V.Il direttore aprì la porta della cella con le sue mani.
Ci trovammo in una prigione stretta e alta, simile a una stanza situata in una torre. In alto c’era un’apertura con inferriata, che lasciava passare l’aria e la luce. Seduto a terra, nell’angolo formato dalla congiunzione di due muri, vedemmo il “pazzo fortunato”, a detta del direttore, che stava lavorando, con un fascio di paglia da ogni lato. I raggi che scendevano obliquamente dalla finestra illuminavano i suoi capelli grigi e facevano risaltare lo strano pallore grigiastro del viso e la delicatezza delle mani da uomo giovane, attivamente occupate nel loro lavoro. Una catena che gli circondava non solo la cintola, ma anche le gambe, fra le ginocchia e le caviglie, lo fissava al muro e gli permetteva di muoversi in uno spazio di un paio di metri.
Al disopra della sua testa un’altra catenella sospesa era destinata senza dubbio ad attaccarvi i polsi e le mani in caso di necessità. L’uomo mi parve di bassa statura, a meno che non mi ingannasse la sua postura. I vestiti laceri coprivano appena il suo corpo emaciato. In tempi più felici doveva essere stato un ometto ben formato; i suoi piedi e le caviglie, così come le mani, erano ben fatti.
Era così assorto nel suo lavoro che non aveva sentito il chiacchiericcio fuori dalla cella. Fu soltanto all’udire sbattere rumorosamente la porta da parte dell’inserviente (che rimase dietro di noi, al cenno del direttore) che egli alzò gli occhi. Vedemmo allora l’espressione vaga e passiva dei suoi grandi occhi castani, le linee del suo viso selvatico, le sue labbra nervosamente mobili. Per un istante egli guardò i visitatori, uno dopo l’altro, con curiosità infantile.
Il suo sguardo errante scoprì l’inserviente, in piedi dietro di noi, con la frusta in mano. Improvvisamente l’espressione del suo viso cambiò: un odio feroce gli brillò negli occhi, le labbra si aprirono come la bocca di una belva che mostra i denti.
Mia zia si accorse della direzione dello sguardo e si spostò per nascondere alla vista del pazzo il ripugnante guardiano e il suo strumento di tortura, e per attrarre l’attenzione di lui. Con una rapidità straordinaria l’espressione del disgraziato cambiò completamente; i suoi occhi si addolcirono, un vago e triste sorriso gli sfiorò le labbra. Egli lasciò cadere la paglia che stava intrecciando e alzando le mani in un gesto d’ammirazione mormorò:
«Oh, che bella signora!», mormorò tra sé. «Che bella signora!»
Tentò di trascinarsi fin dove la lunghezza della catena glielo permetteva, ma a un cenno del direttore si fermò e sospirò amaramente: «Oh, non vorrei far male a questa signora per tutto l’oro del mondo», disse. «Perdonate, signora, se vi ho spaventata».
La sua voce era dolce. C’era qualcosa di strano nella sua pronuncia e una certa cortesia nelle maniere.
Noi uomini eravamo fermi a una certa distanza dalla catena; mia zia, con la sua vivacità femminile e il disprezzo del pericolo che la prendeva quando la sua compassione era risvegliata, avanzò verso il pazzo.
Il direttore l’afferrò per un braccio e la trattenne.
«Fate attenzione», disse, «voi non lo conoscete come lo conosciamo noi».
Gli occhi dell’uomo si dilatarono e le sue labbra cominciarono di nuovo ad aprirsi. Temetti di veder ricomparire quell’espressione feroce del viso, ma questo non avvenne. Al momento di abbandonarsi a un nuovo accesso di rabbia, il disgraziato mostrò che, sotto l’influenza di una forza interiore, era ancora capace di dominarsi. Afferrò con le due mani la catena che lo fissava al muro e la torse con tale violenta energia che temetti di vedere le ossa delle mani uscire attraverso la pelle. La testa gli ricadde sul petto e tutto il suo corpo tremò. Tutto questo fu questione di un istante; quando egli risollevò le palpebre i suoi poveri occhi, bagnati di lacrime, si volsero verso mia zia. Essa liberò il suo braccio dalla stretta del direttore e, prima che fosse possibile impedirglielo, si chinò su quell’uomo e mise una delle sue belle mani bianche sulla fronte di lui.
«Come brucia la vostra fronte, povero Jack», disse semplicemente. «La mia mano la rinfresca un poco?»
Tenendosi sempre disperatamente alla catena, lui rispose come un bambino timido: «Oh, sì, signora, vi ringrazio».
Ella prese il piccolo cappello di paglia a cui egli lavorava quando eravamo entrati.
«È fatto bene, Jack», continuò. «Raccontatemi come siete arrivato a fare questi bei lavori con la paglia».
Egli la guardò, preso da un rapido accesso di fiducia; l’interesse che ella dimostrava per il suo lavoro lo lusingava.
«Un tempo», disse «c’è stato un tempo in cui le mie mani facevano cose folli. Si rivoltavano contro di me, mi strappavano i capelli, le mie unghie penetravano nella carne. Un angelo mi disse in sogno ciò che dovevo fare per tenerle quiete; un angelo mi disse; “Falle lavorare, lavora la paglia”. Tutto il giorno intrecciai la paglia e avrei continuato tutta la notte se mi avessero lasciato la luce. Le mie notti sono cattive... le mie notti sono spaventose! Quell’aria densa mi divora... quell’oscurità mi fa paura. Volete sapere qual è la più grande benedizione del cielo? La luce del giorno! la luce del giorno! la luce del giorno!»
A ogni ripetizione di queste parole la sua voce montava di tono. Egli era sul punto di gridare, quando strinse la catena ancor più fortemente e tacque.
«Sono tranquillo, signore», disse al direttore prima che questi avesse il tempo di riprenderlo.
Mia zia disse qualche parola in suo favore.
«Jack ha promesso di non spaventarmi e sono sicura che manterrà la sua parola. Non avete avuto parenti o amici che siano stati buoni con voi, Jack?»
Egli la guardò.
«Mai, prima che voi veniste a trovarmi». Mentre parlava, c’era una scintilla di intelligenza nei suoi occhi lucidi per la gratitudine. «Domandatemi qualunque cosa, vedrete che vi risponderò con calma», la pregò.
«È vero che siete stato avvelenato per errore e che avete rischiato di morire?»
«Sì».
«Dov’è successo?»
«Lontano da qui, in un altro paese, nella grande stanza del dottore, al tempo in cui ero assistente del dottore».
«Chi era il dottore?»
Egli si portò la mano alla fronte.
«Lasciatemi stare un momento; mi fa male quando cerco di ricordare troppe cose. Lasciatemi prima finire il cappello, voglio regalarvelo quando sarà terminato. Guardate come sono agili le mie dita».
E si rimise a lavorare al suo cappello, felice che mia zia stesse a guardarlo.
Il notaio, malaccorto, diede luogo a un cambiamento sfavorevole. Essendo rimasto fino a quel momento passivo, egli credette, per la propria dignità professionale, di dover prender parte a ciò che avveniva.
«La mia esperienza penso sarà utile a questo punto», disse. «Direi di trattarlo da testimone avverso; vedrete che otterremo qualcosa da lui... Jack!»
Il “testimone avverso” continuò il suo lavoro senza batter ciglio. Il notaio, tenendosi prudentemente fuori di portata, alzò la voce: «Ehi, voi, siete sordo?», gridò.
Jack lo guardò con un cattivo sguardo penetrante. Una persona meno presuntuosa non si sarebbe fidata a insistere, ma il notaio continuò:
«Via, galantuomo, chiacchieriamo un po’. Jack Straw non può essere il vostro vero nome. Come vi chiamate?»
«Come volete. E voi?»
«Questa non è una risposta. Avete un padre o una madre?»
«Non che io sappia».
«Dove siete nato?»
«In una grondaia».
«Come siete stato educato?»
«Qualche volta con un pugno sulla testa».
«E nel tempo rimanente?»
«Nel tempo rimanente con un calcio. State quieto e lasciatemi terminare il mio cappello».
Il notaio, un po’ sconcertato, volle tentare con un regalo. Gli mostrò uno scellino.
«Vedete questo?»
«No, non lo vedo; vedo solo il mio cappello».
Questa risposta mise fine al dialogo.
Il notaio guardò il direttore e disse: «È un caso disperato».
Il direttore rispose: «Completamente disperato, signore».
Jack terminò il cappello e lo diede a mia zia.
«Vi piace ora che è finito?», domandò.
«Mi piace moltissimo; lo guarnirò di nastro e lo porterò come vostro ricordo».
Mia zia si rivolse al direttore indicando il cappello.
«Credete che un uomo che può fissare la sua attenzione su un lavoro come questo, possa essere considerato incurabile?»
Il direttore rispose: «Non significa nulla, si tratta di un lavoro assolutamente meccanico».
Jack toccò il braccio di mia zia.
«Voglio dirvi qualche cosa in un orecchio».
Ella si chinò e ascoltò. La vidi sorridere e le chiesi, dopo aver lasciato la clinica, cosa le avesse detto. Jack le aveva espresso la sua opinione sul direttore con queste parole: «Non gli date ascolto, signora, è un povero essere mezzo pazzo. E poi è piccolo, non arriva a quindici centimetri più di me...»
Mia zia non aveva ancora finito con il nemico di Jack.
«Mi dispiace disturbarvi ancora, direttore», disse. «Prima di andarmene dovrò dirvi qualche cosa; potete accordarmi qualche minuto?»
Il direttore, cortese, dichiarò che era interamente a sua disposizione.
Mia zia si volse per salutare Jack; ma l’idea che ella se ne andasse fu più di quel che poteva sopportare: il povero pazzo perse tutto il dominio su di sé.
«Restate con me!», gridò afferrandole le mani. «Abbiate pietà di me, restate!»
Ella conservò la sua presenza di spirito e non permise che nessuno intervenisse in suo aiuto. Senza indietreggiare, senza tentare di svincolarsi, ella gli parlò dolcemente.
«Stringiamoci la mano, per oggi, Jack. Voi avete mantenuto la vostra promessa, siete stato tranquillo; ora devo andarmene per un momento». Egli scosse ostinatamente la testa senza lasciarla.
«Guardatemi», continuò mia zia senza manifestare alcun timore. «Anch’io voglio dirvi una cosa; non siete più una creatura abbandonata, Jack, avete un’amica in me. Guardatemi».
Quelle parole nette e ferme gli fecero effetto; egli la guardò; i loro occhi s’incontrarono.
«Ora, lasciatemi andare».
Egli lasciò ricadere le mani, si ricacciò nel suo angolo e si mise a piangere.
«Non la vedrò mai più, mai più!», gemette. «Mai, mai, mai più».
«Mi rivedrete domani», disse lei.
Egli la guardò attraverso le lacrime, poi distolse gli occhi con un movimento di diffidenza:
«Non lo pensa», mormorò come a se stesso; «lo dice per calmarmi».
«Mi vedrete domani», ripeté mia zia. «Ve lo prometto».
Egli fu placato; ma non convinto. Si trascinò lontano quanto la catena glielo permise e si coricò ai piedi di mia zia, come un cane. Ella rifletté un momento e trovò un mezzo di conquistare la sua fiducia.
«Devo lasciarvi in pegno qualche cosa fino al mio ritorno?»
Quell’idea lo colpi; alzò il capo e guardò mia zia con profondo interesse. Ella gli consegnò la borsetta nella quale teneva il fazzoletto, il borsellino e una boccetta di profumo.
«Ve la affido, Jack. Ma la renderete domani quando ci vedremo».
Quelle parole lusingarono l’amor proprio del pazzo e finirono per farlo rassegnare.
«Troverete la vostra borsetta in pezzi, domani», disse sottovoce il direttore mentre apriva la porta.
«Scusatemi», rispose mia zia, «ma credo invece che la troverò in perfetto stato».
Quando gettammo un ultimo sguardo sul povero Jack, prima che la porta si richiudesse, lo vedemmo che stringeva la borsetta sul petto e la baciava.