2.
«Non è sicuro».
Ormai Zeeva iniziava a considerarla la risposta standard di Kostya a tutto. Un bel giorno gli avrebbe chiesto se voleva un morso del suo lavash, un pane simile a focaccia, e Kostya le avrebbe risposto che non era sicuro.
«Non è mai sicuro, secondo te» gli fece notare.
«Infatti non lo è quasi mai» ribatté lui, senza il minimo segno di frustrazione.
Il loro chaperon gli lanciò uno sguardo annoiato. «Quindi, cosa noi fare? Andare?».
Il suo inglese era rudimentale e passava al terassiano appena possibile. Era al volante di una carretta della fine degli anni ’90 e li stava accompagnando fuori città, verso l’accampamento dei veterany. A trovare quel contatto Zeeva ci aveva messo quasi una settimana, ora non intendeva buttare il lavoro fatto solo perché Kostyantyn era troppo prudente.
«Certo, andare» confermò, ignorando l’occhiataccia del suo operatore.
Il loro contatto ripartì. Non stavano attraversando la zona ovest della città, ovviamente. I combattimenti continuavano in modo sempre più feroce, lì, e persino Zeeva doveva convenire che passare da quei quartieri non sarebbe stato sicuro. Per nulla.
Quindi stavano costeggiando le vecchie mura medievali – o ciò che ne restava – a sud di Silvka, dirigendosi a occidente evitando le zone dove erano concentrati gli scontri.
Il loro contatto, un contrabbandiere sulla cinquantina di nome Tapac, riprese a parlare in terassiano.
«Dice che a sud delle mura è un po’ terra di nessuno» tradusse Kostya, con un sospiro. «I governativi non hanno davvero il controllo dell’area, ma formalmente non è occupata dai veterany, né dagli skhidni».
«Quando siamo arrivati con il convoglio di Medici Senza Frontiere siamo entrati dalla porta Est» considerò Zeeva.
«Sì, i veterany non vedono di buon occhio gli occidentali».
Tapac aggiunse qualcosa in terassiano e Kostya tradusse: «E probabilmente si sarebbero tenuto gli aiuti per loro. Non sono messi tanto bene».
«In che senso, Tapac?».
Il contrabbandiere si strinse nelle spalle.
«Oh, ora tu vede».
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Non era un vero accampamento. C’erano delle tende, certo, ma venivano usate per tenere al coperto l’attrezzatura e i veicoli. Gli inverni terassiani erano troppo rigidi perché i soldati dormissero dentro quelle grosse tende di tela cerata e, anche se l’autunno era solo all’inizio, il gelo sarebbe arrivato presto.
No, le camerate erano in due depositi e una fabbrica abbandonata. L’edificio principale era un grosso blocco di mattoni scuri, probabilmente di fine ‘800. Molte finestre erano rotte ed erano state sostituite da assi o pannelli metallici.
Per arrivare fin lì avevano dovuto passare tre posti di blocco. In tutti i casi Tapac aveva spiegato che i suoi accompagnatori erano giornalisti e avevano un lasciapassare del comandante Maksym Sewick, ma in tutti i casi Zeeva aveva dovuto anche pagare per il passaggio. Fortunatamente la moneta locale era così svalutata che per uno straniero si trattava di cifre irrisorie.
Alla fine erano arrivati al campo vero e proprio. I tre edifici e le tende di tela erano circondate da una rete, da barricate di detriti e da degli sbarramenti fatti di filo spinato.
Dopo aver superato l’ultimo sbarramento, Tapac li fece scendere dalla loro carretta. Aprì il baule e tirò fuori un grosso borsone.
«Vado a portare tue medicine» spiegò a Zeeva. «Tu e voi restate qua da macchina. Non vagare. Ora arriva un qualcuno a prendere voi, chiaro?».
«Chiaro» annuì Zeeva.
Lo guardò allontanarsi a passo veloce sul terreno brullo e duro della base. Con la pioggia quel posto doveva essere un pantano, ma ora era già troppo freddo perché il suolo restasse morbido molto a lungo. Zeeva sapeva benissimo che Tapac non stava andando a “portare” i medicinali che gli aveva consegnato. Stava per andarli a vendere.
Che qualcuno rivendesse gli aiuti umanitari che avrebbero dovuto essere gratuiti la faceva arrabbiare, ma non così tanto da rinunciare a quell’occasione di sentire la voce dei veterany.
«Ti ricordo che a meno di un chilometro inizia la zona degli scontri» le disse Kostya, non appena Tapac se ne fu andato. Subito dopo si accese una sigaretta e diede un tiro nervoso.
«Ho capito».
«Quindi cerchiamo di fare presto, okay?». Un altro tiro nervoso. Quanto meno sbuffava il fumo in un’altra direzione.
«Siamo letteralmente al centro di un campo militare. Per quanto sia vicino il fronte, non credo che qualcuno arriverà qua sparando» provò a dimostrarsi ragionevole lei.
«Campo militare è una parola grossa. I veterany sono dei miliziani, dei mezzi banditi».
Zeeva gli lanciò uno sguardo esasperato. «Sempre armati sono».
«Sì, per questo qualcuno potrebbe sganciarci una bomba in testa».
Zeeve iniziava a essere davvero innervosita dall’atteggiamento da menagramo del suo operatore.
«Per prima cosa, non mi risulta che i governativi abbiano mai bombardato in questa zona. I loro bersagli sono sempre stati gli skhidni. Secondariamente, sono militari: avranno dei sistemi antiaerei, no?».
Anche se di questo non era proprio sicurissima. Come base lasciava un po’ a desiderare.
Pochi minuti più tardi un tizio tarchiato sulla ventina andò a prelevarli vicino alla macchina. Indossava una generica tuta da campo grigio-verdastra, con un distintivo nero e rosso su una manica. Zeeva aveva già visto quel segno, ma non sapeva bene che cosa rappresentasse.
Disse loro in terassiano di seguirlo.
Mentre andavano in direzione dell’edificio di mattoni Zeeva si guardò attorno. Il suolo di terra battuta portava i segni in rilievo degli pneumatici di innumerevoli jeep, cristallizzati nel terreno freddo come sentieri ormai perduti. Tutti i militari che incrociavano li guardavano con interesse, in viso un’espressione cauta, ma non ostile. Per molti versi quello sembrava un qualsiasi accampamento provvisorio di un qualsiasi esercito. I soldati si spostavano a gruppetti, senza fretta, in jeep o a piedi.
La maggior parte delle tende che superarono – grosse tende spioventi, color grigio-verde – erano chiuse e non era possibile vedere che cosa ci fosse all’interno. Le poche che videro aperte contenevano delle casse di legno.
La loro guida li portò fino a una tenda simile a tutte le altre, chiusa, e disse loro di aspettare.
Pochi secondi più tardi da quella stessa tenda usciva un uomo alto, in tuta grigio-verdastra, seguito da un secondo militare più basso e più anziano.
Fu quest’ultimo a parlare, in terassiano. Zeeva sentì la parola che stava per “giornalisti” e il nome Sewick. Solo con un secondo di ritardo capì che quello era il comandante del campo.
Gli tese la mano. «Sewick? Lei è Maksym Sewick?».
Lui la strinse senza grande entusiasmo. «Già. Non sono contento che voi siate qua, ma i medicinali ci servivano» disse, con forte accento terassiano. Quantomeno parlava inglese.
Era un esemplare del tipo slavo, senza quasi le labbra, con la pelle chiara e gli occhi piccoli e grigi. Al contrario della maggior parte delle persone della sua etnia, non era biondo. I capelli molto scuri erano tagliati cortissimi, le orecchie erano piccole, aderenti alla testa, quasi femminili. Tutto il resto non lo era: Sewick era alto, atletico, con le spalle larghe e la mascella squadrata, la quintessenza del soldato.
«Non vogliamo disturbare. Solo documentare la situazione in città. Posso farle qualche domanda, comandante?».
«Visto che è venuta per questo» rispose lui, senza sorridere.
«Il mio operatore può fotografare il campo?».
Sewick spostò lo sguardo su Kostya. «Esamineremo la sua fotocamera prima che ve ne andiate. Cancelleremo le immagini che riteniamo possano costituire un rischio per noi. Non riprendete le facce dei soldati».
«No? Perché?».
Sewick la guardò come se pensasse che fosse scema. «Il paese è diviso in fazioni. La maggior parte dei miei uomini ha una famiglia, a casa. Può andare» aggiunse, rivolto a Kostya, «ma resti dove posso vederla».
Kostya le lanciò uno sguardo un po’ incerto e Zeeva annuì, come a comunicargli che sarebbe stata al sicuro.
«Posso vedere il resto del campo? La base qua dietro?».
Sewick sospirò. «Venga. La accompagno a fare un giro».
Ancora una volta, non fece nulla per nascondere che la sua presenza non lo rendeva felice. A Zeeva la cosa non faceva né caldo, né freddo. Era difficile trovare qualcuno entusiasta di parlare con un giornalista, nel suo campo. Se si fosse occupata di spettacolo o politica nazionale probabilmente sarebbe stato diverso.
Si avviarono lungo uno dei passaggi tra le tende. I soldati li guardavano con la coda dell’occhio. Zeeva accese il registratore e chiese il permesso di usarlo subito dopo. Sewick annuì.
Ovviamente iniziò dalle domande più innocue, per sciogliere un po’ il ghiaccio e per avere comunque qualcosa da usare, se il suo interlocutore si fosse scocciato e l’avesse mandata via.
«Non vedo neppure una donna» commentò, guardandosi attorno con aria un po’ fatua.
«Sono queste le sue domande?» chiese il comandante, inarcando un sopracciglio.
Lei sorrise. «Vuole parlare subito di politica?».
«Non voglio proprio parlare».
Il sorriso di Zeeva si allargò. «Le giuro che si capisce. Ma io vi ho portato quei farmaci, faccia almeno finta di darmi qualcosa in cambio».
Sewick sbuffò. Fece un gesto vago. «C’è qualche donna».
«Parlo di soldati».
«Sì, anch’io. Non le teniamo a fare il minestrone, se è quello che pensa».
Zeeva cercò di smussare ulteriormente i toni. «Su, non se la prenda. Sono un’occidentale. Non so come funzionano le cose. Non mi porterà a vedere quel bell’edificio di mattoni, vero?».
«No».
«Che cosa c’è nelle casse?».
«Attrezzatura».
«Chi vi finanzia? Come vi procurate le armi?».
Sewick la guardò in silenzio.
«Non sarebbe stato più semplice prendere una posizione? Appoggiare il governo o appoggiare gli skhidni?».
«Forse non sa quanto sia corrotto il governo. Pask si è dimesso, ma tutta la sua gente è ancora al potere. Non vogliamo che svendano la nostra nazione all’Occidente».
«Quindi siete più vicini agli skhidni?».
Sul viso di Sewick comparve una vaga espressione di disgusto. «Siamo stati sotto il loro tallone per decenni. Hanno distrutto la nostra economia, ci hanno imposto il loro modo di pensare. Davvero pensa che potremmo essere dalla loro parte?».
«Si dice che lasciate filtrare via i loro disertori, però».
Si diceva anche di peggio: che il loro fosse controllo del territorio brigantesco. Che taglieggiassero la gente del luogo in cambio di “protezione”. Ma Zeeva non era così scema da fare domande in merito proprio al loro comandante.
«Appunto: disertori. Non abbiamo nessun interesse a uccidere dei terassiani come noi senza motivo».
«Per il momento sembrate in attesa. Che cosa farete quando i governativi avranno ripreso il controllo della città?».
Zeeva si aspettava un altro minaccioso silenzio, ma Sewick la sorprese rispondendo: «Non lo riprenderanno».
«Questa è un’affermazione interessan...»
Le sue parole furono interrotte da un suono. Una sirena antiaerea. Un suono penetrante, continuo, che sembrava forarti i timpani.
Zeeva l’aveva sentito altre volte, nel corso della sua vita, ma mai in un posto come quello. Si guardò attorno spaventata, cercando Kostya.
Sewick la prese per un braccio prima che riuscisse a individuarlo.
«Venga con me. Non si preoccupi. Di solito deviano prima di sorvolarci».
«E se passano qua sopra? Gli sparate?».
«No».
Sewick continuava a tirarla verso l’edificio di mattoni. Ora non camminava più a passo rilassato. Rivolse un ordine al suo sottoposto e quello si allontanò in fretta. Zeeva sperò con tutta se stessa che stesse andando a cercare Kostya».
Il comandante la portò quasi di forza fino al palazzo di mattoni. Le sue dita le facevano male, le stringevano il braccio con troppa forza. E la sirena, che non accennava a fermarsi, la riempiva di un timore solo in parte razionale.
Sewick la spinse oltre una porta, verso un passaggio scuro. Altre persone si affrettavano da quella parte, ma con un certo ordine. «Vada giù con il personale civile».
«Giù dove?».
«Nel sotterraneo, dannazione. Adesso vada. Ho altre cose di cui occuparmi. Non provi a uscire finché l’allarme non è cessato, chiaro?».
Zeeva si trovò ad annuire. Quello era un uomo che non voleva vedere arrabbiato, decise.
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Dal fronte: Dalla parte di nessuno
Di Zeeva Farley
Non si fanno fotografare in faccia perché “a casa hanno una famiglia”. Anche questa è la Terassia, un paese così dilaniato che i soldati di uno schieramento hanno paura di vendette trasversali sui propri cari, che magari vivono in un territorio controllato da un’altra fazione.
Non è di qua, la maggior parte dei veterany. Non è di Silvka. Vengono da tutto il paese e condividono una profonda antipatia per le altre due parti in guerra.
Per i governativi “Corrotti. E pronti a svendere il paese all’Occidente” e per i filo-orientali, che appoggiano chi li ha tenuti “Sotto il tallone per decenni, imponendo il loro modo di pensare”. La voce del comandante della base subito fuori Silvka si fa amara, quando aggiunge: “Davvero pensa che potremmo essere dalla loro parte?”.
Così sono gli appartenenti all’esercito irregolare: non potendo essere dalla parte di nessuno, hanno formato una terza parte. Camminando per il loro campo, non incontro uomini allo sbando, ma disciplina militare. Dei banditi di cui mi hanno parlato non vedo tracce. Tutto è in ordine. Quando suona l’allarme antiaereo i civili si riparano nei rifugi, gli altri restano di guardia. Che cosa fanno mentre i caccia governativi aggirano la loro base e vanno a bombardare Silvka Ovest? Non posso saperlo, anch’io sono stata accompagnata in un rifugio.
“Nel resto del paese non so. Qua i veterany controllano il territorio, sì, ma nessuno ha mai chiesto il pizzo alla popolazione. Avvertono per tempo dei raid aerei, fanno scendere la gente nei loro rifugi” mi spiega un agricoltore della zona. O forse sarebbe meglio dire un ex agricoltore, perché “Chi bada ai campi, con il rischio che vengano bombardati da un momento all’altro?”.
I venti minuti dell’attacco sembrano non finire mai. La sirena non smette di suonare per tutto il tempo, ma i miei compagni di rifugio sono tranquilli, se hanno paura se lo tengono per loro.
“Succede anche cinque, sei volte al giorno”, mi dice una ragazza giovane, sui vent’anni. “Dopo il calare del sole anche di più. Non riusciamo a dormire una notte intera. Uno si riposa quando può”.
Capisco che lavora nelle cucine. La gente delle campagne porta quello che può. È logico. Finché ci sono loro, il conflitto resta circoscritto alla zona ovest della città. La mia compagna di rifugio è una volontaria. Da come parla di un certo Denys, capisco che ha un qualcosa con uno dei soldati. Non ha paura? Ma i teressiani non hanno mai paura. E se la hanno non te lo dicono.