3. La casa in cui mi portarono era grande e cupa. Così grande, in effetti, che non poteva definirsi una casa, quanto una villa. E le dimensioni non erano l’unico dettaglio di pregio di quell’edificio. La facciata vittoriana di marmo e mattoncini, invasa da un’edera scura, quasi viola, le torrette e i timpani, sebbene rovinati e cadenti, parlavano di una linea architettonica che un tempo doveva essere stata bella. Il giardino, recintato da un’altissima cancellata di ferro battuto nero, era una distesa brulla e piena di erbacce. Le finestre erano coperte da assi inchiodate, le parti in muratura erano piene di crepe. Sembrava che quel posto fosse disabitato da una trentina di anni. Le due ampie ali sembravano sul punto di crollare sotto il peso del tempo. Sul retro, parte della veranda ave