Prologo
Nadiya guardava il cielo buio sopra Farans’k, la giovane mente divisa tra il fascino e l’apprensione. Le scie dei traccianti sembravano lacrime di fuoco. Il ronzio lontano dei caccia era come il rumore di un gigantesco sciame di vespe. Le esplosioni la lasciavano sempre nell’incertezza, quando era notte: erano bombe, o c’era un temporale in arrivo?
Nadiya aveva quattro anni. Sua madre passava metà del tempo ad acchiapparla, visto che le piaceva girellare tra le macerie come fossero un parco giochi. La rimbrottava e Nadiya prometteva che non si sarebbe più allontanata, ma poi lo rifaceva senza pensarci. Una volta la mamma si era arrabbiata così tanto che le aveva dato uno sculaccione forte, l’aveva strattonata per un braccio e l’aveva quasi trascinata in cantina. Era caduto un razzo e la polvere era finita nel naso di Nadiya, facendola starnutire. Le erano venuti a bruciare gli occhi.
La mamma aveva detto “ben ti sta, forse così capirai che là fuori è pericoloso”.
Nadiya avrebbe voluto risponderle che lo sapeva. Lo sapeva, davvero. Non era così piccola, aveva capito.
Ma la cantina era noiosa.
Era immersa in una luce fioca, gialla e piena di ombre. Colorare il suo libro era difficilissimo, in quelle condizioni.
Quando glielo aveva detto, papà aveva ascoltato le sue rimostranze con attenzione. Aveva promesso di portarle una lampada da minatore, appena ne trovava una. Nadiya non sapeva che cosa fosse una lampada da minatore, ma sperava che papà gliela portasse presto.
Lui e la mamma durante il giorno potevano uscire – non come lei – dato che erano Adulti. Gli Adulti non stavano sempre in cantina. Mamma e papà portavano cose interessanti e, a volte, da mangiare. Erano quasi sempre scatolette e a Nadiya un tempo non piacevano, ma ultimamente aveva capito che non erano male.
Ma quella sera avevano delle vere verdure.
Mentre la mamma le tagliava, Nadiya era sgattaiolata fuori, avvolta in tre strati di maglioni. Nel cielo c’erano quelle lacrime di fuoco e in lontananza si sentivano dei tuoni. Non era facile capire dove fossero, ma erano lontani, oltre quei tetti là.
Papà doveva ancora tornare e Nadiya sperava che stavolta le avrebbe portato una lampada da minatore.
«Sei qua!»
La voce di sua madre la distrasse dallo spettacolo del cielo in fiamme. La notte diventava rossa, certe volte.
Alzò il viso verso di lei, rassegnata a ricevere una bella sgridata.
Ma la mamma si limitò a prenderla per un braccio, borbottando: «Non lo so che cos’hai nel cervello, a startene qua mentre bombardano a pochi isolati di distanza».
La portò di nuovo verso casa loro. Il primo piano non c’era più e il piano terra era pieno di polvere e calcinacci. Nadiya non ricordava se avevano sempre abitato lì, ma non credeva. Le sembrava di aver avuto un giardino, un tempo.
La mamma la indirizzò verso le scale buie per la cantina. Erano quasi in fondo quando un tuono risuonò proprio sopra la loro testa.