Capitolo I-2

2567 Words
Giunsero sul Boulevard Poissonnière, davanti a una grande porta a vetri, dietro la quale erano incollate le due facciate di un giornale aperto. Tre persone erano ferme a leggerlo. Sulla porta, a mo' di richiamo, si spiegava a grandi lettere di fuoco, disegnate dalle fiammelle del gas, la scritta: La Vie Française. E la gente a passeggio, entrando bruscamente nel fascio luminoso di quelle tre parole splendenti, appariva d'un tratto in piena luce, ben visibile, precisa e netta come fosse giorno, per tornare poi rapidamente nell'ombra. Forestier spinse i battenti e disse: «Entra.» Duroy entrò, salì una scala lussuosa e sporca, esposta a tutti i passanti; raggiunse un'anticamera, dove due fattorini salutarono il suo compagno, poi si fermò in una specie di saletta d'attesa, polverosa e logora, addobbata di falso velluto di un verde ingiallito, cosparso di macchie e, qua e là, liso come se l'avessero rosicato i topi. «Siediti, - lo invitò Forestier -torno fra cinque minuti.» E scomparve da una delle tre porte del salottino. Un tanfo strano, particolare, indefinibile: il tanfo delle redazioni, vagava nell'aria. Duroy se ne stava lì, immobile, un poco intimidito, più che altro sorpreso. Di quando in quando, gli passavano davanti, di corsa, degli uomini, entrati da una porta e subito spariti dall'altra, prima che egli avesse avuto il tempo di osservarli. Ora erano dei giovani, dei giovanissimi, con aria affaccendata e con in mano un foglio svolazzante al vento della corsa; ora dei compositori con una blusa di tela macchiata d'inchiostro che lasciava scorgere il collo di una camicia bianchissima e un paio di pantaloni di lana, uguali a quelli della gente elegante. Con molta precauzione reggevano lunghe strisce di carta stampata, bozze ancora fresche e umide. Talvolta era un tizietto vestito con troppa ricercatezza, il vitino troppo stretto nella finanziera [2], la stoffa dei calzoni troppo aderente al polpaccio, il piede strizzato in uno scarpino troppo a punta: era qualche cronista mondano venuto a portare le notizie della serata. Altri ancora giungevano, gravi, pieni d'importanza, con copricapi a falde piatte, come se tale foggia potesse distinguerli dagli altri uomini. Forestier riapparve a braccetto di un giovanottone lungo e magro, di una trentina o una quarantina d'anni, in abito nero e cravatta bianca, molto bruno, che con i baffi arricciati in punte affilate aveva un'aria arrogante e pienamente soddisfatta di sé. Forestier gli disse: «Addio, caro maestro.» L'altro gli strinse la mano: «Arrivederci, mio caro.» e scese la scala fischiettando, con la mazza sotto il braccio. Duroy domandò: «Chi è?» «È Jacques Rival, sai, il famoso articolista, lo spadaccino. È venuto a corregger le sue bozze. Garin, Montele e lui sono i tre migliori e brillanti cronisti d'attualità che abbiamo a Parigi. Qui si beccano trentamila franchi l'anno per due articoli la settimana.» Stavano per andarsene, quando incontrarono un ometto zazzeruto, pingue, dall'aspetto poco pulito, che saliva le scale sbuffando. Forestier salutò con deferenza e disse: «È Norbert de Varenne, il poeta, l'autore dei Soli morti: un altro alle stelle. Ogni suo racconto ci costa trecento franchi, e i più lunghi non superano le duecento righe. Ma andiamo al Napolitain, comincio a crepare di sete.» Appena seduti al tavolino del caffè, Forestier ordinò: «Due birre» e tracannò il suo bicchiere d'un sol fiato, mentre Duroy beveva centellinando e assaporando la sua birra, gustandola come cosa preziosa e rara. Il suo compagno taceva, pareva soprappensiero. Poi, d'improvviso, gli chiese: «Perché non provi a fare il giornalista?» L'altro lo guardò sorpreso, poi disse: «Ma... ma se non ho mai scritto un rigo.» «Bah! Si tenta, si comincia. Vedi, potresti essermi utile andando in cerca d'informazioni, sbrigando certe pratiche, visitando la gente. Potresti avere, inizialmente, duecentocinquanta franchi al mese e le carrozze pagate. Vuoi che ne parli al direttore?» «Puoi figurarti se non voglio.» «Fa' una cosa, allora, domani verrai a cena da me; ci saranno soltanto cinque o sei invitati: il principale Walter e consorte, Jacques Rival e Norbert de Varenne, che hai visto or ora, più un'amica di mia moglie. Intesi?» Duroy, diventato rosso, esitava perplesso. Infine mormorò: «È che... che non ho un vestito adatto.» Forestier rimase stupito: «Non hai un abito da società? E che cavolo! Una cosa così indispensabile. A Parigi, vedi, meglio non avere il letto che l'abito da cerimonia.» Poi, d'improvviso, frugando nel taschino del panciotto, ne estrasse una manciatina di monete d'oro, prese due luigi, li pose davanti al suo vecchio compagno d'armi e, con voce cordiale e amichevole, gli disse: «Me li renderai quando potrai. Prendi a nolo o compra a un tanto al mese, dando un acconto, i capi di cui hai bisogno; insomma, arrangiati, ma vieni a cena a casa mia, domani alle sette e mezzo, al numero 17 di Rue Fontaine.» Duroy, confuso, prese il denaro balbettando: «Sei veramente gentile, ti sono tanto grato, stai certo che non dimenticherò...» L'altro lo interruppe: «Va Beh, va Beh. Piuttosto, un altro bicchiere? - e ordinò: - Cameriere, due birre!» Non appena ebbe bevuto, il giornalista chiese: «Ti va di gironzolare un po', per un'oretta?» «Come no.» E si rimisero in cammino verso la Madeleine. «Che si fa? - domandò Forestier - Dicono che a Parigi, quando uno ha un po' di tempo da perdere, trova sempre come impiegarlo; ma non è mica vero. Io, la sera, quando mi viene la voglia di bighellonare un po', non so mai dove andare. Una passeggiata al Bois può far piacere soltanto con una donna, e non sempre ne hai una sottomano; mentre i caffè-concerto possono essere una distrazione per il mio farmacista e sua moglie, non per me. Che fare, allora? Ci vorrebbe qui un giardino d'estate come il parco Monceau, aperto di notte, dove poter ascoltare ottima musica bevendo bibite fresche sotto gli alberi. Non un luogo di divertimento, ma d'ozio; e con un biglietto d'ingresso salato, per attirare le signore. Si potrebbe camminare lungo i viali cosparsi di sabbia fina fina, illuminati con la luce elettrica, e sedersi quando si ha voglia di sentire la musica, da vicino o da lontano. Qualcosa di simile lo trovavi una volta da Musard, ma sapeva troppo d'osteria fuori porta, troppi ballabili, non abbastanza spazio, non abbastanza ombra, non abbastanza oscurità. Ci vorrebbe un giardino molto bello e molto ampio. Sarebbe delizioso. Dov'è che vuoi andare?» Duroy, perplesso, non sapeva che dire; infine, si decise: «Non ho mai visto le Folies-Bergère. Ci farei volentieri una capatina.» Il suo compagno esclamò: «Le Folies-Bergère? Capperi, ma ci arrostiremo come polli allo spiedo. Comunque, andiamo pure, è sempre uno spasso.» Così girarono sui tacchi per raggiungere Rue du Faubourg-Montmartre. La facciata illuminata dell'edificio proiettava una gran luce sulle quattro strade che le si congiungono davanti. Una fila di carrozze attendeva l'uscita degli avventori. Forestier si avviò per entrare ma Duroy lo fermò: «Ci siamo dimenticati di passare dal botteghino.» L'altro rispose, gonfiando le penne: «Con me si entra gratis.» Avvicinatosi al controllo, i tre verificatori lo salutarono. Quello al centro gli tese la mano. Il giornalista chiese: «C'è un buon palco?» «Certo, signor Forestier.» Prese lo scontrino che gli fu porto, spinse l'uscio imbottito, con i battenti guarniti di cuoio, e i due si trovarono fra il pubblico. Un vapor di tabacco velava un poco, come una nebbiolina leggera leggera, le parti più remote, il palcoscenico e l'altro lato del teatro. E alzandosi in esili fili biancastri, da tutti i sigari e da tutte le sigarette che tutta quella gente fumava, la lieve caligine saliva e si addensava al soffitto, formando, sotto l'ampia cupola, intorno al lampadario, al di sopra della balconata gremita di spettatori, un cielo rannuvolato di fumo. Nel vasto corridoio d'accesso che conduce all’atrio circolare, dove, mescolata con la folla scura degli uomini, ronza l'agghindata tribù delle donnine, un gruppo di bellone aspettava davanti a uno dei tre banchi dove troneggiavano tre mercantesse di bibite e d'amore, imbellettate e avvizzite. Le alte specchiere, dietro di loro, ne riflettevano le spalle insieme ai volti dei passanti. I capannelli si aprivano al passaggio di Forestier, che procedeva svelto, da uomo cui si devono speciali riguardi. Si avvicinò a una maschera e chiese: «Il palco diciassette?» «Da questa parte, signore.» Si trovarono chiusi in uno scatolotto di legno scoperchiato, tappezzato di rosso, con quattro sedie dello stesso colore, poste così vicine da permettere a malapena d’infilarcisi in mezzo. I due amici sedettero; e tanto a destra quanto a sinistra, per un'ampia curva, i cui estremi facevano capo al palcoscenico, una sfilza d’identici scompartimenti ospitava gente egualmente seduta, della quale si scorgevano soltanto il capo e il busto. Sulla scena, tre giovanotti in maglia aderente, uno alto, uno mezzano, uno basso, si alternavano al trapezio. Quello alto era il primo a farsi avanti, a passettini brevi e rapidi, sorridendo e salutando con un gesto della mano, come per mandare un bacio. Sotto la maglia, spiccavano i muscoli ben disegnati delle braccia e delle gambe; gonfiava il petto per rendere meno visibile la pancia un po' troppo prominente; e con quella scriminatura così leccata che, proprio a mezza testa, gli spartiva in due i capelli, facendolo somigliare a un giovane parrucchiere. Raggiungeva il trapezio con un bel salterello e, appeso con le mani, si metteva a girare come una ruota lanciata per aria; oppure, con le braccia irrigidite e il corpo diritto, restava immobile, steso orizzontalmente nel vuoto, attaccato alla sbarra fissa, con la sola forza dei polsi. Poi saltava a terra, salutava di nuovo con un sorriso, e mentre dalle poltrone scrosciavano gli applausi, andava ad attaccarsi allo scenario di fondo mettendo ben in mostra, ad ogni passo, la muscolatura della gamba. Si faceva allora avanti il secondo, meno alto, più tozzo, che ripeteva il medesimo esercizio, ripreso infine dall'ultimo, tra il più evidente compiacimento del pubblico. Ma a Duroy lo spettacolo interessava il giusto, e voltato indietro non si stancava di guardare, alle proprie spalle, il vasto atrio affollato di uomini e di prostitute. Forestier gli disse: «Osserva giù nelle poltrone: tutti borghesucci con mogli e figlioli, gente buffa e scema, venuta qui per guardare a bocca aperta. Nei palchi, i soliti bellimbusti che fan vita sui Grands Boulevards, qualche artista, qualche puttanella di mezza tacca e, dietro di noi, la più strana accozzaglia che vi sia a Parigi. Chi sono costoro? Guardali bene. C'è un po' di tutto, vi sono rappresentati tutti i ceti, ma il vizio predomina. Ecco lì degli impiegati di banca, di commercio, dello stato; cronisti, mantenuti, ufficiali in borghese, gagarelli in abito da sera che hanno or ora cenato al cabaret e che escono dall'Opéra per entrare al Théâtre des Italiens, e infine, tutto un mondo di uomini equivoci che sfuggono a qualsiasi analisi. Quanto alle donne, non ce n'è che un tipo: la sgualdrinella da un luigi o due che ogni sera, a un tavolo dell'Américain, aspetta al varco il forestiero pronto a sborsarne cinque, avvertendo i clienti abituali ogni qualvolta rimane disponibile. Sono sei anni che le conosciamo, quelle lì; le puoi vedere tutte le sere, per tutto l'anno allo stesso posto, tranne quando fanno una sosta igienica a Saint-Lazare o a Lourcine.» Duroy non ascoltava più. Una di quelle donne, affacciatasi al loro palco, lo stava guardando. Era una brunona dalla carnagione imbiancata dalla crema, l'occhio nero, allungato, sottolineato dalla matita, incorniciato da enormi sopracciglia posticce. Il petto prorompente premeva la seta scura del vestito, e le labbra dipinte, rosse come una ferita, le conferivano un che di animalesco, ardente ed esagerato che, però, accendeva il desiderio. Con un cenno del capo, costei chiamò una delle amiche che stava passando: una bionda dai capelli rossicci, grassa anch’essa, e le disse a voce abbastanza alta da poter essere udita: «To', guarda là che bel giovanottone: se mi vuole, per dieci luigi non gli dirò davvero di no.» Forestier si voltò e con un sorriso batté sulla coscia di Duroy: «Dice di te, caro mio. Fai colpo. Complimenti.» L'ex sottufficiale era diventato rosso, e con le dita, intanto, tastava istintivamente le due monete d'oro nel taschino del panciotto. Il sipario si era abbassato; ora l'orchestra suonava un valzer. Duroy disse: «Se facessimo un giretto in galleria?» «Come vuoi tu.» Uscirono, e subito furono presi nella corrente. Pigiati, spinti, strippati, sballottati, procedevano senza riuscire a vedere altro davanti a loro che un'infinità di cappelli. A due a due, le donnine fendevano tutta quella folla di uomini; la attraversavano con facilità, sgusciavano fra i gomiti, i petti, le schiene, come se si trovassero nel loro elemento naturale, senza il minimo impaccio, e parevano pesci nell'acqua, in mezzo a quel flusso di maschi. Duroy, estasiato, si lasciava trascinare, beveva inebriato l'aria viziata dal tabacco, dall'afrore d'umanità e dai profumi delle bellone. Ma Forestier sudava, boccheggiava e tossiva. «Andiamo in giardino.» disse. Svoltando a sinistra, penetrarono in una specie di giardino coperto, rinfrescato da due grandi fontane di cattivo gusto. Sotto ai tassi e alle tuie in casse, uomini e donne bevevano a dei tavolini di zinco. «Un'altra birra?» domandò Forestier. «Sì, volentieri.» Si sedettero a guardare la gente che passava. Di quando in quando, una battona si fermava e chiedeva con un sorriso melenso: «Mi offre qualcosa, signore?» E alla risposta di Forestier: «Un bicchier d'acqua alla fontana.», si allontanava mormorando: «Ma vattene, cafone!» La florida bruna che poco prima si era appoggiata dietro il palco dei due amici, col suo passo arrogante, ricomparve a braccetto della biondona. Una gran bella coppia di femmine, non c'è che dire, ben appaiate. Scorto Duroy, gli sorrise come se i loro sguardi si fossero già detti cose intime e segrete, e presa una sedia gli si sedette tranquillamente davanti facendo sedere anche l'amica e ordinando con voce squillante: «Cameriere, due granatine!» Sorpreso, Forestier osservò: «Mica fai complimenti, tu!» «Mi ha stregato il tuo amico. - rispose lei - È proprio un bel ragazzo. Per lui, chissà, potrei far pazzie.» Duroy, intimidito, non riusciva a spiccicare una parola e si arricciava i baffi con un sorriso sciocco. Il cameriere portò gli sciroppi che le due donne bevvero d'un sol fiato; poi si alzarono e la mora, accennatogli col capo un sorriso amichevole e battendogli lievemente il ventaglio sul braccio, disse a Duroy: «Grazie, coccone mio. Non si può davvero dire che tu abbia la lingua sciolta.» E se ne andarono dondolando il deretano. Forestier allora si mise a ridere: «Ma lo sai, caro mio, che hai successo, con le donne? È un fatto che non va trascurato. Può portarti lontano.» Tacque un attimo, poi riprese col tono meditabondo di chi pensa ad alta voce: «Lo dobbiamo sempre a loro se si fa più presto ad arrivare.» E siccome Duroy continuava a sorridere senza rispondere, gli domandò: «Ti fermi ancora? Io me ne torno a casa, ne ho abbastanza.» L'altro mormorò: «Sì, rimango un altro po'. È ancora presto.» Forestier si alzò: «Bene. Allora, ciao. A domani. Non dimenticherai? Rue Fontaine, numero 17, alle sette e mezzo.» «D'accordo, a domani. Grazie.» Si strinsero la mano e il giornalista si allontanò. Come fu scomparso, Duroy si sentì libero, e di nuovo tastò con gioia le due monete d'oro che aveva in tasca; poi, alzatosi, diede una scorsa alla folla, frugando con gli occhi. Non tardò a scorgerle, le due donne, la bionda e la bruna, che ancora veleggiavano fendendo la calca di maschi con il loro fiero incedere d'accattone. Puntò dritto su di loro, ma quando fu a due passi perse tutto l'ardire. La bruna gli disse: «L'hai ritrovata, la tua lingua?» «Perbacco.» mormorò lui, senza riuscire ad aggiungere una parola. Se ne stavano lì, tutti e tre in piedi, fermi, intralciando il viavai del passeggio e formando un ingorgo all'intorno. Allora, d'improvviso, lei chiese: «Ci vuoi venire da me?» Fremente di cupidigia, Duroy rispose brutalmente: «Sì, ma in tasca ho soltanto un luigi.» «Non fa nulla.» sorrise lei con indifferenza. E gli prese il braccio in segno di possesso. Mentre uscivano, Duroy pensava che con gli altri venti franchi avrebbe potuto procurarsi facilmente, a nolo, un abito da sera per l'indomani. [1] Giacchio (o rezzaglio o sparviero), è un'antica rete da pesca di forma circolare, legata a una corda al centro del cerchio. Le sue origini si perdono nella storia. Sicuramente usata nel medioevo anche in Francia, è stata raffigurata nella Camera del Cervo, nel Palazzo dei Papi di Avignone da Matteo Giovannetti, in un affresco risalente al 1343. [2] Abito maschile con giacca lunga, detto anche stiffelius o redingote o prefettizia, usato soprattutto nel sec. 18° e nei primi decennî del sec. 19° dai grandi banchieri (di qui il nome) e dai ministri e deputati.
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