Capitolo IVedi, l’inverno viene, a governar l’anno mutato,
Cupo e triste, con tutto il suo corteo:
Nebbie e nubi e tempeste.
Thomson
Vicino al centro dello Stato di New York si stende un ampio distretto la cui superficie è tutta un susseguirsi di colline e di vallette, o per rispettare maggiormente i termini geografici, di montagne e di vallate. È fra queste che trae origini il Delaware; e, scorrendo dai limpidi laghi e dalle migliaia di sorgenti di quella regione, le numerose fonti del Susquehanna errano di valle in valle finché si uniscono a formare uno dei più imponenti fiumi degli Stati Uniti. Le montagne sono generalmente arate fino alla cima, benché non manchino esempi di fianchi montani irti di rocce che contribuiscono a rendere anche più romantico e pittoresco il carattere del paese: le valli sono strette, profonde e coltivate, e un corso d’acqua le attraversa serpeggiando. Bei villaggi fiorenti sorgono sull’orlo dei laghetti e sulle rive dei fiumi nei punti più adatti alle industrie; e linde e comode fattorie, che presentano tutti i segni esteriori della ricchezza, sono sparpagliate in gran numero per le valli e fin sulle cime. Le strade divergono in tutte le direzioni, dal fondo piano e ameno delle conche ai più aspri e difficili valichi delle montagne. Accademie e scuole si offrono ogni poche miglia allo sguardo del forestiero che percorre le strade tortuose di quel paese così variato; e gli edifici dedicati al culto di Dio vi abbondano con la frequenza tipica di un popolo onesto e riflessivo, e con quella varietà di aspetti e di indirizzi canonici che sgorga dalla più completa libertà di coscienza. In breve, tutto il distretto dimostra continuamente quanto può essere ottenuto, sotto leggi miti, perfino in un paese montuoso e con clima rigido, dove ognuno degli abitanti ha un interesse diretto nella prosperità e nel benessere della comunità della quale sa di far parte. Gli sforzi dei pionieri che per primi ararono questa terra sono stati continuati con assidue migliorie dall’agricoltore che aspira a lasciare i suoi resti mortali sotto la zolla che coltiva, per renderla sempre più ricca; e forse anche suo figlio, nato su questa terra, desidera piamente di non allontanarsi dalla tomba del padre. Solo quarant’anni fa, questo territorio era un deserto.
Appena dichiarata l’indipendenza degli Stati a mezzo della pace del 1783, l’attività dei cittadini fu diretta a sviluppare i vantaggi naturali dei loro amplissimi domini. Prima della Rivoluzione le parti abitate della colonia di New York erano limitate a meno di un decimo dei loro possedimenti. Una stretta striscia di terreno che si stendeva per breve tratto da ambo le parti dell’Hudson e una cinquantina di miglia sulle rive del Mohawk, insieme alle isole di Nassau e di Staten e a poche colonie isolate qua e là nei punti più convenienti sulle rive dei fiumi, componevano tutto il paese, abitato allora da meno di centoventimila anime. Nel breve periodo di tempo suddetto, la popolazione si è sparsa oltre cinque gradi di latitudine e sette di longitudine, e ha raggiunto un milione e mezzo di abitanti, che sono mantenuti nell’abbondanza e possono guardare all’avvenire, certi che secoli passeranno prima che arrivi il giorno fatale in cui i loro possedimenti possano rivelarsi inadeguati ai loro bisogni.
Il nostro racconto comincia nel 1793, circa sette anni dopo la fondazione di una delle più antiche di quelle colonie, che hanno effettuato un così magico cambiamento nelle condizioni e nella potenza dello Stato di cui parliamo.
Era quasi il tramonto di un giorno di dicembre limpido e freddo, e una slitta avanzava lentamente su per una montagna del distretto che abbiamo descritto. Il giorno era stato bello per la stagione, e solo due o tre grosse nuvole, illuminate dal riflesso della neve che ammantava la terra, fluttuavano in un cielo di purissimo azzurro. La strada serpeggiava sul ciglio di un precipizio, sostenuta da una parte da un rinforzo di tronchi ammucchiati, mentre una stretta insenatura scavata nel fianco della montagna, dal lato opposto, formava uno spazio abbastanza largo per le necessità di viaggio a quei tempi. Ma tronchi, scavo e tutto quello che non sorgeva di parecchi piedi sulla terra era sepolto sotto la neve. Un’unica pista, appena appena sufficiente ad accogliere la slitta1 e sprofondata di circa due piedi sotto la superficie circostante, indicava la strada. Nella valle che si estendeva parecchie centinaia di piedi più sotto, c’era quello che nella lingua del paese era chiamato una chiarita e tutti i lavori d’uso in una nuova colonia; anzi questi si stendevano per la montagna fino al punto dove la strada svoltava bruscamente e correva sul pianoro che costituiva la cima, che era rimasta boscosa. L’atmosfera scintillava, quasi piena di particelle luccicanti, e due bei cavalli bai che tiravano la slitta erano coperti, qua e là, da una crosta di ghiaccio. Il respiro sgorgava dalle loro narici come fumo; ogni cosa intorno, nonché l’equipaggiamento stesso dei viaggiatori, denotava il rigore dell’inverno montano. I finimenti, di un nero opaco, diverso dalle lucenti verniciature che usano oggi, erano adorni di enormi placche e borchie di rame che splendevano come l’oro quando i raggi del sole si infiltravano obliqui fra le cime degli alberi. Enormi selle borchiate e coperte di quel panno che serve a fare coperte per il bestiame sorreggevano quattro alte torrette a punta quadrata, attraverso le quali le pesanti redini passavano dalla bocca dei cavalli alle mani del guidatore, che era un nero di circa vent’anni.
Il suo viso, che la natura aveva dipinto di un bruno scintillante, sembrava chiazzato dal freddo, e i suoi grandi occhi lucenti erano pieni di lacrime: immancabile tributo dell’africano al gelo acutissimo di quelle regioni. Sulla sua faccia allegra si leggeva tuttavia una sorridente espressione di buonumore, suscitato dal pensiero della casa e di un bel fuoco natalizio e di tutti i divertimenti d’occasione. La slitta era uno di quei mezzi di trasporto ampi, comodi e antiquati che avrebbero accolto nel grembo una famiglia intera, ma conteneva soltanto due viaggiatori oltre al cocchiere. All’esterno era di un modesto color verde, ma nell’interno di un rosso fiammeggiante, inteso a suscitare l’idea del calore in quel rigido clima. Sul fondo erano distese ampie pelli di bufalo orlate di panno rosso a festoni, ammucchiate intorno ai piedi dei viaggiatori, uno dei quali era un uomo di mezza età, e l’altro una fanciulla nel primo fiore della giovinezza. Il primo era grande e grosso, ma le preoccupazioni prese per salvaguardarsi dal freddo lasciavano ben poco della sua persona esposto alla vista. Un pastrano abbondantemente ornato d’una profusione di pellicce, avviluppava tutta la sua figura tranne la testa, che era coperta da un berretto di martora foderato di marrocchino, con due paraorecchi tirati giù e legati sotto la gola con un nastro nero; la sommità del berretto era sormontata dalla coda dell’animale che aveva fornito il materiale e che, non senza grazia, ricadeva di qualche pollice dietro la testa. Sotto questa specie di maschera si intravedeva un bel viso virile e un paio di occhi azzurri, grandi ed espressivi, che tradivano un intelletto non comune, un fine senso d’umorismo e una grande benignità. La figura della sua compagna era letteralmente nascosta dagli indumenti che indossava. Pellicce e sete spuntavano sotto un ampio pastrano di pelo di cammello pesantemente foderato di flanella che, per la foggia e la misura, era senza dubbio destinato a un indossatore di genere maschile. Un grande cappuccio ovattato, di seta nera, le nascondeva la testa non lasciando che una piccola apertura sul davanti, dalla quale scintillavano due vivaci occhi nerissimi.
Tanto il padre che la figlia (tali erano i due viaggiatori) erano troppo occupati coi propri pensieri per rompere col suono della loro voce un silenzio appena rigato dal facile scivolar della slitta. Il primo pensava a sua moglie che, quattro anni prima, aveva stretto al cuore per l’ultima volta la loro creatura dopo aver consentito, a malincuore, a separarsene, affinché potesse godere i vantaggi d’una educazione offerta a quei tempi soltanto dalla grande città di New York. Pochi mesi dopo, la morte lo aveva privato dell’unica compagna della sua solitudine; eppure, sollecito com’era del bene della sua bambina, non aveva voluto ricondurla nel luogo relativamente selvaggio in cui viveva prima che fosse spirato il periodo destinato al compimento dei suoi studi. Le riflessioni della fanciulla erano meno malinconiche, e mescolate a una piacevole meraviglia dinanzi al mutevole scenario che incontrava a ogni svolta della strada.
La montagna su cui viaggiavano era coperta di pini che sorgevano nudi e dritti per venti o venticinque metri, e che spesso con la cima raddoppiavano quell’altezza. Attraverso le innumerevoli prospettive aperte fra gli alberi maestosi, l’occhio spaziava finché trovava una lontana irregolarità del terreno o era arrestato dalla cima della montagna che sorgeva al di là della valle. I neri tronchi si slanciavano dal puro candore della neve come lance regolari finché, a grande altezza, ne sgorgavano i rami orizzontali coperti dal magro fogliame dei sempreverdi, stranamente contrastanti col torpore della natura sottostante. Ai viaggiatori sembrava che non ci fosse vento; eppure i rami più alti ondeggiavano maestosamente emettendo un suono grave e lamentoso, in armonia con quella malinconica scena.
La slitta procedeva scivolando sulla liscia superficie della neve e gli sguardi della fanciulla erano fissi, incuriositi e forse un po’ timidi, nei recessi della foresta, quando si udì un latrato alto e continuo, riecheggiato dalle lunghe arcate dei boschi come l’abbaiare di un’intera muta di segugi. Appena quel suono giunse all’orecchio del gentiluomo, questi gridò al nero:
«Fermati, Aggy, c’è il vecchio Hector: riconoscerei il suo latrato fra mille! Calza-di-Cuoio ha portato i cani in montagna, con questa bella giornata, e hanno cominciato a cacciare. C’è una pista di cervo poco più su… E ora, Bess, se non avrai paura di sentire un colpo di fucile, ti offrirò un bel pezzo di cacciagione per il tuo pranzo di Natale».
Il nero tirò le redini con un allegro sogghigno sul viso infreddolito e cominciò a battersi le braccia per riavviare la circolazione sanguigna mentre il signore si alzava, e, gettate via le coperte, scendeva dalla slitta su un mucchio di neve che sostenne il suo peso senza cedere.
In pochi momenti riuscì a estrarre da una quantità di bauli e di cappelliere una leggera doppietta da caccia. Gettate via le pesanti manopole che gli riparavano le mani, le quali apparvero infilate in guanti di pelle orlati di pelliccia, esaminò l’innesco e stava per fare un passo avanti, quando s’udì fra i tronchi un balzo leggero, e un bel cervo passò come una freccia per il sentiero a poca distanza da lui. La comparsa dell’animale fu improvvisa e la sua fuga inconcepibilmente veloce; ma a quanto pareva il viaggiatore era troppo esperto per lasciarsi sconcertare. Appena l’animale fu in vista alzò il fucile, e con occhio sicuro e mano ferma premette il grilletto. Il cervo balzò via, apparentemente immune. Senza abbassare l’arma il viaggiatore girò la canna nella stessa direzione e fece fuoco di nuovo.
La scena si era svolta con una rapidità sconcertante, e la fanciulla si rallegrava già inconsapevolmente della salvezza del bell’animale passato come una freccia dinanzi a lei, quando il suo orecchio fu colpito da un suono secco e riverso dalla detonazione piena e sonora del fucile del padre, ma amaramente riconoscibile come un colpo d’arma da fuoco. Nello stesso istante il cervo, balzando dalla neve, fece un gran salto in aria, e prima che ricadesse a terra a capofitto rotolando nell’eccesso stesso della sua velocità, era echeggiato un altro colpo simile al primo. Si udì un grido lanciato dall’esperto tiratore ancora invisibile; poi due uomini uscirono da dietro il tronco di due pini dove senza dubbio si erano appostati per attendere il passaggio della preda.
«Ah Natty! Se avessi saputo che c’eri tu in agguato non avrei sparato!» eclamò il viaggiatore avvicinandosi al punto dove giaceva il cervo, seguito fin lì dal nero raggiante, con la slitta. «Ma il latrato del vecchio Hector era troppo entusiasmante; però non so neppure se l’ho colpito io».