1.
Abbassai la serranda dello studio alle sei di sera precise, quando fuori era già buio da almeno due ore e la strada era gelida e vuota. Lo feci con un colpo distratto del gomito, mentre finivo di incolonnare gli ultimi numeri su un quaderno, e il flusso cinetico prese una strana piega prima di colpire la fettuccia. La serranda si abbassò di scatto, producendo un rumore sgradevole.
Mi stiracchiai, ruotando lentamente la testa. Avevo i muscoli del collo così contratti che sembravano un blocco di cemento. Dovevo tornare da quel fisioguaritore, Hans o come cavolo si chiamava. Oppure dovevo smetterla di passare l’ottanta percento del mio tempo seduta su una poltrona amplificante, una delle due.
Presi il cappotto e iniziai a infilarmelo. Una passeggiata fino a casa mi avrebbe fatto bene, pensai. Poi avrei provato la lasagna surgelata che avevo comprato il giorno prima subito fuori dal Distretto. Mi sembrava molto promettente, più delle altre che avevo provato in precedenza.
Qualcuno bussò alla porta.
Ero sicura che la scritta “chiuso” si leggesse piuttosto chiaramente, ma non potevo escludere che il flusso maldestro di prima avesse fatto ruotare il cartello due volte su se stesso.
«È chiuso!» gridai, quindi.
Che, ripensandoci, è una cosa stupidissima da fare. Se un posto è chiuso, si suppone che dentro non ci sia nessuno. E se dentro non c’è nessuno, nessuno ti grida che è chiuso.
«Ne sono consapevole. Vorrei parlarle ugualmente, signorina Keller».
La voce era quella di un uomo, bassa ma perfettamente udibile. Una voce coltivata e gradevole, anche se non amichevole. Mi ricordava quella di qualcuno che conoscevo, ma non riuscivo a mettere a fuoco chi fosse.
Alzai il dito della mano destra e sbloccai la porta. Questa volta il fascio cinetico fu dirtto e preciso.
La maniglia ruotò e poco dopo comparve un uomo alto, con i capelli castani spruzzati di grigio e una caratteristica cicatrice sopra il sopracciglio destro.
«Professor Petrichor?» balbettai io.
Lui si chiuse la porta alle spalle, annuendo. Si guardò attorno. Vidi i suoi occhi chiari percorrere il pannello di sughero pieno di puntatori, la scrivania invasa di carte, la consunta poltrona amplificante di pelle bordeaux, il sestante predittivo, il muro un po’ scrostato e infine me.
«Mi dispiace fare irruzione così» disse.
Gli sorrisi un po’ stupidamente, indicandogli la sedia davanti alla scrivania. «È stata una delle irruzioni meno irruente della storia, professore. Si accomodi».
Astor Petrichor si sedette sulla sedia che gli indicavo e accavallò elegantemente le gambe.
Era stato il mio professore di Alchimia agli ultimi tre anni di Accademia. È imbarazzante ammetterlo, ma all’epoca ero completamente infatuata di lui.
Era il classico tipo di insegnante che ti tratta come una persona adulta anche se non lo sei del tutto. Era gentile e aveva uno humor secco, sottile, ma mai crudele. La sua materia, in compenso, era un incubo e io ero andata tra il “male” e il “malissimo” per tutti e tre gli anni.
«Confesso di essere un po’ stupito» disse lui, con un gesto vago al mio studio. «Di che cosa si occupa? Investigazioni psichiche? Rintracciarla non è stato facile».
Decisi di ignorare sia il suo stupore che il commento sulla difficoltà con cui mi aveva rintracciata. «Investigazioni psichiche, esatto. Quindi non è un cliente, eh?».
Lui scosse appena la testa.
Dall’ultima volta in cui l’avevo visto, ossia dieci anni prima, non sembrava invecchiato. Non mi aspettavo che lo fosse, perché i sapienti del suo livello tendono a raggiungere l’Eterna Rigenerazione quando sono ancora piuttosto giovani. In realtà non avevo idea di quanti anni avesse.
«Sì, sono stupito» ripeté lui, in tono gentile, dimostrandomi che ignorare le sue osservazioni non gli avrebbe fatto accantonare un argomento. «Lei è stata una delle telepati più dotate mai uscite dall’Accademia. Alcuni dicono la più dotata, in tutta la storia del Distretto. Non mi pronuncio in merito, dato che la telepatia non è tra i miei doni... e di certo come alchimista faceva schifo» concluse, con un sorrisetto.
«Già» risi io. «Non è una questione di talento, professor Petrichor. Mi creda, sono molto felice che qualcuno mi consideri dotata in qualcosa. Ma ho avuto delle... incomprensioni, con il Rettorio. Non so se sa che sono stati così gentili da offrirmi un posto di lavoro, subito dopo la laurea».
«Sì, lo so».
«In quell’occasione ho avuto l’impressione che intendessero usare il mio talento in un modo che non mi sentivo di approvare».
«Capisco» mormorò Petrichor, neutro. «E la ringrazio per l’implicita fiducia. No, neanch’io approvo l’ansia di controllo del Rettorio».
Gli rivolsi un sorriso di scuse. «Non è esattamente fiducia, sa. E di certo non è una fiducia immotivata».
Lui si portò una mano alla tempia e rise. Una risata bassa e armoniosa, così... be’, così sexy. Stavo ricadendo nella completa infatuazione di un tempo a una velocità inquietante. «Mi ha letto nella mente? Ora? Cielo, non mi sono accorto di niente».
«Solo la sua attitudine generale. Mi scusi, so di non essere stata educata. Se ora mi volesse dire...»
Lui annuì e voltò la mano destra verso l’alto, per poi aprirla di scatto come se stesse liberando una colomba. E qualcosa si librò sopra la mia scrivania. Dopo un secondo mi resi conto che era una nube di polvere e ancora un secondo più tardi la polvere compose un’immagine. Era il mezzo busto di un uomo. «Thren Valedictorian?» feci io, perplessa. «Dicono che sia morto».
Petrichor sorrise lievemente. «Dicono. Si è mai chiesta chi ha messo in giro quella voce? No, Valedictorian è vivo e vegeto».
Tornai a guardare l’immagine, che stava svanendo. Un uomo dal viso candido e levigato, bello di una bellezza fredda e affilata. I lunghi capelli neri gli spiovevano attorno al viso come un velo e gli occhi sembravano brillare in fondo alle orbite.
«Non capisco che cosa c’entri con me, però» dissi.
Petrichor si mordicchiò il labbro inferiore. «Potrebbe essere una conversazione un po’ lunga. Forse potremmo spostarci in un luogo più...»
«Confortevole? Ma certo».
Lui mi lanciò una strana occhiata. «Sicuro» corresse.
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Undulatory Road era spazzata da un vento gelido, quando uscimmo dal mio studio. Petrichor creò una guaina termica per sé e la estese gentilmente anche a me.
«Dovremmo uscire dal Distretto, se per lei non è un problema» disse.
Mi strinsi nelle spalle. «No. Ma perché?».
«Glielo spiegherò tra poco».
Arrivammo alla prima Giunzione e sprofondammo nel mantello stradale a poca distanza l’uno dall’altro. Ci lasciammo assorbire dalla membrana del Distretto e fummo rilasciati in una stazione della metropolitana. Petrichor si guardò attorno e si diresse verso la banchina per la direzione nord. Guardai la segnaletica. Eravamo a Clapham Junction. Intorno a noi c’erano gli ultimi gentili che tornavano a casa dal lavoro e i primi che uscivano a divertirsi. Prendemmo un treno verso nord, per poi cambiare e spostarci a ovest, fino a Ravenscourt Park. Uscimmo dalla metro e rientrammo nel Distretto.
Doveva essere una Riserva, perché presto la strada che percorrevamo si trasformò in un sentiero acciottolato, illuminato dalla luce della luna.
«È fantastico, qua» dissi.
Petrichor mi rivolse un’altra occhiata strana, ma poi sorrise e annuì. «È la Riserva Ailurophile. E in effetti è piena di gatti».
«Mh?».
«“Ailurofilo”, no? Significa “amante dei gatti”. A volte questi vecchi nomi non vogliono staccarsi dal proprio significato. Siamo arrivati».
Davanti a noi c’era un piccolo cimitero circondato da un muro di pietra. Sulla sommità del muro, pigri ma vigili, decine di gatti guardarono il nostro arrivo.
«In un cimitero?» chiesi io.
Di nuovo, lui sorrise. «No, in una cripta».
Attraversammo il cancello di ferro battuto e percorremmo uno dei vialetti, passando tra le lapidi rischiarate dalla luna. Arrivammo a un altro sentiero, più interno, lungo il quale si allineavano delle antiche tombe di famiglia. Petrichor posò la mano aperta sul portone del mausoleo di una certa famiglia Moiety. Era simile a una grossa cappella in stile neoclassico, di marmo bianco, con un timpano e delle colonne. La porta si aprì e Petrichor mi precedette all’interno.
Non appena la porta si chiuse dietro di noi, si accese una flebile luce.
«Mi scuso per la cornice inquietante. Migliorerà» disse lui, percorrendo una delle corte navate e prendendo delle scale verso il basso.
Un’altra porta, semplice e blindata.
Poi le luci si accesero e mi trovai in una confortevole tavernetta.
C’era un divano a forma di L, un mobile bar, una piastra di cottura, tre poltrone, un lungo tavolo di legno rossastro, un tavolino più piccolo davanti al divano. Le pareti erano rivestite di legno e c’era un grande camino spento, che Petrichor accese poco dopo con uno schiocco delle dita.
«Forse gradisce qualcosa da bere? Oppure potremmo cenare».
Gli vidi nella mente che temeva di avermi spaventato, con tutte quelle deviazioni e con quello strano posto. Vidi anche che sperava che gli avrei lasciato il tempo di spiegare.
«Naturalmente le lascerò il tempo di spiegare. E ho fame» dissi.
Mi sorrise. «Molto bene».
Sembrò che afferrasse un filo tra pollice e indice e che ne seguisse delicatamente la lunghezza nell’aria. Una scivolata, così li chiamavano. Erano incantesimi complessi.
La cucina si mise in moto attorno a noi, mentre lui mi indicava gentilmente una poltrona. Si sedette sul divano e accavallò le gambe.
Nel frattempo, i fornelli si accendevano e della farina veniva setacciata dentro a una ciotola, del burro si scioglieva in un tegame, delle uova si sbattevano...
«Pensavo che fosse solo un alchimista» gli dissi, genuinamente ammirata.
Lui si strinse nelle spalle. «In un certo senso è alchimia anche questa. Ingredianti meno nobili, forse, ma processo non meno affascinante. Signorina Keller. Frisson. Le devo fare un discorso molto serio».
Annuii. A quel punto avevo capito benissimo che non si trattava di un’investigazione psichica.
«Vede, rappresento... un gruppo di persone. Una congrega, se vuole. Sono venuto io a parlarle perché la conosco. Non volevamo preoccuparla. Riguarda Thren Valedictorian, naturalmente. Che cosa ne sa di lui?».
Ci riflettei. «Quello che sanno tutti, presumo. Ha violato le leggi del Rettorio e dell’umanità. Ha... ucciso delle persone. Anni fa ha creato una frattura. Non lo so, in realtà». Sospirai. «C’è chi dice che abbia occupato un sovramondo, ma non credo. Non credo che sia davvero possibile».
«Perché mai?».
Sbattei le palpebre. «Credo che non ci si possa nemmeno vivere. Non è così?».
Lui posò un piatto sul tavolino davanti a me. Era torta di mele ancora calda e aveva un odore meraviglioso. «Questo è un sovramondo».
«Che cosa?» feci io.
Per quello che ne sapevo i sovramondi erano dimensioni in cui le leggi naturali erano sovvertite, diverse, distorte...
«Mangi. Mi dica com’è venuta».
Staccai un pezzo di torta con la forchettina che era comparsa accanto al piatto e me lo misi in bocca. Sembrò sciogliersi sul mio palato. «È buonissima» dissi. «Come facciamo a essere in un sovramondo? Sembra tutto piuttosto... normale».
«È sufficiente plasmarne le leggi. Il nostro capo è un panteologo».
Annuii, anche se non capivo fino in fondo. «Quindi anche Thren Valedictorian lo è? Un panteologo?».
«Anche. Era molto dotato, sa. L’ho avuto come insegnante, per un breve periodo».
«Che cosa?». Sembrava che quella sera non riuscissi a dire nient’altro.
«Ha insegnato all’Accademia, diversi decenni fa. Il Rettorio non ama pubblicizzare questa informazione. Insegnava Sistemi Magici. Ed era... ah, luminoso. Affascinante. E terribile, anche all’epoca. Poi si è distaccato dal Rettorio o, per meglio dire, è entrato in contrasto con loro. Ha creato una frattura nel Distretto, ma poi ha dovuto lasciare quel luogo... era troppo instabile. A quel punto si è ritirato in un sovramondo. Sa qual è stato il suo crimine peggiore?».
«Ha... ha ucciso delle persone, no?».
Petrichor sembrò considerare la cosa. «Anche. Ma il suo crimine peggiore è stato renderle schiave. Puoi togliere la vita a una persona, ma la libertà di scegliere? È un burattinaio».
Cercai di assorbire l’informazione. Sapevo che, in teoria, potevano esserci persone come lui. Persone che erano in grado di prendere il controllo della tua mente. Ma, in pratica, credevo che non esistessero.
«Ma che cosa vuole?» chiesi. «Prendere il controllo di... del Rettorio?».
Petrichor scosse appena la testa. «No. Avrebbe potuto prendere il controllo del Rettorio con mezzi leciti, se avesse voluto. Ammetterlo è avvilente, ma è così. No, è soddisfatto del suo potere ombra. Accumula potere e denaro e forse, alla fine, prenderà il controllo sul Distretto, se nessuno lo ferma. Ma per il momento crediamo che stia... studiando».
«Studiando» ripetei io.
«Già. Pare che stia studiando senza alcun limite morale, senza curarsi di distruggere ciò che studia. La gente che lo circonda... alcuni di loro sono brillanti. È come un brivido senza fine, quello che offre».
Ero confusa.
Mangiai un altro pezzo di torta e di nuovo pensai che fosse buonissima.
«Ha detto “se nessuno lo ferma”. Mi parli della congrega di cui fa parte».
Petrichor sorrise lievemente. «Be’, il nostro obiettivo è quello, in effetti. Fermarlo. Siamo autorizzati dal Rettorio, ma operiamo in modo autonomo e per lo più nell’ombra. Lo abbiamo studiato per diversi anni, avvicinandoci sempre di più mentre lui si ritirava sempre di più. In questo momento arrivargli vicino è... complesso».
«Le sembrerò scema, ma non riesco a capire perché mi stia dicendo tutte queste cose».
Petrichor si alzò e iniziò a passeggiare avanti e indietro. Sembrava quasi combattuto. Spazzò con un gesto il pianale della cucina, riportandolo alla condizione originale.
Tornò a sedersi sul divano. «Vorrei mostrarle una cosa, se me lo permette» disse.
Lo osservai con attenzione.
«Lo sta facendo? Adesso?» mi chiese.
Annuii. Non stavo scavando nella sua mente – sarebbe stato molto maleducato – ma vedevo il complesso dei suoi pensieri. Percepivo un sentimento predominante, la vergogna, e non capivo perché si vergognasse.
Mi rivolse un lieve sorriso. «Mi ricordo di lei, all’Accademia. Che terribile alchimista... E ciò nonostante, non disprezzava la materia come fanno alcuni di quelli che non ci sono portati».
«Ne ero intimidita» ammisi.
«Davvero? No, credo che ne avesse rispetto».
«Volendo» sorrisi io. «Lei era un fantastico professore» aggiunsi. E avevo riempito il mio libro di alchimia di melense poesie in suo onore, pensai, guardandomi bene dal dirglielo.
«Sì, tutti pensavano che avrebbe fatto una veloce carriera al Direttorio» disse, come seguendo un suo pensiero. I suoi occhi erano sul mio viso, mentre parlava, ma sembrava quasi che non mi vedesse. «Tutti lo pensavamo. Eravamo preoccupati per lei... per la sua incolumità. Ma poi si è messa al sicuro da sola, dissentendo dai progetti del Direttorio. È stato un sollievo, anche se...» Si interruppe e sospirò leggermente. «Temo che le nostre preoccupazioni principali fossero altre. Mi scusi, sto evitando l’argomento. Non è facile».
Annuii, lasciandogli il tempo di superare quella vergogna che non comprendevo.
Si picchiettò il sopracciglio destro. «Questo. Immagino che l’abbia notato».
«Certo. Ci chiedevamo perché non l’avesse rimossa, quella cicatrice». Risi sottovoce. «In realtà avevamo raggiunto la conclusione che fosse perché la rendeva più affascinante».
Per un istante Petrichor mi sembrò davvero preso alla sprovvista. Poi scosse appena la testa, con un sorriso bonario. «Affascinante» rise. Fu una risata priva di allegria, però.
«Le mostrerei il resto, ora. Be’, una parte» aggiunse.
«Prego» dissi io, senza capire.
Petrichor si sfilò la giacca e la appoggiò accanto a sé, sul divano. Poi iniziò a sbottonarsi la camicia. Lo fece senza guardarmi e di nuovo percepii quel curioso sentimento di vergogna.
Si sfilò la camicia da dentro ai pantaloni e la aprì completamente. Vidi i muscoli definiti del suo torace, gli addominali tesi, le clavicole ossute, la lieve peluria scura sul petto... e le cicatrici.
Si tolse la camicia e la appoggiò sopra alla giacca.
Le cicatrici gli percorrevano il torace come i graffi di un grosso gatto. Scendevano dal petto sulla pancia, scomparendo sotto alla cintura dei pantaloni.
Mi alzai in piedi e gli girai attorno. Sulla schiena, altre cicatrici. Qua erano sovrapposte e formavano una sorta di reticolo, come se il gatto avesse graffiato prima dall’alto al basso e dalla destra verso sinistra, e poi dall’alto al basso e dalla sinistra verso destra.
Mi chinai sullo schienale del divano e sollevai un dito. «Posso...?».
Lui annuì una volta, senza voltarsi per guardarmi. Feci scorrere la punta dell’indice su uno di quei segni in rilievo, assorbendone informazioni.
Che non fossero normali cicatrici l’avevo già capito. Uno può tenersi un’affascinante cicatrice su un sopracciglio, ma quel reticolo? No di certo. Infatti, come scoprii poco dopo, erano cicatrici magiche, provocate da un aggressore sadico e deciso. Non si potevano curare.
«Mi dispiace» dissi, tornandomi a sedere. «Le fanno ancora male?».
«Quasi mai».
«E continuano fino... fino ai piedi?».
Lui annuì. «Sì, mh... sono sicuro che può immaginarle senza vederle».
Risi, cercando di alleggerire il momento. «È questo il problema». Tornai seria, sporgendomi leggermente verso di lui. «Perché la vergogna?».
Petrichor si umettò leggermente le labbra, come se parlare fosse difficile.
«La persona che... la persona che mi ha torturato... Ephemera Chthonic...». Prese fiato, come se dovesse calmarsi. Per inciso, era già perfettamente calmo, almeno all’apparenza. «È stata anche lei un’allieva di Valedictorian. Lo ha seguito ed è una... bah. Una delle persone più vicine a lui, probabilmente. Ephemera mi prese mentre cercavo di arrivare a lui. Mi torturò su suo ordine».
Ancora non capivo perché si vergognasse.
«Mio... fratello... gemello. Cristofan era stato preso al mio posto. Era stato ucciso... orrendamente». Il suo viso si contrasse in una smorfia di sofferenza, ma subito dopo era scomparsa. «Perché era simile a me, capisce? Molto simile. Quindi cercai di... ah, non so. Cercai di vendicarlo, presumo. Questo fu il risultato».
Riprese la propria camicia e se la infilò di nuovo. Ormai avevo visto quello che c’era da vedere.
«Non è stata colpa sua» dissi, piuttosto inutilmente.
Petrichor mi rivolse un lieve sorriso. «Oh, lo so. Ma una cosa è sapere, un’altra sentire, non trova?».
Annuii.
«Perché dice che mi sono messa al sicuro da sola, dissentendo dai progetti del direttorio?».
«Lei è una telepate, Frisson».
Sentirlo usare il mio nome proprio mi fece una strana impressione. L’aveva già fatto prima ed era stato strano anche allora.
«Per qualche motivo ho sempre pensato che non sapesse il mio nome» sorrisi.
«Be’, era scritto su tutte quelle sue maleodoranti provette, sa?».
«Ha capito quello che intendo».
Si rilassò contro lo schienale del divano. La sua camicia, ancora sbottonata, copriva solo in parte il suo torace e le cicatrici che lo percorrevano. Mi chiesi se lo facesse apposta, ma la risposta era a portata di mano: no. Petrichor non aveva la minima idea di quanto fosse attraente. Non pensava a se stesso in quel modo. Si pensava solo – e sempre – come il fratello ingiustamente sopravvissuto.
«Lei è una telepate. Valedictorian sa sempre come usare un telepate, mi creda. Gli servite. Vi usa... come antenne».
«Eh?».
«Lei ha quella sua poltrona, no? La poltrona amplificante. La usa per ampliare il suo raggio d’azione o non lo so».
«Per essere più precisa. Per mirare, diciamo. Per vedere più chiaramente a distanza».
Petrichor annuì. «Già. Valedictorian usa i telepati più o meno nello stesso modo. E visto che siete rari, cerca di sottrarvi al Rettorio. Per questo quando lei è uscita dai radar siamo stati... sollevati. Veledictorian avrebbe potuto decidere di ucciderla solo per impedire al Rettorio di usufruire dei suoi servizi. Oppure avrebbe potuto catturarla e torturarla fino a renderla collaborativa».
Per la prima volta sentii un brivido di paura. «Ma non l’ha fatto» dissi, quasi a confortarmi.
«No, vede... all’epoca aveva un altro telepate con sé. Carmody Duncan. Non oso pensare che cosa sia stata la sua vita perché... non era un volontario. Ma era molto bravo. Non quanto lei, Frisson, non credo, ma comunque molto bravo. Così quando ha rifiutato di lavorare per il Direttorio Valedictorian l’ha lasciata perdere».
Annuii. «Capisco. Quello che ancora non capisco è perché me ne stia parlando».
Petrichor tornò a sporgersi verso di me, posandosi i gomiti sulle ginocchia e intrecciando le mani all’altezza del proprio mento. «Tre giorni fa Carmody Duncan è morto» disse. «Sono venuto a salvarla».