurro, il panno dei soldati, con qualche garofano ricamato di seta rossa, ricadevano giù sugli usci; e tutti i mobili su cui sedersi, di ogni forma e dimensione, sparpagliati a caso: sedie a sdraio, poltrone enormi o minuscole poltroncine, poufs e sgabelli, erano rivestiti di seta Luigi XVI o di un bel velluto di Utrecht, con disegni color granato su fondo crema.
«Prende un caffè, signor Duroy?»
La signora Forestier gli porse una tazzina colma, con quel sorriso amichevole che non abbandonava mai le sue labbra.
«Sì, signora, grazie.»
Prese la chicchera, e mentre stava chino, pieno d'angoscia per afferrare con le mollette d'argento una zolletta dalla zuccheriera recatagli dalla bambina, la giovane signora gli disse sottovoce:
«Su, faccia un po' di corte alla signora Walter.»
Poi si allontanò, senza lasciargli il tempo di risponderle una sola parola. Duroy bevve il caffè che temeva di rovesciare sul tappeto, poi, liberatosi di quella preoccupazione, cercò un pretesto per avvicinar la moglie del suo nuovo direttore e attaccare discorso.
Accortosi che costei aveva ancora in mano la tazzina vuota e che, non avendo un tavolino a portata di mano, non sapeva dove posarla, si precipitò.
«Permette, signora?»
«Oh, grazie.»
Portò via la tazzina e tornò: «Sapesse, signora, quanti bei momenti ho passato con la Vie Française, laggiù nel deserto. È proprio l'unico giornale che si possa leggere fuori di Francia, perché più letterario, più spiritoso e meno monotono d'ogni altro. Ci si trova di tutto, dentro.»
Lei sorrise con garbato distacco, e rispose, grave:
«Mio marito ha dovuto penare molto per dare vita a un giornale così, capace di rispondere alle nuove esigenze.»
E presero a conversare. Duroy aveva la parola facile ma banale, possedeva un certo fascino nella voce, molta grazia nello sguardo e un'irresistibile forza di seduzione nei baffi. Un bel paio di baffi scarruffati sul labbro superiore, crespi, arricciolati all'insù, di un biondo quasi lionato che andava impallidendo verso le punte.
Parlarono di Parigi, dei dintorni, delle rive della Senna, delle stazioni climatiche, degli svaghi che offre l'estate e di tutte le solite cose delle quali si può discorrere all'infinito senza affaticare il cervello.
Poi, dato che si stava avvicinando Norbert de Varenne, con un bicchierino di liquore in mano, Duroy si allontanò per discrezione.
La signora de Marelle, che fino a quel momento si era intrattenuta con la signora Forestier, lo chiamò: «E così, - gli disse di punto in bianco - ci diamo al giornalismo, eh?»
Duroy parlò allora dei suoi progetti, in termini alquanto vaghi, poi ripeté con lei i discorsi tenuti un momento prima con la signora Walter; ma questa volta facendo miglior figura, giacché possedeva meglio l'argomento e poteva ripetere, come farina del suo sacco, tutto quanto aveva udito poc’anzi. E quasi a dare un senso più profondo alle proprie parole, non staccava un attimo gli occhi da quelli della sua vicina.
Toccò poi a lei raccontargli qualche fatterello, col fatuo brio della donna che sa di essere spiritosa e che, a ogni occasione, vuol apparire originale; e posatagli confidenzialmente una mano sul braccio, abbassando la voce, prese a parlargli di piccolezze qualsiasi che, dette così, acquistavano il sapore di gelose confidenze.
Nel sentirsi sfiorato da quella giovane signora che gli prestava qualche attenzione, lui andava esaltandosi dentro di sé. Avrebbe voluto, su due piedi, votarsi interamente a lei, difenderla e mostrarle il proprio valore. I suoi stessi indugi nel risponderle mostravano l'assillo dei suoi pensieri.
D'un tratto, senza alcun motivo, la signora de Marelle chiamò: «Laurine!» e la bambina accorse.
«Siediti qui, piccina mia, piglierai freddo accanto alla finestra.»
A Duroy venne una voglia matta di dare un bacio alla ragazzina, come se qualcosa di quel bacio si fosse potuto riversare sulla madre.
Con tono, fra paterno e galante, le chiese: «Permette che le dia un bacio, signorina?»
La bimba alzò gli occhi su di lui, piena di meraviglia. La signora de Marelle disse ridendo: «Rispondigli così: "Per questa volta glielo permetto, ma non ci prenda l'abitudine."»
Sedutosi, Duroy si mise sulle ginocchia Laurine e le sfiorò con le labbra i capelli fini e ondulati.
La madre rimase stupita: «To', non è nemmeno scappata; c'è da restare di sasso. Di solito si fa baciare soltanto dalle donne. Lei e irresistibile, signor Duroy.»
Lui arrossì, senza rispondere, facendo ballare pian pianino la piccola sulle ginocchia.
La signora Forestier si avvicinò, e con un gridolino di sorpresa, disse: «Ma guarda, Laurine addomesticata! Ma è un miracolo!»
Si stava avvicinando anche Jacques Rival, col sigaro in bocca, e Duroy si alzò per andarsene, timoroso di rovinare, con qualche parola fuori posto, l'opera di conquista intrapresa.
Salutò, prese e strinse delicatamente la manina delle signore, e scosse con forza la mano degli uomini. Notò che quella di Jacques Rival era asciutta e calda, e rispondeva cordialmente alla stretta; quella di Norbert de Varenne umidiccia, fredda e scivolava di fra le dita; quella di zi' Walter fredda e molle, senza energia, senza espressione; quella di Forestier, grassa e tiepida.
L'amico gli disse sottovoce: «Domani alle tre, non ti dimenticare.»
«Oh no, non aver paura.»
Quando fu per le scale, gli venne voglia di scendere di corsa, tanta era incontenibile la sua gioia, e si buttò facendo gli scalini a due a due; ma scorto a bruciapelo, nella specchiera del secondo piano, un signore che di gran fretta gli veniva incontro a balzelloni, si fermò di botto, vergognoso come se l'avessero colto in fallo.
Poi si rimirò a lungo, meravigliato di essere davvero un così bel giovanotto; si fece un gran sorriso di compiacimento e infine, accomiatandosi dalla propria immagine, salutò profondamente, cerimoniosamente, come si saluta un personaggio importante.
[1] Ganimede è una figura della mitologia greca, figlio di Troo re dei Dardani e di Calliroe una delle naiadi. Principe del popolo troiano, il poeta Omero lo descrive come il più bello di tutti i mortali del suo tempo.