1.
Cinque anni più tardi
Zeeva Farley arrivò a Silvka con un convoglio di Medici Senza Frontiere. La situazione stava precipitando, nella parte ovest della città. Insorti e governativi avevano scaramucce giornaliere. Cosa più inquietante, i confini ovest erano presidiati dall’esercito irregolare e allontanarsi da Silvka iniziava a essere complicato, almeno da quella parte.
Zeeva aveva un ricordo vago delle sue vie, un ricordo che risaliva a quasi dieci anni prima, quando la Terassia era ancora in pace e lei era una giornalista alle prime armi. Era atterrata all’aeroporto Dovrodov ed era andata in taxi fino al palasport dove si teneva la premiazione di un qualche concorso di bellezza internazionale. All’epoca, Zeeva non aveva quasi fatto caso agli ampi viali alberati, ai palazzi ottocenteschi di pietra grigia, al traffico caotico. Era una grande città come un’altra, la seconda dopo la capitale per numero di abitanti. Quanti erano, a quei tempi? Qualche milione. Tre o quattro, non di più.
Ora la popolazione era ridotta a meno di due milioni, attorno all’aeroporto si combatteva da mesi ed era meglio tenersi alla larga dai grandi viali e passare dalle strette vie del centro storico.
Quando Zeeva era stata lì la prima volta, Silvka era una qualsiasi città di un paese da poco uscito dalla Cortina di Ferro. In periferia svettavano i palazzoni immensi e grigi tipici del Blocco Est, il centro era un curioso mix di oriente e occidente che formava un dedalo di stradine di pietra. Zeeva non aveva avuto tempo di visitarlo. Aveva solo attraversato la città in taxi, aveva assistito alla premiazione, era andata in albergo – un posto pulcioso – per scrivere il suo pezzo e il giorno dopo era ripartita.
Ricordava solo che il clima era freddo. Bella forza, da quelle parti era freddo il cinquanta percento dell’anno. Il restante cinquanta si divideva tra un quaranta freddissimo e un dieci torrido. Sì, il tempo faceva schifo, in Terassia. Aveva sempre fatto schifo.
Ora faceva schifo anche tutto il resto.
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Scese dal camion e ringraziò il responsabile della spedizione. Si mise in spalla il suo zaino e si guardò attorno. Erano nel piazzale dell’ospedale, al momento gestito quasi solo grazie a Medici Senza Frontiere. Degli ambulanti vendevano la propria merce sotto i portici di cemento, macchine e furgoni arrivavano e ripartivano senza sosta. Era freddo. Era sempre freddo, da quelle parti. Il cielo era grigio e non sembrava l’inizio dell’autunno, ma inverno.
Zeeva si tirò su il bavero del giaccone.
Una macchinina di un brutto color bianco sporco diede un paio di colpi di clacson, accostandosi. Zeeva si chinò sul finestrino del passeggero. Il guidatore si allungò per aprirlo a mano.
«Zeeva Farley?» disse, in un inglese un po’ gutturale. «Kostyantyn Masol, puoi chiamarmi Kostya. Sono venuto a prenderti».
Le mostrò il suo tesserino della Associated Press, premendolo contro il vetro impolverato.
Zeeva aprì la portiera e salì in macchina. Buttò il suo zaino sul sedile posteriore.
«Grazie».
Nell’abitacolo c’era odore di sigaretta e l’aria era fredda quasi come all’esterno. Zeeva ne dedusse che l’albergo dove alloggiavano entrambi era vicino.
«Sei il mio operatore, quindi? O sei solo quello che è venuto a prendermi?».
«Il tuo operatore e traduttore».
«Mi servirà più la seconda cosa della prima».
Lui annuì. «Mi hanno parlato del progetto. Ti scoccia se fumo?».
«No».
Mentre la macchina avanzava sul selciato sconnesso e Kostya si accendeva una sigaretta usando una mano sola, Zeeva si prese qualche istante per esaminarlo.
Da quello che aveva visto fino a quel momento, in Terassia c’erano due tipi fisici, corrispondenti in linea di massima a due diverse etnie. C’era un tipo di terassiano alto, chiaro di pelle, con le ossa grandi e gli occhi piccoli, slavati. Poi c’era l’altro tipo, quello più minuto e scuro, con gli occhi liquidi e le labbra. Questo perché il primo tipo, quello slavo, di solito le labbra non le aveva quasi. Il tipo olivastro aveva labbra morbide e denti bianchi, anche se quest’ultima cosa non era assicurata.
Kostya era del tipo olivastro, sulla trentina, magro, ossuto, con i peli della barba neri e irti, il naso a becco e delle lunghe, lunghe ciglia di velluto.
La macchina entrò in un cortile e poco dopo si fermò.
«Qua è dove stanno quasi tutti i giornalisti stranieri» spiegò Kostya, indicando la facciata verdastra con la sigaretta.
«E anche tu, no?».
Lui le rivolse un sorriso storto. «Sissignora. In una quadrupla. L’appartamento dov’ero prima non è più sicuro».
Buttò la sigaretta fuori dal finestrino, per poi richiuderlo subito. Zeeva era sicura di avere già gli abiti e i capelli che puzzavano di fumo, ma non potevi iniziare una collaborazione con qualcuno rompendogli le palle.
Uscirono dalla macchina e Kostya prese il suo zaino.
«Tu hai una singola, comunque. In fondo sei la star».
«Mh-mh. Non c’era una suite, eh?».
Kostya ridacchiò e le aprì cerimoniosamente la porta dell’hotel.
Era un brutto edificio degli anni ’60. La facciata verdina non era neppure la parte peggiore. All’interno, una stretta hall con un bancone su un lato, moquette consumata a terra e un ascensore dall’aspetto vetusto accanto alle scale.
Aspettò che il portiere registrasse i suoi documenti. Se c’era una cosa che aveva imparato negli ultimi dieci anni era questa: mai perdere di vista il tuo passaporto in un paese straniero, per quanto evoluto ti sembri.
La Terassia, per di più, non era evoluta. Era in guerra. Lasciare il proprio passaporto in mani sconosciute sarebbe stata una pessima idea.
Il portiere ci mise un’infinità, forse perché non era a suo agio con i caratteri occidentali dei documenti. In compenso Zeeva non era a suo agio con il cirillico terassiano che usavano lì. Era una versione particolare del cirillico, con diversi caratteri propri solo alla nazione in cui erano. Anche soltanto capire che cosa c’era scritto sui cartelli stradali per lei non era facile.
Alla fine salirono sull’ascensore piccolo e cigolante.
«La sistemazione non è un granché, ma è nella zona più sicura della città» disse Kostya.
«Devi spiegarmi com’è la situazione» replicò lei. «Sul campo».
Kostya annuì.
La accompagnò fino a una camera singola. Singola e piccola, ma non c’era motivo di lamentarsi. Aveva persino il bagno. Kostya restò sulla porta.
«Vuoi fare una doccia, prima? L’acqua calda va e viene».
Zeeva si strinse nelle spalle. «Più tardi. C’è un motivo specifico per cui non stai entrando? Buone maniere, religione, discrezione?».
Il suo operatore sorrise e si decise a seguirla all’interno. «Buone maniere. Quindi... che cosa sai di Silvka?».
Lei si sedette sul letto.
«Seconda città del paese. La zona ovest in questo momento è contesa tra filo-orientali e filo-occidentali, mentre la fascia esterna è occupata dall’esercito irregolare, che blocca chiunque cerchi di abbandonare Silvka verso ovest. Questo mette i filo-orientali in una bruttissima situazione, perché la maggior parte degli altri quartieri sono ancora formalmente in mano al governo, e dunque filo-occidentali».
«A grandi linee. Ma mi dicono che filtrare via, per loro, non sia del tutto impossibile, dato che molti ex-miliari hanno prestato servizio sotto il vecchio regime e sono più vicini agli skhidni che ai zakhidni, quindi...»
«Ho capito. Secondo alcuni osservatori internazionali il conflitto, a Silvka, si esaurirà quando l’ultimo nucleo filo-orientale sarà stato sconfitto o i suoi membri saranno fuggiti».
Kostya fece un’espressione scettica.
«La vedo difficile».
«Anch’io» concordò Zeeva «ma dimmi se mi sono fatta un’idea abbastanza chiara della situazione. Silvka è a est. Qua attorno...»
«Esatto!» interruppe lui. «Qua attorno sono tutti filo-orientali. Non perché gli piacesse il vecchio regime, ma perché i loro nonni sono venuti dalla steppa e loro non sono pronti a comprendere gli usi occidentali. In città ci sono un sacco di terassiani dell’ovest, tutte le posizioni pubbliche sono in mano a gente dell’ovest. Tecnicamente la città è in mano al governo, ma la maggior parte dei cittadini è insofferente e pensa: tra i due mali, meglio quello conosciuto».
«Ho capito. E l’esercito irregolare, i cosiddetti veterany...»
Kostya scosse la testa. «Non lo so. Anche per noi è difficile da capire. Per di più io non sono di qua, okay? Sono della capitale».
Zeeva stava per replicare, ma da fuori si sentì come... un tuono. Un tuono lontano, foriero di tempesta.
Solo che non era un tuono.
«A volte il rumore degli ordigni più potenti si sente fin da qua» confermò Kostya, senza bisogno che lei chiedesse.
Che lo volesse o meno, Zeeva rabbrividì.
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Dal fronte: Anche oggi qualcuno muore di guerra, a Silvka
Di Zeeva Farley
Sono in questo paese da quasi due mesi, ma non ho ancora capito niente della mentalità terassiana. Negli ultimi sei anni hanno raso al suolo intere città, distrutto quasi tutto, eppure sembrano essere rassegnati a non fermarsi mai.
Non è più una lotta per il potere, la guerra è diventata una condizione permanente, un modo di vivere.
Ricordate l’inizio? La caduta del blocco orientale e, pochi mesi dopo, anche del regime sostenuto dai sovietici. Un regime totalitario, corrotto, liberticida.
Poi, l’insediamento di un nuovo governo, democratico. Noi tutti, in Occidente, abbiamo pensato che la Terassia fosse sulla strada di altre nazioni dell’ex-blocco orientale, diretta verso una difficile democrazia.
Ma i due governi Pask sappiamo che fine hanno fatto. La corruzione si è diffusa ancora di più – ed era già endemica sotto il vecchio regime – le speranze della nazione sono state tradite. E per noi è difficile da capire, ma anche il cambio di paradigma è stato troppo brusco. Nelle città, nei territori più a ovest, la gente ha abbracciato il cambiamento con entusiasmo, ma a est è restata sospettosa. Quando il secondo governo Pask ha rischiato di cadere per corruzione, i loro sospetti si sono rivelati fondati.
È stato quasi sei anni fa. Ricordate?
Le sommosse di piazza si sono presto trasformate in ribellione armata e noi occidentali abbiamo pensato: «Be’, ora nascerà un nuovo governo filo-orientale».
Ma i governativi hanno resistito. Hanno resistito come matti e abbiamo tutti capito che qualche nazione occidentale “ben intenzionata” li stava sovvenzionando. D’altronde qualche nazione orientale ben intenzionata stava sovvenzionando gli skhidni, gli insorti filo-orientali.
Intere città sono state rase al suolo. Piccole città periferiche, all’inizio.
Questo è quel che vuol dire non capire nulla della mentalità terassiana: abbiamo pensato che si sarebbe fermato tutto presto. In fondo la Terassia era una nazione civile. Povera, certo, ma quasi-europea.
Come abbiamo visto, non si è fermato nulla.
Pochi mesi dopo al quadro di caos generale si è aggiunta anche la defezione di interi battaglioni dell’esercito, a partire dal generale Kozel.
Pensavamo che i cosiddetti veterany si sarebbero schierati con gli skhidni, i filo-orientali.
Ancora una volta, non avevamo capito nulla.
Ieri sono arrivata a Silvka. Attraversando la parte est della città sul convoglio di Medici Senza Frontiere non ho visto rovine fumanti o gente in fuga. Le strette strade del centro sono piene di vita, almeno prima dello scoccare del coprifuoco. Ma i grandi viali sono deserti e pericolosi, moltissimi palazzi, in periferia, sono abbandonati, e nell’aria – fredda e umida – si respira un’incertezza, una sospensione. Come se l’intera Silvka stesse trattenendo il fiato in attesa di vedere come evolveranno le cose.
A ovest le campagne sono in mano all’esercito irregolare dei veterany, nella parte ovest della città si combatte. Anche ora, mentre scrivo, ogni tanto si sente un tuono lontano: un ordigno che esplode.
Anche oggi qualcuno è morto di guerra, in città, mentre negli altri quartieri si cercava in qualche modo di tirare avanti.