Capitolo II
«Il signor Forestier, per favore?»
«Al terzo piano, la porta a sinistra.»
Il portinaio aveva risposto premurosamente, lasciando trasparire nella voce la considerazione in cui teneva il proprio coinquilino. E Georges Duroy prese a salire le scale.
Era un po' impacciato, intimidito e a disagio. Per la prima volta in vita sua indossava l'abito da società, e l'insieme dell'abbigliamento lo preoccupava. Lo sentiva, nel complesso, difettoso: vuoi per gli stivaletti che non erano di copale, anche se piuttosto fini, giacché era vanitoso in fatto di calzature, vuoi per la camicia da quattro franchi e cinquanta comprata la mattina stessa al Louvre, il cui sparato, troppo sottile, già cominciava a spaccarsi. Delle altre camicie, quelle di tutti i giorni, presentando ognuna magagne più o meno gravi, non aveva potuto utilizzare neppur la meno sciupata.
I pantaloni, un po' troppo larghi, modellavano male la gamba; pareva che gli si avvolgessero malamente intorno al polpaccio e avevano l'aspetto cincischiato che acquistano sempre i vestiti usati sulle membra che sono chiamati a coprire a caso. La marsina, invece, gli calzava abbastanza bene, avendone trovata una, suppergiù, della sua misura.
Saliva lento gli scalini, col batticuore e pieno d'ansia, assillato soprattutto dal timore di apparire ridicolo. Di colpo, gli si parò davanti un signore elegantissimo, che lo stava guardando, così a faccia a faccia che Duroy arretrò di un passo per poi fermarsi stupefatto: era lui in persona, riflesso da un'alta specchiera verticale che apriva sul pianerottolo del primo piano la lunga prospettiva di un corridoio.
Sussultò d'improvvisa gioia, trovandosi infinitamente migliore di quanto supponeva. Non disponendo a casa che dello specchietto da barba, non aveva avuto modo di contemplarsi intero, e poiché in quello vedeva soltanto, e molto malamente, le varie parti del suo improvvisato abbigliamento, ne esagerava le imperfezioni, sgomentandosi al pensiero di essere grottesco.
Ma ecco che, scorgendosi all'improvviso nello specchio, non si era nemmeno riconosciuto; si era scambiato per un altro: per un uomo di mondo che fin dalla prima occhiata gli era parso a postissimo, elegantissimo.
Guardandosi attentamente, riconosceva che adesso poteva dirsi soddisfatto dell'insieme. Prese allora a studiarsi, come fanno gli attori per imparare la parte. Si sorrise, si porse la mano, fece qualche gesto, espresse qualche sentimento: stupore, piacere, approvazione; e cercò le varie sfumature del sorriso e le occhiate piene d'intenzione che ci vogliono per mostrarsi galanti con le signore, per far loro capire che sono ammirate e desiderate.
Una porta si aprì sulla scala. Temette d'esser sorpreso e ricominciò a salire svelto, con una gran paura addosso che un qualche invitato del suo amico l'avesse sorpreso mentre stava facendo tutte quelle moine.
Raggiunto il secondo piano, scorse un altro specchio e rallentò il passo per guardarsi mentre passava. Il suo aspetto gli parve molto distinto. Aveva un bell'incedere, e una smodata fiducia in sé gli colmò l'animo. Avrebbe sfondato senz'altro con quella sua presenza, con la sua smania di arrivare, con la risolutezza di cui si sapeva capace e con il suo spirito d'indipendenza.
Gli era venuta voglia di correre e di saltare facendo l'ultima rampa. Si fermò davanti al terzo specchio, si arricciò i baffi con gesto a lui abituale, si tolse il cappello per aggiustarsi i capelli e mormorò a bassa voce, come gli capitava spesso di fare: «Però, che invenzione.» Poi, allungata la mano verso il campanello, suonò.
La porta si aprì quasi subito e si trovò al cospetto di un domestico in abito nero, grave, sbarbato, così inappuntabilmente vestito che, di nuovo, Duroy si turbò senza riuscire a capire da dove venisse quel vago patema: forse da un inconscio confronto fra il taglio dei loro abiti.
Quel lacchè, che calzava scarpe di copale, nel prendere il soprabito che Duroy teneva sul braccio nel timore che se ne vedessero le macchie, domandò:
«Chi devo annunciare?»
E lanciò il nome in direzione di un salotto dov’era inevitabile entrare.
Perduta di colpo ogni baldanza, Duroy si sentì paralizzato dal timore, col cuore in gola. Stava per compiere il suo primo passo nell'esistenza sognata, tanto attesa. Tuttavia, varcò la soglia.
Una giovane donna bionda era lì, in piedi ad aspettarlo, sola, in una grande stanza ben illuminata e piena di piante come una serra. Si fermò di colpo, completamente sconcertato. Chi era quella signora che gli stava sorridendo? Poi si ricordò che Forestier era sposato; e al pensiero che quella bella ed elegante biondina potesse essere la moglie dell'amico, finì col perdere del tutto le staffe.
Farfugliò: «Signora, io sono...»
«So già, - disse lei, porgendogli la mano - Charles mi ha detto del vostro incontro di ieri sera, e sono proprio felice che abbia avuto la buona ispirazione di pregarla di cenare con noi, quest'oggi.»
Lui arrossì fino agli orecchi non sapendo più cosa dire; si sentiva esaminato, ispezionato da capo a piedi: soppesato e giudicato.
Avrebbe voluto scusarsi, trovare un appiglio per giustificare le manchevolezze dell'abito, ma non riuscì a inventare nulla, e non osò toccare quel tasto scabroso.
Sedette sulla poltrona che lei gli aveva additato, e quando sotto di sé sentì cedere il soffice e morbido velluto, quando si sentì sprofondato, sorretto, abbracciato in quel mobile carezzevole che delicatamente lo sosteneva con la spalliera e con i braccioli imbottiti, ebbe la sensazione di essere entrato in una vita nuova e piena di malie, di aver acquistato il diritto a qualcosa di delizioso, di essere diventato qualcuno e di essere salvo; e guardò la signora Forestier che non gli aveva levato gli occhi di dosso.
Costei indossava un abito di cashmere di un celeste pallido che le disegnava a perfezione la linea nervosa della vita e il petto colmo.
Le braccia nude e l'incarnato del seno sgorgavano da una spuma di merletti bianchi che guarnivano il corpetto e le maniche corte. I capelli, pettinati alti sul capo, increspandosi un poco sulla nuca, formavano una leggera nube di lanugine bionda sul collo.
Duroy riprendeva animo sotto il suo sguardo che gli ricordava, senza che se ne sapesse spiegare il perché, quello della passeggiatrice incontrata la sera prima alle Folies-Bergère. Aveva occhi grigi, di un grigio venato d'azzurro che ne rendeva strana l'espressione; il naso affilato, le labbra carnose, il mento un po' paffuto, un volto irregolare e provocante, tutto vaghezza e malizia: uno di quei volti femminili sui quali ogni lineamento rivela una sua grazia particolare e sembra avere un suo significato, così come ogni gesto sembra voler dire o nascondere qualcosa.
Dopo un breve silenzio, gli domandò: «Lei è a Parigi da molto tempo?»
Riprendendo a poco a poco la padronanza di sé, Duroy rispose: «Soltanto da pochi mesi, signora. Ho un impiego nelle ferrovie, ma Forestier mi ha dato una mezza speranza di entrare, col suo aiuto, nel giornalismo.»
Lei accentuò il sorriso, che si fece ancor più benevolo e mormorò, abbassando la voce: «So.»
Il campanello aveva squillato di nuovo. Il domestico annunciò: «La signora de Marelle.»
Era una bruna un po' minuta: quel che si dice una brunetta. Entrò tutta pepe, disegnata, modellata da capo a piedi, si sarebbe detto, nel suo semplicissimo abito scuro. Soltanto una rosa rossa, appuntata fra i capelli neri, attirava lo sguardo e pareva dar più spicco alla sua fisionomia, sottolineandone l'originalità e porvi quel tanto di vivacità un po' brusca che ci voleva.
La seguiva una bambina col gonnellino corto. La signora Forestier le andò incontro di slancio: «Buonasera Clotilde.»
«Buonasera Madeleine.»
Si abbracciarono. Poi la piccina porse la fronte con la naturalezza di un'adulta, dicendo: «Buonasera cugina.»
La signora Forestier la baciò. Poi fece le presentazioni:
«Georges Duroy, un caro compagno d'armi di Charles.»
«La signora de Marelle, mia amica e anche un poco mia parente.»
Aggiunse: «Vi avverto, niente cerimonie da noi, tutto alla buona e senza pose. Intesi, vero?»
Il nostro giovane s'inchinò.
Ma la porta si aprì di nuovo, e un uomo tozzo, basso e tondo, apparve dando il braccio a una bella donna slanciata, più alta di lui, molto più giovane, di modi distinti e fiera nel portamento. Lui era Walter, deputato, finanziere, quattrinaio e affarista, ebreo e meridionale, direttore della Vie Française, e lei sua moglie, nata Basile-Ravalau, figlia del banchiere omonimo.
Poi comparvero, l'un dopo l'altro, Jacques Rival, elegantissimo, e Norbert de Varenne, col collo della camicia lustro, incerettato dallo strofinio della zazzera che gli ricadeva sulle spalle, cospargendole di bianche squamette di forfora.
La cravatta, annodata male, non pareva certo sfoggiata per l'occasione. Si fece avanti con la grazia di un vecchio ganimede [1] e, prendendo la mano della signora Forestier, le depose un bacio sul polso. Nell'abbassarsi, la lunga capigliatura si sparse come una cascatella d'acqua sul braccio nudo della giovane donna.
A sua volta entrò Forestier, scusandosi del ritardo. Era stato trattenuto al giornale dal caso Morel. Il deputato radicale aveva presentato un'interpellanza al governo su una richiesta di credito riguardante la colonizzazione dell'Algeria.
Il domestico annunciò ad alta voce: «Signora, la cena è servita.» E si passò nella sala da pranzo.
Duroy era seduto fra la signora de Marelle e sua figlia. Si sentiva di nuovo impacciato, timoroso di commettere qualche sbaglio nel maneggio convenzionale della forchetta, dei cucchiai o dei bicchieri. Ce n'erano quattro di bicchieri, uno dei quali azzurrino. Cosa mai ci si poteva bere in quello?
Nessuno disse una parola finché si fu alla minestra, poi Norbert de Varenne chiese: «Avete letto del processo Gauthier? Che caso curioso!»
E si cominciò a discutere su quell'adulterio complicato da ricatto. Mica se ne parlava come si parla in casa degli avvenimenti letti sul giornale, bensì come si parla di una malattia fra medici, o di ortaggi tra fruttivendoli. Nessuno s'indignava o si stupiva dei fatti; se ne indagavano le cause profonde, occulte, con curiosità professionale e assoluta indifferenza per la colpa in sé. Si cercava di spiegare con chiarezza le origini di ogni atto, di determinare tutti i fenomeni cerebrali da cui era generato il dramma, risultato scientifico di un particolare stato d'animo. Anche le donne si appassionarono a tale ricerca e a tale lavorio. Anche altri recenti avvenimenti furono esaminati, commentati, considerati da ogni lato, soppesati nel loro valore, con l'occhio pratico e il particolare modo di vedere di chi usa fare smercio di notizie, dei rivenditori di commedia umana a un tanto al rigo, così come fra i bottegai si esaminano, si rivoltolano e si soppesano le merci destinate al pubblico.
Poi il discorso cadde su un duello, e prese la parola Jacques Rival. La cosa era di sua pertinenza: nessun altro avrebbe potuto trattare l'argomento meglio di lui.
Duroy non osava metter bocca. Posava ogni tanto gli occhi sulla vicina di tavola, ammaliato dalla rotondità di quel seno. Un brillante a capo di un filo d'oro le pendeva dall'orecchio, come una goccia d'acqua rotolatale sulle carni. Di tratto in tratto, costei interveniva con un'osservazione spiritosa che non mancava di suscitare un sorriso sulle labbra dei commensali. Era dotata di un'arguzia piacevole, garbata, sempre imprevista; l'arguzia di una birichina smaliziata che non dà troppo peso alle cose e le giudica con lieve e bonario scetticismo.
Duroy cercava invano qualche complimento da rivolgerle e, non trovando nulla di carino, volgeva le sue attenzioni alla figlia, le versava da bere, le reggeva i piatti e la serviva. La bimba, più sostenuta della madre, ringraziava posatamente, con brevi cenni del capo: «Lei è molto gentile.» diceva, e ascoltava i grandi col suo musetto pensoso.
La cena era da leccarsi i baffi e tutti andavano in visibilio. Walter si abbuffava come un lupo, e quasi non proferiva una parola, considerando con occhiate oblique, di sotto le lenti, le pietanze che gli venivano servite. Norbert de Varenne gli dava man forte senza curarsi delle gocce d'intingolo che gli cascavano, ogni tanto, sullo sparato della camicia.
Forestier, sorridente e composto, sorvegliava la tavolata, scambiando occhiate d'intesa con la moglie, come fra compari durante un'impresa ardua e che tuttavia va a meraviglia.
I volti si congestionavano, le voci si facevano più alte. Di continuo il domestico sussurrava all'orecchio dei convitati: «Corton... Château-Laroze?»
Duroy aveva trovato il Corton di suo gusto e si lasciava riempire ogni volta il bicchiere. Una deliziosa allegria lo pervadeva; una gaiezza calda, che gli saliva su dal ventre fino alla testa, gli scorreva nelle membra e lo pervadeva tutto. Si sentiva permeato da un benessere pieno, da una felicità fisica e morale; e gli veniva una gran voglia di parlare, di farsi notare, d'essere ascoltato e apprezzato come quegli altri signori, dei quali si centellinava ogni minima frase.
Il chiacchierio che procedeva ininterrotto, agganciando le idee l'una all'altra, saltando di palo in frasca per una parola qualsiasi, per un nonnulla, dopo aver compiuto un giro d'orizzonte su tutti i fatti del giorno, e dopo aver sfiorato, di sfuggita, mille problemi, tornò sull'importante interpellanza di Morel circa la colonizzazione dell'Algeria.