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La figlia di Gezabele

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Due uomini morti per coincidenza nello stesso giorno, uno a Londra e l'altro a Francoforte. Due vedove, una intenta a prendersi cura di un povero pazzo che dice di essere stato avvelenato, l'altra a difendersi dall'accusa di essere una criminale.Una lotta tra due donne forti, un amore osteggiato tra due giovani, una denuncia del trattamento inumano verso i malati di mente, la fascinazione vittoriana per le scienze sperimentali: tutto questo fa parte de "La figlia di Gezabele", finora inedito in Italia.Un romanzo che, oltre a richiamare altri capolavori dell'autore inglese come "La donna in bianco" e "Armadale", spinge agli estremi il concetto di "sensational tale" di cui Collins è indiscusso maestro.

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I.
I.Riguardo la questione della figlia di Gezabele, i miei ricordi iniziano con la morte di due uomini, stranieri, in due luoghi diversi, lo stesso giorno, nello stesso anno. Erano tutti e due uomini di valore, ciascuno nel suo genere, ed erano estranei tra loro. Il signor Ephraim Wagner, commerciante, proveniente da Francoforte sul Meno, morì a Londra il 3 settembre 1828. Il dottor Fontaine – celebre a quell’epoca per le sue scoperte in chimica sperimentale – morì a Wurzburg il 3 settembre dello stesso anno. Tutti e due lasciarono una vedova. Quella del commerciante, una inglese, non aveva figli. Quella del chimico, originaria della Germania del Sud, aveva una figliola a consolarla. A quel tempo, già lontano – sto scrivendo nel 1878, a mezzo secolo di distanza – io ero impiegato nell’ufficio del signor Wagner e giovanissimo, nipote della moglie del principale, ero stato accolto da lui con molta bontà. Ciò che sto per raccontare è stato visto dai miei occhi e udito dalle mie orecchie: e posso garantire della mia memoria, come tutte le persone attempate ricordo ora più chiaramente gli avvenimenti antichi dei recenti. L’ottimo signor Wagner era malato da parecchi mesi, ma i medici non prevedevano alcun pericolo immediato. Egli dimostrò loro che s’ingannavano pensando bene di morire proprio nel momento in cui essi affermavano che aveva qualche probabilità di guarigione. Quando questa sventura colpì sua moglie, io ero assente da Londra: ero stato inviato per affari alla succursale di Francoforte sul Meno, diretta dai soci di Wagner. Arrivai a Londra il giorno seguente ai funerali, in tempo per assistere alla lettura del testamento. Wagner era stato naturalizzato inglese e le sue ultime volontà erano in mano a un legale inglese. La quarta, quinta e sesta clausola del suo testamento sono le sole che valgano la pena d’essere ricordate. La quarta istituiva erede universale di tutti i beni la vedova del testatore. La quinta dava una nuova prova della fiducia assoluta che egli riponeva in lei, designandola come esecutrice testamentaria. La sesta e ultima cominciava con queste parole: Durante la mia lunga malattia, la mia cara moglie ha agito come mia segretaria e rappresentante. Ella è così perfettamente al corrente dell’andamento dei miei affari che la considero la persona più adatta a sostituirmi. Le do una prova assoluta della mia fiducia e della mia gratitudine e nello stesso tempo credo di agire nell’interesse della ditta di cui sono a capo, designandola come mio solo successore con pieni poteri. Il notaio e io guardammo mia zia. Ella si era abbandonata contro lo schienale della sua poltrona, col viso nascosto dal fazzoletto. Aspettammo rispettosamente che ella potesse riprendere abbastanza dominio su se stessa per manifestare i suoi desideri. Le espressioni d’affetto e di stima contenute nelle ultime parole del testamento di suo marito l’avevano commossa profondamente. Soltanto dopo aver versato abbondanti lacrime si ricordò di noi e ritornò abbastanza calma per parlare. «Fra qualche giorno sarò forse più forte», disse. «Venite da me alla fine della settimana, avrò qualche cosa d’importante da dire a entrambi». Il notaio azzardò una domanda: «Si tratta di cose inerenti al testamento?» Ella scosse il capo negativamente. «Si tratta delle ultime volontà di mio marito». Ci salutò e si ritirò nella sua camera. Il notaio la seguì con uno sguardo grave e diffidente. «La lunga esperienza che ho acquistato nella mia professione», mi disse, «mi ha insegnato molte cose, e vostra zia me ne richiama una alla memoria». «Quale? Posso saperla?» «Certamente». Mi prese a braccetto e aspettò che fossimo usciti dalla casa per continuare: «Diffidate sempre delle ultime volontà di un morente a meno che non siano state comunicate al suo notaio e consegnate nel suo testamento». Mi parve allora che egli giudicasse le cose da un punto di vista molto ristretto. Come potevo prevedere che i fatti gli avrebbero dato ragione? Se mia zia si fosse accontentata di eseguire i piani di suo marito quali egli li aveva dettati prima della sua morte e non fosse corsa al nostro ufficio di Francoforte… Ma a che serve cavillare su cosa sarebbe o non sarebbe accaduto? Il mio dovere è dire ciò che è avvenuto. Ritorno quindi al mio compito.

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