Capitolo III

3062 Words
Capitolo IIITutto questo che vedi è opera della mano della natura: Queste rocce che lanciano al cielo le loro fronti muscose Come pinnacoli fortificati di antichissimi templi! Questi venerabili tronchi che dondolano lentamente I torreggianti rami al soffio dell’inverno! Questi campi di ghiaccio che scintillano al sole Schernendo il candore di un marmoreo seno! Eppure l’uomo può sciupare queste opere col rozzo suo gusto Come qualche vile profittatore può sciupare la fama di una vergine. Duo Trascorse qualche tempo prima che Marmaduke, ripresosi dalla sua agitazione, potesse esaminare a suo agio il compagno. Osservò che era un giovane di ventidue o ventitré anni, di statura superiore alla media, ma un rozzo giubbotto stretto alla vita da una cintura di filo ritorto come quella del vecchio cacciatore non gli permise di vedere altro; tuttavia, una volta posatosi sul viso del giovane, il suo sguardo vi indugiò con una certa curiosità. Anche Elizabeth era stata colpita dalla strana ripugnanza dello sconosciuto a prendere posto nella slitta, e non sapeva come interpretarla. La sua agitazione era stata vivissima quando raccomandava al compagno la segretezza dell’episodio; e anche quando si era lasciato trascinare al villaggio piuttosto passivamente, l’espressione dei suoi occhi non indicava molta soddisfazione per il passo compiuto. Comunque il cipiglio di quell’eccezionale preoccupazione si andava spianando sulla fronte del giovane, ed egli se ne stava silenzioso, apparentemente immerso nei suoi pensieri. Il giudice lo fissò intento per qualche momento, poi sorridendo della sua smemoratezza, disse: «Mio giovane amico, credo che lo spavento provato mi abbia fatto dimenticare chi siete: il vostro viso mi è familiare; eppure, per l’onore di una dozzina di code di cervo sul mio berretto, non riesco a ricordare il vostro nome». «Sono venuto in questo paese soltanto tre settimane fa», rispose il giovane freddamente, «e odo dire che voi ne mancate da quasi il doppio». «Saranno cinque domani. Eppure il tuo viso l’ho già visto; benché non farebbe meraviglia se, sconvolto come sono, ti dovessi rivedere accanto al mio letto, avvolto in un lenzuolo fluttuante, stanotte! Che ne dici, Bess? Sono compos mentis o no? Atto a coprire un’alta carica giuridica o, quel che adesso è più impellente, capace di fare gli onori della vigilia di Natale a Templeton?». «Sei capace di fare l’una cosa e l’altra, caro papà», rispose una voce scherzosa da sotto le ampie pieghe del cappuccio, «più che di uccidere cervi con un fucile a canna liscia». Seguì un silenzio, poi la stessa voce riprese, in altro tono: «Abbiamo più di una ragione di ringraziare il cielo, stasera!». I cavalli erano giunti al punto dove sembravano riconoscere per istinto che il viaggio volgeva al termine, e mordendo il freno facevano volare la slitta sul pianoro che si stendeva sulla cima della montagna giungendo in breve dove la strada, bruscamente, scendeva serpeggiando verso la valle. Il giudice fu scosso dalle sue riflessioni vedendo le quattro colonne di fumo che esalavano dai suoi camini; e poiché la casa, il villaggio e tutta la vallata si offrivano ormai alla vista, esclamò lietamente alla figlia: «Ecco, Bess, il luogo del tuo rifugio per tutta la vita! E anche tuo, giovanotto, se acconsentirai a restare con noi». Gli occhi dei suoi compagni si incontrarono involontariamente, ma se il vivo rossore salito alle guance di Elizabeth era smentito dalla freddezza del suo sguardo, l’ambiguo sorriso che comparve sulle labbra dello straniero sembrò ugualmente negare la probabilità di poter formare quel gruppo di famiglia. Lo spettacolo, tuttavia, era tale da entusiasmare anche un cuore meno dedito alla filantropia di quello di Marmaduke Temple. Il fianco della montagna percorso dai nostri viaggiatori, se non assolutamente perpendicolare, era così ripido da richiedere la massima attenzione nel discendere il rozzo e stretto sentiero che, a quei tempi, serpeggiava lungo il precipizio. Il nero tratteneva gli impazienti corsieri, ed Elizabeth ebbe tempo di indugiare a contemplare una scena che cambiava così rapidamente sotto le mani dell’uomo da somigliare solo nelle linee generali al quadro tante e tante volte ammirato nella sua fanciullezza. Proprio sotto di loro si stendeva una bella pianura, scintillante e regolare, cinta di montagne scoscese e coperte di foreste. Qua e là i monti digradavano in lunghe e basse ondulazioni che rompevano la regolarità dell’insieme, o in vasti e lunghi campi di neve, che, senza traccia di alberi, di case o di staccionate, sembravano nuvole immacolate deposte sulla terra. Sulla liscia superficie si distinguevano però alcune macchioline nere che si muovevano e che Elizabeth riconobbe per altrettante slitte che entravano e uscivano dal villaggio. All’orlo occidentale della pianura, le montagne, ugualmente alte, erano però meno scoscese, e digradando a terrazza e a cavità che permettevano la coltivazione, si aprivano a formare irregolari valli e vallette. Benché i sempreverdi dominassero anche lì, le linee ondulate delle montagne lontane, coperte di faggi e di aceri, riposavano l’occhio e annunciavano un terreno meno duro. Sulle montagne di fronte si scorgevano, qua e là, macchie bianche che, lanciando sulle cime degli alberi volute di fumo, dimostravano d’essere abitazioni umane; talvolta si raggruppavano in quelle che erano chiamate comunità, ma più spesso erano piccole e isolate; così rapidi tuttavia erano stati i cambiamenti e così perseveranti le fatiche di coloro che avevano messo tutta la loro fortuna nel successo dell’impresa, che Elizabeth, muta e stupefatta, credeva di vedersele crescere sotto gli occhi. Le propaggini della montagna da questo lato della pianura, su cui nessuna pianta aveva messo le radici, erano più lunghe e numerose che nella parte opposta, e una in particolare avanzava in modo da formare, da una parte e dall’altra, bellissime baie di neve. All’estremità di essa si slanciava una quercia, quasi per ombreggiare coi rami un angolo dove le sue radici non avevano il permesso di arrivare. Affrancato da una schiavitù impostagli da secoli dalla crescita della foresta circostante, il nobile albero slanciava all’aperto i suoi rami fantasticamente contorti in un’ansia sfrenata di libertà. Uno spazio oscuro, di qualche acro di estensione, all’estremità meridionale di quella bellissima piana e proprio sotto i piedi dei nostri viaggiatori, rivelava con l’increspata superficie e i vapori che ne esalavano, che quella che era sembrata una pianura, era uno dei laghi montani impietriti dal gelo invernale. Ne usciva uno stretto e impetuoso torrente il cui corso serpeggiante si poteva rintracciare per miglia e miglia attraverso la valle dai bordi di abeti e di pini e dai vapori che esalavano dalla sua superficie più tiepida a contatto con l’aria gelida dei monti. Le sponde di questo ameno bacino al suo sbocco, cioè a mezzogiorno, erano ripide ma non alte; e in quella direzione il paesaggio continuava a perdita d’occhio in una valle stretta e graziosa lungo la quale i coloni avevano sparso le loro umili abitazioni con una profusione che testimoniava la ricchezza del suolo e la relativa facilità degli scambi. Il villaggio di Templeton sorgeva proprio sulle rive del lago. Consisteva in una cinquantina di edifici, di tutti i tipi, costruiti specialmente in legno e che, per la loro architettura, non rivelavano molto gusto e quasi sempre tradivano una fabbricazione affrettata e sommaria. All’occhio presentavano una gran quantità di colori. Alcuni erano bianchi, ma per lo più l’ambizioso ed economico proprietario aveva coperto la facciata di costosi colori e tutto il resto di un’uniforme e sudicia tinta rossastra. Una o due case cominciavano già a rivestirsi della ruggine del tempo; e i tronchi scoperti che si intravedevano dalle finestre prendere un compito che non erano riusciti a portare a compimento. Per lo più erano raggruppate in modo da scimmiottare le strade di città, secondo le direzioni di qualcuno che contemplava le esigenze dei posteri più che le comodità dei presenti abitatori. Tre o quattro delle più belle, oltreché uniformi di colori erano ornate di persiane verdi che, in quella stagione almeno, facevano uno strano contrasto con il gelido aspetto del lago, dei monti, delle foreste e degli ampi campi di neve. Dinanzi alla soglia di queste abitazioni più pretenziose erano piantati alcuni alberelli d’abete di due o tre anni, ancora spogli, simili a granatieri di guardia dinanzi alla soglia di un principe. In realtà gli abitanti di quelle dimore privilegiate erano i nobili di Templeton, come Marmaduke ne era il re. Un paio infatti erano le case di due galantuomini esperti nel campo della legge; un’altra era di proprietà di un individuo che provvedeva ai bisogni della comunità in qualità di bottegaio, e una di un discepolo di Esculapio che, tanto per cambiare, portava al mondo più individui di quanti gliene portasse via. In mezzo a questo incongruo gruppo di abitazioni, e torreggiante su tutte, sorgeva la magione del giudice in mezzo a un vasto recinto pieno di alberi da frutta, alcuni dei quali erano stati lasciati dagli indiani, e, già muscosi e curvi per l’età, facevano vivo contrasto con le giovanissime piantagioni che spuntavano dalle staccionate del villaggio. Due file di pioppi lombardi, recentemente introdotti in America, allineati lungo un sentiero conducevano da un cancello aperto sulla strada principale, alla facciata dell’edificio. La casa era stata costruita interamente sotto la direzione di quel signor Richard Jones che abbiamo già menzionato, il quale per la sua abilità in tante cosette e per una gran buona volontà di mettere in pratica i suoi talenti, aggiunta al fatto che lui e Marmaduke erano figli di due sorelle, sovrintendeva agli affari di minor conto del giudice. Richard amava dire che quella creatura del suo genio inventivo era formata, né più né meno, di quello che dovrebbe essere la base di ogni sermone domenicale: vale a dire un preambolo e una conclusione. Nel primo anno della loro residenza egli aveva dato inizio alle sue fatiche con l’erigere un alto e stretto edificio di legno, con la facciata rivolta verso lo stradone principale; e in questo rifugio (che non altro poteva dirsi), la famiglia abitò per tre anni. Alla fine di quel periodo, Richard aveva completato il suo disegno. Si era giovato, in questa impresa tutt’altro che facile, dell’esperienza di un capomastro ambulante che, esibendo alcuni sudici plastici di architettura inglese e parlando dottamente di fregi, di cornicioni e specialmente dell’ordine composito, si era guadagnato un’esagerata influenza sui gusti di Richard in tutto quello che riguardava questo ramo delle belle arti. Non che il signor Jones non affettasse di considerare Hiram Doolittle un empirico della professione, e non fosse solito ascoltare le sue tirate sull’architettura con un sorriso d’indulgente superiorità; ma sia per incapacità di attingere alle sue dotte riserve qualche cosa da contrapporgli, sia per una segreta ammirazione, generalmente si sottometteva ai consigli del coadiutore. Insieme, essi non solo avevano costruito una casa per Marmaduke, ma avevano creato una moda per l’architettura di tutto il paese. L’ordine composito, sosteneva Doolittle, era un ordine composto da molti altri e tale da riuscire il più utile di tutti in quanto ammetteva tutte le alterazioni suggerite dalle convenienze e dalle circostanze. A questo Richard generalmente acconsentiva: e quando due geni rivali che monopolizzano non solo tutta la reputazione ma gran parte del denaro di una comunità, si mettono d’accordo, non è insolito vederli a capo della moda in questioni anche più gravi. Nel caso presente, il Maniero, come era comunemente denominata la dimora del giudice Temple, era diventato modello per altri edifici, aspiranti a riprodurre o l’una o l’altra delle sue molte bellezze nel giro di venti miglia. La casa vera e propria, cioè “la conclusione” era di pietra: ampia, quadrata e tutt’altro che scomoda. Marmaduke aveva insistito con un sovrappiù della sua consueta pertinacia su quattro requisiti; per il resto, si era pacificamente rimesso a Richard e al suo socio. La degna coppia aveva trovato che il materiale era un po’ troppo duro per gli utensili dei suoi lavoranti, generalmente avvezzi a tagliare il pino bianco delle montagne circostanti, un legno così proverbialmente soffice che è scelto dai cacciatori come guanciale. Se non fosse stato per quest’imbarazzante problema, è probabile che i gusti ambiziosi dei nostri due architetti ci avrebbero dato molto più da faticare a descrivere. Respinti dalla facciata dalla durezza del materiale, essi si erano sbizzarriti nel portico e nel tetto. Era stato deciso che il primo fosse severamente classico, e l’altro un raro esemplare dei pregi dell’ordine classico. Il soffitto, sosteneva Richard, era una parte dell’edificio che gli antichi cercavano sempre di nascondere, essendo un’escrescenza dell’architettura tollerabile soltanto in nome della sua utilità. Inoltre, aggiungeva spiritosamente, il merito principale di un edificio era di presentare una facciata da qualunque parte fosse guardato, perché essendo esposto a tutti gli sguardi allo stesso tempo, non doveva offrire alcun fianco debole agli assalti dell’invidia e della critica. Fu deciso perciò che il tetto fosse piatto e a quattro facce. A questa sistemazione Marmaduke fece le sue obiezioni ricordando le grandi nevicate che si mantenevano a volte per mesi e mesi e che spesso coprivano la terra alte più di un metro. Fortunatamente l’ordine composito si prestava al compromesso, e la lunghezza delle travi fu accresciuta così da formare un declivio per lo sgombero del gelido elemento. Purtroppo, fu fatto qualche sbaglio nella misurazione di queste parti della fabbrica; e poiché uno dei vanti di Hiram era proprio l’abilità nell’usare squadra e compassi, non vi furono opportunità di scoprire l’effetto se non quando i massicci travi furono alzati sulla sommità della costruzione e si vide che, a dispetto di tutte le regole, il tetto era la parte più cospicua di tutto l’edificio. Richard e il socio si consolarono pensando che la copertura avrebbe mascherato quell’insolita elevazione, ma ogni tegola aggiunta non faceva che accrescere l’effetto gigantesco dell’insieme. Richard tentò di rimediare al danno con la pittura e vi depose di sua propria mano ben quattro tinte diverse. Scelse dapprima un bel colore azzurro cielo, nella vana speranza che l’occhio potesse essere ingannato e credere che i cieli stessi posassero imponenti sulla dimora del giudice; poi, quello che chiamava un “color nuvola”, e che in realtà non era altro che un’imitazione del fumo; la terza era chiamata da Richard “verde invisibile”, e fu un esperimento che non riuscì contro lo sfondo del cielo. Abbandonata l’idea di un occultamento, i nostri architetti si stillarono il cervello nel tentativo di trasformare in un ornamento quelle tegole così offensive alla vista e, dopo molte discussioni e due o tre tentativi a lume di luna, Richard chiuse la questione coprendo arditamente il tutto con un colore da lui battezzato “raggio di sole”: metodo spiccio, assicurò al cugino, per avere sempre bel tempo sulla testa. La piattaforma del tetto, come pure le grondaie, furono decorate con balaustre a vivi colori, e il genio di Hiram si sbizzarrì a fabbricare varie urne a rilievi che vennero sparse a profusione su questa parte dell’opera loro. Richard aveva escogitato in origine un astuto espediente per cui i camini sarebbero rimasti così bassi e collocati in modo tale da sembrare ornamenti delle balaustre; ma i polmoni degli abitanti richiesero che fossero alzati per portar via il fumo, e divennero così quattro oggetti estremamente cospicui del paesaggio. Poiché questo tetto era la più importante impresa architettonica a cui il signor Richard si fosse impegnato, la mortificazione per l’insuccesso fu parimenti grave. Dapprima egli bisbigliò fra le sue conoscenze che tutto era colpa dell’ignoranza di Hiram nell’arte della squadra e del compasso; ma quando, a poco a poco, i suoi occhi si abituarono a quell’insolito spettacolo, si sentì più soddisfatto delle sue fatiche, e invece di chiedere scusa per i difetti, cominciò a esaltare le bellezze della magione padronale. Ben presto trovò degli ascoltatori; e poiché la ricchezza e gli agi piacciono a tutti, il tetto, come abbiamo detto, divenne un modello da imitare su piccola scala. Meno di due anni dopo Richard ebbe la soddisfazione di affacciarsi dall’alta piattaforma per guardare tre umili imitazioni della bellezza creata da lui. La moda è ovunque la stessa: gli errori dei grandi sono sempre oggetto d’ammirazione. Marmaduke sopportò con molto buon umore quella deformità della sua dimora e presto riuscì, con migliorie di sua invenzione, a dare alla sua casa un’aria di rispettabilità e di comodità. Tuttavia, proprio accanto al Maniero, c’era ancora molto di strano e di disordinato. Benché i pioppi fossero stati importati dall’Europa per ornare il giardino, e salici e altri alberi spuntassero a poco a poco vicino alla dimora, più di un mucchio di neve tradiva la presenza di un troncone di pino; resti di alberi in parte distrutti dal fuoco alzavano le loro nere colonne otto o dieci metri al di sopra dell’immacolata distesa della neve. Questi, che nel linguaggio del paese sono chiamati stubs, abbondavano nei campi intorno al villaggio, misti qua e là alle rovine di qualche pino o di qualche abete che, spogliati della corteccia, scuotevano malinconicamente le nude membra alle ventate, come scheletri di un glorioso passato. Ma queste e altre aggiunte al paesaggio non turbavano lo sguardo di Elizabeth, la quale, mentre i cavalli scendevano il fianco della montagna, ammirava felice l’insieme della scena aperta come una carta geografica innanzi a lei: il gruppo di case e i cinquanta fili di fumo che alzavano le loro volute dalla valle alle nubi; il lago gelato, incastonato fra i sempreverdi, con le ombre dei pini allungate sul bianco seno dal sole calante; l’oscuro nastro del torrente che serpeggiava verso il lontano Chesapeake, tutte le scene della sua fanciullezza, trasformate, ma sempre presenti nel suo cuore. Cinque anni avevano arrecato maggiori cambiamenti di un secolo in quel paese dove il tempo e il lavoro hanno reso permanenti le opere dell’uomo. Per il giovane cacciatore e per il giudice, tutto ciò non rappresentava una novità; eppure nessuno emergeva dalle foreste della montagna e vedeva il glorioso spettacolo di quella splendida valle spalancarsi improvviso ai suoi piedi senza provare un esaltante senso di gioia. Il giovane girò uno sguardo pieno d’ammirazione da nord a sud, poi tornò a nascondere il viso nel giubbotto; mentre l’altro contemplava con filantropica soddisfazione il quadro di ricchezza e di benessere che gli si stendeva d’intorno, frutto della sua iniziativa e della sua attività. L’attenzione della compagnia fu attirata a un tratto da un allegro suono di campanelli da slitta che saliva per la montagna con un ritmo che rivelava un tiro potente e un vigoroso guidatore. I cespugli che crescevano lungo la strada impedivano la visuale, e le due slitte si incontrarono prima di essersi viste a vicenda.
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