2.
Il giorno dopo mi svegliai tardi, dopo le unidici. In un primo momento non capii dov’ero, poi mi ricordai della lunga chiacchierata notturna con Astor Petrichor.
Mi stiracchiai e guardai verso la finestra. Mossi appena un dito per scostare le tende con un flusso cinetico.
Ero nella camera più alta di un piccolo cottage dal tetto appuntito. Il soffitto della mia stanza spioveva fino al pavimento, coperto di assi color miele. Fuori dalla finestra vedevo le fronde di un albero, probabilmente una quercia. Gli alberi di quel sovramondo non erano così facili da catalogare. Diciamo che questo assomigliava abbastanza a una quercia da poter essere definito una quercia. Inoltre, ero sempre stata una schiappa, in botanica.
Scesi dal letto e andai nel piccolo bagno, dove mi feci una lunga doccia calda. Mi sentivo stanca e intorpidita.
Mi vestii con gli abiti del giorno prima, ma lasciai perdere il cappotto. In quel posto era primavera, o qualcosa di molto simile.
Scesi le scale fino al piano terra e poi uscii dal cottage.
Osservai la strada acciottolata, i prati e gli alberi. Più avanti c’erano delle altre costruzioni simili alla mia e un paio di edifici più grandi. Era un angolo bucolico, quel sovramondo.
«Frisson? Frisson Keller?».
Mi voltai.
Quello che aveva parlato era un tizio più o meno della mia età, un po’ appesantito sulla vita, con i capelli radi e rossicci. «Sono Magnus Dollop. Gabriel mi ha mandato a vedere se ti eri svegliata».
«Gabriel?» chiesi.
Lui sorrise. «Il nostro capo. È stato lui a fare...» un gesto tutto attorno «...questo».
«Oh, wow» mormorai io. Giusto. Petrichor mi aveva detto che il loro capo era un panteologo, anche se non immaginavo nemmeno che esistesse un panteologo in grado di fare tutta quella roba. Ma Magnus Dollop era sincero, su quello non c’erano dubbi.
«Potresti venire con me? Gabriel vorrebbe conoscerti».
Annuii, un po’ confusa. Da quando Petrichor mi aveva “prelevata”, la sera precedente, le cose strane erano andate aumentando e mi chiedevo quando sarebbero finite. E se sarebbero finite.
Magnus mi guidò lungo la strada acciottolata, fino a una delle costruzioni più grandi. All’interno trovai una sorta di grande sala per i ricevimenti, piuttosto spoglia e trascurata. In un angolo del vasto ambiente c’era un tavolo quadrato a cui erano sedute tre persone: Petrichor, un uomo dall’aspetto più anziano con i capelli bianchi e un tizio apparentemente più giovane, dai capelli scurissimi e dal viso regolare.
«Prego, accomodati» disse l’uomo più anziano.
Mi sedetti.
«Quindi lei è Gabriel?» chiesi, saltando i preamboli. Iniziavo a essere un po’ stanca di tutta quella situazione.
«Capisco che tu sia stanca» disse l’uomo con i capelli bianchi, leggendomi facilmente nella mente. «Spero che tu capisca che non è stata una nostra scelta».
Mi accarezzai il mento. «Non lo so» dissi.
Lui annuì. «Per questo abbiamo mandato Astor. Non è facile digerire una cosa del genere. Se non l’avessi conosciuto e non ti fossi già, in qualche misura, fidata di lui, tutto sarebbe stato più difficile. Casa tua non esiste più, temo».
«Che cosa?» esclamai io, sgranando gli occhi.
Gabriel sospirò. «Puoi controllare, ovviamente. Puoi usare una delle nostre poltrone amplificanti e sbirciare nella mente dei tuoi vicini».
«Be’, credo che lo farò» affermai. Alzai una mano. «Senza offesa, ma è tutto abbastanza pazzesco».
«Già. Mi dispiace» intervenne Petrichor, in tono cauto. Lo guardai. Non sembrava in ottima forma.
«Che cosa... professore, che cosa le è successo?».
Per un istante mi sembrò stupito. Poi fece un gesto vago con una mano. «Ieri notte ho avuto una scaramuccia con alcuni sodali di Valedictorian».
Lo osservai più attentamente.
«Grazie» dissi. «In quella casa non c’era proprio nulla che meritasse di essere conservato, sa».
Lui si strinse nelle spalle. «Gli oggetti a volte assumono importanza con il tempo» commentò.
In realtà ero commossa che la notte precedente, dopo avermi portata lì, fosse tornato nel Distretto per “impacchettare” le mie cose.
«Questo è Rive Quiddity, un saltatore» mi presentò l’uomo moro alla mia destra.
Gli strinsi la mano. «Frisson Keller».
«Ti ho tenuta d’occhio, per un po’, dopo la tua laurea» disse lui. Fece un gesto vago nei confronti della stanza, o forse delle persone al tavolo. «Vedi, questa congrega è relativamente recente, ma tutti noi abbiamo una storia alle spalle. Combattiamo Valedictorian e la sua gente da molti anni, in una forma o nell’altra».
«Perché il Rettorio non divulga le informazioni che lo riguardano?» chiesi. «Molte persone credono che sia morto».
«Per non diffondere il panico, dicono loro» spiegò Gabriel, con voce calma. «Per non dover rendere conto dei loro numerosi fallimenti, dico io. O meglio... dei nostri. Non sono d’accordo, perché tu lo sappia. Credo che sia una decisione discutibile e pericolosa, ma non sono io a decidere».
Scostò la sedia e si alzò in piedi. «Credo che tu abbia bisogno di un po’ di tempo per ambientarti. Parleremo di nuovo molto presto».
Anche Rive Quiddity si alzò e mi rivolse un cenno di saluto con il capo.
Guardai Petrichor. Non sapeva che cosa fare. Da un lato avrebbe voluto aiutarmi, ma dall’altro non voleva essere invadente.
«Potrebbe... ecco, se non ha nient’altro da fare, potrebbe accompagnarmi a esplorare questo... villaggio?».
Lui mi rivolse un sorriso divertito. «Le piacerebbe. Questa è solo una base. Gradevole, se vuole, ma priva più o meno di tutto».
Sospirai. «Lo temevo. Be’, se volesse farmi da guida, professor Petrichor...»
«Naturalmente» annuì lui.
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Ed era davvero un angolo di campagna. La sua natura di sovramondo, curiosamente, iniziava a diventarti evidente dopo un po’. Le piante, le cose, persino la brezza, non erano esattamente come avrebbero dovuto essere.
«Soffia da tutte le parti, no?» dissi, mentre camminavamo lungo la strada acciottolata.
Petrichor annuì. «L’incongruenza del vento è uno dei principali indizi che le riveleranno sempre che si trova in un sovramondo. E il cielo, alla notte... be’, può essere piuttosto scioccante, nelle giornate senza nuvole. Affaccia su un universo alieno, letteralmente».
Risi. «In realtà sembra irresistibile».
Lui mi rivolse un sottile sorriso, senza rispondere. Supponevo che ne avesse le scatole piene dei sovramondi.
Continuammo a camminare in silenzio per un po’. L’erba era verde e odorosa, le fronde stormivano dolcemente a quella brezza incostante, l’aria era fresca e profumata, ma io non riuscivo a districarmi dai miei pensieri,
Nessuno aveva detto niente su un argomento decisamente fondamentale.
Deglutii, prima di sollevare la questione con Petrichor.
«E ora?».
Lui si voltò a guardarmi. Mi sembrò dispiaciuto. «Aspettavo che lo chiedesse».
«Sono incastrata qua, mh?».
«Frisson, la prego di credere che sono molto dispiaciuto» rispose lui.
Percepii che avrebbe voluto stringermi una mano per comunicarmi la sua vicinanza, ma decise di non farlo.
«Perché?» chiesi.
Lui inarcò un sopracciglio. «Non sono un mostro insensibile. È ovvio che io sia dispiaciuto per lei. È giovane, è piena di talento. Che lei sia “incastrata qua”, usando le sue parole, è... ingiusto. Sì, è sicuramente ingiusto».
Risi. «No, mi riferivo a quella faccenda della mano».
La sua espressione si fece perplessa. «È un po’ seccante, sa» disse, poi, ricostruendo. «Preferirei che non lo facesse».
«Smetterò di farlo» promisi.
Perché mi piace il modo in cui mi guardi, ma in fondo credo di avere frainteso.
«Smetterò, sa, ma non subitissimo» precisai.
Lui sospirò. «Che subdola serpe. È decisamente peggiorata, dai tempi dell’Accademia».
Risi di nuovo. «E lei che cosa ne sa?».
«Ah, no, niente. Forse era solo meno brava».
«Dovevo ancora perfezionarmi» ammisi. «E scrivevo poesie melense sul libro di alchimia».
«Be’, questo spiega i suoi risultati mediocri» considerò lui, apparentemente serio.
«Mediocri?».
«Raccapriccianti» corresse Petrichor.
Sorrisi. «No, in realtà avrei davvero voluto avere un incredibile talento naturale per l’alchimia. Suppongo che metà delle ragazze del nostro corso avrebbero voluto».
«Non è così comune» rispose lui. Percepivo il suo imbarazzo, a quel punto, ma ammirai anche il suo aplomb. «Stiamo per arrivare alla fine della strada. Ora le darò la mano».
Perplessa, guardai prima la strada davanti a me e poi lui. Poi di nuovo la strada. In lontananza si vedevano delle costruzioni.
«Oh, no» mormorai. «È ciclico?».
«È un po’ più complicato» spiegò lui. Mi prese la mano, mentre avanzavamo lungo la strada. Sentii lo stomaco farmi una capriola, di certo perché stavamo oltrepassando una giuntura del ciclo, il punto in cui la realtà si ripiegava su se stessa. «Ricorda ieri sera? Siamo entrati nella Riserva, poi siamo scesi nel sovramondo. Da quel sovramondo siamo usciti lateralmente, no?».
Annuii. Non avevo nessuna intenzione di lasciare quella mano, decisi. Era l’unica cosa sensata in un intero universo senza né capo né coda. «Siamo usciti da una porta-finestra. In quel giardino. Poi abbiamo passato un cancelletto e abbiamo percorso un sentiero. E siamo arrivati dietro a quei cottage. Quindi è di lì che si esce?».
«Per favore, non esca» disse lui, in fretta.
«Non ho detto che uscirò... volevo solo sapere come».
«Va bene». Si voltò verso di me, sollevando la mia mano insieme alla sua. «È molto pericoloso. Le insegneremo a difendersi... almeno questo. In modo che possa muoversi nel Distretto, per brevi periodi».
«Professore...» iniziai, ma poi mi interruppi.
«Anch’io ho un nome proprio, tra l’altro» disse lui.
Sorrisi. «Astor. Ah, sapessi le poesie appassionate che ti ho dedicato».
«Quanto appassionate?».
«Ben oltre i confini del ridicolo. E quelli del buon gusto. E, probabilmente, anche quelli dell’anatomia».
«Accidenti. E io che pensavo solo che ti avrei portata volentieri a letto».
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Ma se lo pensava all’epoca, ora non lo pensava più, oppure non aveva intenzione di farlo. Ebbi la tentazione di sondare i suoi pensieri in merito con più decisione e precisione, ma sapevo che non era giusto. Tra l’altro, mi aveva detto esplicitamente che gli dava fastidio che gli leggessi nella mente.
In realtà mi stupivo del fatto di essere riuscita a farlo in generale. La prima volta l’avevo preso alla sprovvista, ma poi? Possibile che non fosse in grado di schermarsi?
«Ti serviranno delle cose» mi disse, lasciandomi davanti al mio cottage. «Per semplificare la vita a tutti potresti fare un elenco».
Annuii.
«Da domani inizieremo a insegnarti qualche trucco» aggiunse.
«Non sono una completa schiappa, comunque» precisai. «Anche se in alchimia non sono migliorata».
Astor scosse appena la testa. «Non si tratta di abilità. E non ho parlato di “trucco” a caso. Sono stati necessari molti anni... e molte perdite... per impararli».
«Mi dispiace» mormorai.
Lui mi rivolse un sorriso gentile. «Non ne hai motivo». Indicò l’edificio principale. «Inoltre, probabilmente, non ci farebbe male un po’ di aiuto extra per la sorveglianza».
«Sorveglianza?».
«Gli altri telepati» disse lui.
E, be’, era ovvio. Se Valedictorian aveva perso il suo telepate avrebbe dovuto procurarsene un altro. E visto che io ero scomparsa ne avrebbe cercato uno tra quelli meno dotati. «Li state sorvegliando tutti?».
Astor scosse la testa. «Non ventiquattr’ore su ventiquattro. È impossibile sapere quale catturerà. E potrebbe anche essere straniero, nonostante i possibili problemi di allineamento. Non abbiamo modo di saperlo. È frustrante».
Immaginavo che lo fosse.
Nei giorni seguenti capii meglio come funzionasse il loro lavoro. Rive Quiddity, Magnus Dollop e Astor stesso si occupavano della logistica, mentre lo schema generale era gestito da Gabriel, di cui non conoscevo ancora il cognome. Sembrava una squadra incredibilmente piccola per occuparsi di un problema grosso come Thren Valedictorian, come dissi a Rive un pomeriggio in cui mi stavo esercitando a saltare lateralmente.
«Quando ci servono possiamo chiedere rinforzi, ma in questo modo è più sicuro. Vadedictorian può essere molto convincente e noi dobbiamo proteggerci dai traditori. Devi cercare di creare meno perturbazioni, Frisson. So che è controintuitivo, ma devi cercare di saltare da ferma».
Annuii e presi fiato.
Quando salti, l’impressione è che il mondo faccia uno scatto verso l’alto. Se salti lateralmente, lo scatto è laterale, è ovvio, e questo ti destabilizza. Quindi la cosa che tendi a fare naturalmente è compensare.
Riprovai.
Questa volta non tentai di compensare, accettando di schiantarmi da qualche parte se Rive si fosse sbagliato.
La vertigine fu piuttosto forte, ma quando comparvi una trentina di metri oltre il cottage non mi successe niente di particolare. Rive comparve accanto a me. Non per la prima volta, pensai che fosse impressionante. Era come se non saltasse nemmeno. Era come se comparisse lentamente, anche se in realtà lo faceva in una frazione di secondo. Era proprio fantastico.
«Andava bene, sai» mi disse. «Non devi preoccuparti di essere elegante. Io me ne preoccupo, perché ho una fama da mantenere, capisci» sorrise, sornione. «Nel tuo caso l’importante e che non ti faccia notare e che lasci poche tracce... che sia difficile seguirti, okay?».
«Okay» dissi io.
Nei giorni seguenti mi insegnarono tutti i possibili trucchi per non farsi seguire e non farsi catturare. Il modo in cui spostarsi, le strade da percorrere, gli espedienti da utilizzare e le precauzioni da prendere.
«Impari molto velocemente» si complimentò Magnus, una sera in cui eravamo nella cucina di uno dei cottage e ci preparavamo a mangiare. Sua moglie Darna si stava occupando del dolce, mentre la portata principale era un esperimento di Astor.
«In un certo senso ero già allenata» spiegai io. «Sono dieci anni che non voglio che il Rettorio si faccia gli affari miei».
«Infatti trovarti è stato difficile» disse Rive. «Per noi e per loro. Il segugio di Valedictorian deve aver perso le tue tracce, almeno per il tempo sufficiente a che Astor ti rintracciasse e ti portasse in un sovramondo sicuro».
Mi passai una mano sulla faccia. «Sai, sono ancora sconvolta. L’idea che mi abbia cercata, no? Proprio io. E... be’, ho visto casa mia e il mio studio. Non lo metto in dubbio... solo che è allucinante. Uno non mette mai in conto di poter finire nel mirino di un folle psicopatico».