1.

2529 Words
1. Quattro regni si dividevano l’Altopiano. Serlye disegnava una lunga fascia arcuata alle pendici dei Monti Azzurri, a nord; Buris prendeva parte della pianura e della foresta, a sud; Lut era piccolo ma ricco a causa delle cave di metalli preziosi, a est, dove i Monti Azzurri diventavano la Cintura di Rys. Lorenn, infine, era proprio al centro della pianura, con la sua grande capitale, la sua potente casta dei mercanti e il fiume Line, che la attraversava diretto verso sud. Anche Lerer Ard’banhol era diretta verso sud, oltre la grande foresta che iniziava a Buris e separava l’Altopiano dai regni delle pianure. Per arrivare a Radeto c’erano sei giorni di viaggio senza incontrare villaggi. Solo il bosco fitto, la strada e i posti di cambio. Fu al quarto giorno che il suo convoglio venne assalito, mentre erano nel folto della foresta. Dapprima sentì un sibilo e un grido. Poi uno dei soldati di scorta urlò: «State giù! Ci attaccano!». Lerer si abbassò tra i sedili, imitata dall’anziano duca di Taselm, ambasciatore di Buris diretto in Attiria. «C-che cosa...» balbettò, mentre attorno alla carrozza risuonavano i rumori di uno scontro: spade che cozzavano, esclamazioni roche, cavalli che sbuffano e galoppavano, gemiti di dolore e una voce metallica che ordinava: «Laggiù!». «Devono essere briganti» sussurrò il duca di Taselm, il viso grondante di sudore. «La nostra scorta ne avrà facilmente ra...» Lo sportello della carrozza si aprì e il duca venne tirato fuori senza tante cerimonie. L’uomo che l’aveva afferrato indossava la sola corazza di un’armatura brunita, polsiere di cuoio spesso e un mezzo-elmo. La sua pelle era cotta dal sola e unta, nella bocca contornata da una folta barba rossiccia mancava qualche dente. «È questo qua, Serath?» gridò, voltandosi a metà. «Che cosa ne so, chiediglielo» replicò la voce metallica che Lerer aveva sentito prima. «Sei Blaten, duca di Taselm?» chiese il barbuto all’ambasciatore. Il duca deglutì. Era chiaro che in quel momento avrebbe voluto non esserlo. Alla fine annuì un paio di volte, capendo che la sua vita stava finendo e decidendo evidentemente che tanto valeva chiudere con dignità. «Serath, è un vecchio» si lamentò il barbuto. Dal suo punto d’osservazione tra i sedili della carrozza Lerer vide avvicinarsi un altro uomo, un soldato anche questo. Anche lui indossava solo la corazza di un’armatura brunita e un mezzo-elmo, per quanto più elaborato di quello del suo collega. Era anche più giovane, sbarbato, con gli occhi chiari e freddi, i lineamenti duri ma belli, una piccola cicatrice sul sopracciglio destro... Lerer era sicura di avere già visto quella faccia, se non dal vivo in un ritratto, ma non le veniva in mente chi fosse. «Vorrei riuscire a diventarlo anch’io» tagliò corto l’uomo, in quel momento. Squarciò la gola al duca con un movimento veloce del coltello, scansandosi elegantemente per non inzaccherarsi di sangue. Poi alzò lo sguardo su Lerer. Anche lei lo guardò. Desiderò di non essere rannicchiata tra i sedili e di non avere le gunce bagnate di lacrime. Se la sua vita finiva quel giorno, anche lei avrebbe preferito concluderla con dignità. «Tu chi sei?» disse l’uomo, Serath. Lerer si raddrizzò. Il soffitto della carrozza le imponeva di stare con la testa leggermente piegata, ma così era già meglio. «Lerer Ard’banhol di Lorenn» disse. Serath imprecò a mezza voce e sputò da un lato. «La figlia di re Elmtor?» fece l’uomo barbuto, sgranando gli occhi. «Proprio io» confermò Lerer, cercando di raddrizzarsi. Ma, no, niente, batté solo la testa contro il soffitto. Questa volta fu l’uomo barbuto a imprecare e a sputare da un lato. «Che cosa succede?» gridò una voce, da dietro alla carrozza. Il barbuto imprecò ancora una volta e sputò più disgustato che mai, allontanandosi a lunghi passi irritati. «Altezza, vi prego di scendere. Non vi faremo alcun male» disse l’altro soldato. Lerer lo squadrò da capo a piedi. Era un tipo alto e snello, tutto muscoli, pancia piatta, fianchi stretti e spalle larghe. Pensò freddamente che le sarebbe potuta andare peggio, anche se per la verità sarebbe stata lei quella con tutti i diritti di imprecare e sputare, visto come finivano di solito faccende del genere. Scese dalla carrozza con un saltello e si guardò attorno. Contò otto mercenari. Contò i cadaveri di tutti e quindici i soldati della scorta. «Non vi impressionate. Ora ce ne andiamo» disse Serath, lì. «Non mi impressiono» confermò Lerer, freddamente. «Chi sei tu?». «Serath Enrt, comando questo drappello. Vorrei che capiste che non eravate voi il nostro obbiettivo. Il nostro... signore, non ha nulla contro di voi. Non pensavamo che Blaten viaggiasse in compagnia. I due carri coperti che sono fuggiti...» Lerer sospirò. «Traspostavano le mie cose. Ero in viaggio verso l’Attiria, per sposarmi». L’altro socchiuse gli occhi. «La vostra dote è là sopra?» chiese. Smascherato, pensò Lerer, mantenendo un’espressione indifferente. «La mia dote è già stata consegnata tempo fa. Su quei due carri c’era soltanto il mio corredo». «Serath!» richiamò la sua attenzione uno dei mercenari. Lui annuì. «Altezza, dobbiamo andare. Sapete cavalcare, presumo». Lerer guardò i cavalli che tiravano la carrozza. Uno era morto, l’altro rantolava a terra, le gambe spezzate dal peso del primo. «Monterete con me, per il momento» disse Serath. Lerer si mantenne completamente inespressiva. L’uomo con la barba rossiccia condusse verso di loro per le briglie un alto leardo. Serath le prese senza una parola e volteggiò sulla sella. Quindi si chinò verso di lei. «Permettete» disse, senza renderla davvero una domanda. Lerer montò in sella senza aiuto, sedendosi all’amazzone. La sella non era fatta per quello, ma il vestito della principessa, d’altro canto, non era fatto per cavalcare in arcione. Serath non commentò, ma spronò il cavallo con un colpo dei talloni. Lerer si tenne al pomolo, guardandosi attorno. Uno dei mercenari aveva finito il cavallo rantolante, ma nessuno aveva fatto nulla per le spoglie dei soldati. In quanto al duca di Taselm, giaceva a faccia in giù dove era stato freddato. «Devo considerarmi vostra prigioniera, presumo» disse, cercando di tenere la voce ferma. «Se volete» rispose Serath. Sapeva di cuoio, di ferro e di sudore fresco. «Oppure potete vederla così: vi scorteremo fino a Worarche, dove sarete liberata». Lerer gli lanciò un’occhiata gelida. Worarche era a quattro giorni di distanza verso est, in direzione perpendicolare rispetto all’Attiria. Non era sicura di sopravvivere a quattro giorni insieme a un drappello di mercenari. Anzi, era piuttosto sicura di lasciarci le penne, se non riusciva in qualche modo a contenere i danni. «Dormo con te» spiegò, senza lasciar trapelare nulla. «Terrai gli altri alla larga, giusto?». Per la prima volta negli occhi distaccati del mercenario vide passare un lampo di rabbia. Il lampo scomparve velocemente, ma la sua voce fu decisamente fredda, quando rispose: «Non avete capito, altezza. Nessuno vi torcerà un capello. Non siamo quel tipo di mercenari. Adesso restate in silenzio, per favore». Lerer obbedì. Che non fossero quel tipo di mercenari era un’idiozia bella e buona, dato che esisteva solo un tipo di mercenari: il tipo che arrotonda depredando e saccheggiando, terrorizzando le campagne quando è senza committente e stuprando tutto quello che incontra. Ma se Serath Enrt, lì, voleva raccontarsi di essere diverso Lerer non poteva farci niente. Quando quella sera, dopo aver bevuto, avessero deciso di passarsela, Lerer avrebbe provato di nuovo a concedersi a uno solo. Era una nobile, era di sangue reale, questo era vero, ma non era un’ingenua. Sapeva come comportarsi in quasi tutte le circostanze. A quelli come lei insegnavano a sopravvivere. E in una circostanza come quella, in cui la scelta era tra finire infilzata da otto soldati a turno o da uno solo più cattivo degli altri... be’, non era così difficile decidere che cosa preferiva. O non-preferiva meno. Il drappello di mercenari risalì la strada fino al crocicchio che il suo convoglio aveva superato tre ore prima. Procedevano al trotto e Lerer era piuttosto sballottata. Il suo vestito elegante le tirava ed era scomodo. Il bustino troppo stretto la stava uccidendo. La strada era deserta, un po’ per l’orario (il sole stava per calare) un po’ per la stagione. Era ancora freddo e in alcune zone c’erano ancora dei cumoli di neve. Sull’Altopiano la neve era ancora dappertutto. Il sole scese oltre la cima degli alberi e Lerer rabbrividì. Serath si chinò su una delle bisacce e sganciò una coperta che puzzava di cavallo. Gliela mollò tra le mani senza una parola. «Grazie» mormorò lei. «Niente. Tra non molto ci fermeremo per la notte. Vi prego di non dire... sciocchezze, attorno al fuoco». Lerer annuì. Non avrebbe detto proprio niente, se era quello che volevano. Non aveva nessuna intenzione di irritarli. L’unico motivo per cui era ancora viva probabilmente era il riscatto che speravano di scucire a sua madre. In un certo senso, quindi, le cose non andavano troppo male. Se suo padre fosse stato ancora vivo... be’. Lerer non era sicura che il vecchio re Elmtor avrebbe pagato per riavere una figlia ormai inutile, ma sua madre avrebbe pagato. Sua madre le voleva bene, in un certo senso. Il drappello lasciò la strada principale per infilarsi nel fitto sottobosco. I cavalli procedettero in fila indiana fino a trovare una radura solo parzialmente innevata. Serath smontò di sella con un mezzo volteggio, per poi tendere la mano a Lerer. «Marten, Verli... fate legna. Hargas, pensa alla cena. Voi tre, i cavalli. Tu, Kandre, prepara le trappole». «Sì, Serath» borbottarono loro, mettendosi subito in moto. Lerer, avvolta nella coperta puzzolente, si guardo attorno, sgranchendosi le gambe. «Posso aiutare» disse. Serath le lanciò una lunga occhiata. «Raccogliete felci e foglie asciutte, potete farlo?». Lei annuì. In un certo senso la stupiva che l’avesse lasciata allontanarsi nel bosco, anche se in effetti non aveva motivo di temere una sua fuga. Da quelle parti non mancavano i lupi e gli orsi: Lerer, da sola, a piedi, senza cibo né acqua, non sarebbe durata molto. Con loro... be’, con loro non era sicuro che sarebbe durata di più, ma aveva almeno una possibilità. Avvolta in quella ributtante coperta, fece del suo meglio per soddisfare la richiesta degli uomini da cui dipendeva la sua vita. +++ Avevano cenato attorno al fuoco. Hargas, il tizio con la barba rossiccia, aveva preparato della zuppa di cereali, che avevano mangiato con del pane un po’ secco e della carne sotto sale. Un biondino più giovane e più ciarliero degli altri, Verli, aveva raccontato una storia di cavalieri, draghi e magia, suscitando una serie di commenti scettici. Nessuno aveva chiesto niente a Lerer. Nessuno le aveva rivolto la parola, in pratica. Solo Serath ogni tanto si informava su di lei. Aveva freddo? Aveva ancora fame? Era stanca? Erano domande puramente formali, alle quali Lerer rispondeva sempre “no, no” scrollando le spalle. In realtà aveva freddo, era stanca e, specialmente, aveva paura. Le faceva paura la foresta ormai buia come un pozzo, le facevano paura i rumori lontani degli animali, le facevano paura gli sguardi che ogni tanto qualcuno le rivolgeva. Sguardi valutativi. Lerer era giovane, era bella, aveva i lineamenti delicati e il corpo esile di una ragazza ancora da maritare. Sapeva benissimo che non se la sarebbe cavata così. Finito di mangiare, tuttavia, i mercenari iniziarono ad avvolgersi nelle coperte e a stendersi sulle felci vicino al fuoco. Alcuni si alzarono e scomparvero nel bosco, per tornare poco dopo più vuoti. Si udirono un paio di peti e ci fu qualche risata. Anche Lerer doveva andare e, specialmente, doveva trovare il modo di liberarsi di quel dannato bustino, le cui stecche ormai le avevano fatto dei buchi nella carne. «Dovrei...» iniziò, rivolta a Serath. «Potrei...» «Andare nel bosco? Ma certo». «È buio e...» sussurrò lei. I denti le battevano per il freddo e per la paura, non poteva farci assolutamente nulla. Aveva tenuto duro tutto il giorno, ma ora era notte e alla notte nessuno riesce a essere coraggioso come sotto alla luce del sole. «Vi do una lanterna» disse lui, alzandosi un po’ a fatica. Aveva bevuto, Lerer l’aveva visto. Forse aveva bevuto un po’ troppo, non lo conosceva abbastanza da giudicare. La precedette fino alle sue bisacce e ci frugò dentro a tentoni. Trovò una lanterna di latta piuttosto ammaccata, la cui miccia accese dal falò. Gliela consegnò. Si guardò attorno, contò i suoi uomini. «Andate da quella parte. Siete sola». Lerer si inoltrò tra i cespugli e le felci. La lanterna mandava una luce fioca, tremolante, e puzzava di grasso rancido. Si allontanò abbastanza perché i mercenari non la sentissero orinare, ma non di più. Quindici, venti metri. Si accucciò dietro un cespuglio, si abbassò le mutande e fece pipì. Si asciugò con una foglia che poi gettò lontano. A quel punto iniziava la parte più difficile. Di solito Lerer non si vestiva e non si svestiva da sola. La sua cameriera personale era su uno dei carri che erano riusciti a sfuggire all’attacco, e Lerer era contenta per lei, ma di certo la sua assenza le complicava la vita. Si liberò della coperta puzzolente di cavallo e si contorse per arrivare alla chiusura del vestito, che ovviamente era sulla schiena. Il freddo le desensibilizzò la punta delle dita in pochi minuti, rendendole ancora più difficile disfare i piccoli nodi. Solo per aprire il vestito ci mise un’infinità di tempo. Alla fine riuscì a sfilarsi la parte superiore e a togliersi la camiciola che portava sotto. La sua pelle si coprì istantaneamente di pelle d’oca. Si contorse per cercare di arrivare alla chiusura del corpetto, sul retro pure quella. Riuscì ad allentare parzialmente un nodo, ma scoprì che in questo modo ne aveva stretto a dismisura un altro. Le facevano male le braccia, a forza di contorcersi. Rabbrividiva e le dita le erano diventate del tutto insensibili. «Va tutto bene?» le giunse la voce metallica di Serath, più o meno dalle parti del falò. «Se l’è svignata» disse un altro. E sputò, Lerer lo sentì benissimo. «Ehm, non proprio» ammise lei, con i denti che battevano. Ci fu un istante di silenzio. «Vi serve aiuto o...» chiese Serath, piuttosto incerto, dopo un po’. «In realtà... sì, suppongo di sì». Sentì i suoi passi tra i cespugli e sulle foglie. Passi cauti, o così sembrava. Alla fine scostò una felce con le mani e guardò dalla sua parte. Di primo acchito sembrò seccato. «Che cosa...» iniziò. «Per favore, non...» balbettò lei, distogliendo lo sguardo. Ormai rabbrividiva intensamente e stava per decidere di tenersi quel maledetto bustino e correre il rischio di morire soffocata nel sonno. «Ah, capisco» disse Serath, comunque. «Posso tagliarlo». Lerer annuì. «Sì, per favore. Non... respiro». «Be’, sì. Non so come abbiate fatto finora. Voltatevi». Lei si voltò. Serath tagliò via le fettucce, semplicemente, liberandola all’improvviso. I suoi seni sembrarono balzare in avanti, mentre la sua cassa toracica finalmente riusciva a espandersi. Lerer fu veloce a rinfilarsi la camiciola e la parte superiore del vestito. «E potreste anche...» Serath sospirò. «Passatemi quella lanterna. Anzi, tenetela in alto. Sì, così. Mmh... se tiro qua... e poi qua... qua devo fare un nodo?». «U-un fiocco». Lui rise sottovoce. «Giusto, un fiocco. Per fortuna avete gli occhi sul davanti, altezza». Sorrise anche lei e si riavvolse nella coperta puzzolente. «Siete stato molto gentile». «Non è nulla. Questo dove... voglio dire, intendete tenerlo o...» Questa volta fu lei a ridere. «E tornare al falò con il mio bustino in mano? Non credo». Glielo prese e lo lanciò tra i cespugli. Attorno al fuoco i mercenari si erano ormai imbozzolati nelle coperte per la notte. Di loro restavano fuori giusto le facce, a volte neanche quelle. Lerer si sedette accanto al falò e Serath le passò senza una parola un’altra coperta e una pelle di pecora piuttosto puzzolente. La aiutò a coprirsi bene, prima di stendersi a un metro buono di distanza. Mentre cercava di mettersi comoda Lerer sentì qualcuno che ridacchiava. «Se lo scopre Enid ti scanna» disse quella persona, a mezza voce. «Stai zitto» fece un altro. Di nuovo una risatina. Lerer capì che era Verli, il più giovane dei mercenari. «Dai, scherzavo. Lo so che Serath non farebbe mai...» «Stai zitto, idiota» ribadì l’altra voce. Hargas, probabilmente. «Sul serio, Lince, non ti sei offeso, vero?». Serath si decise a rispondergli. «Non mi sono offeso. Adesso dormi, dannazione». In quel momento Lerer capì finalmente chi fosse.
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